Categoria: In primo piano
Criptovalute, rischi dal Far West di 50mila nuovi token al giorno
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 17 Settembre 2025 di Vito Lops
Nascono come funghi. Il numero di criptovalute in circolazione ha superato quota 21 milioni. Ogni giorno vengono lanciati e resi scambiabili all’interno di un mercato composto da 850 exchange su scala globale non sempre regolamentati, circa 50mila token digitali (fonte Coinmarketcap). La capitalizzazione del settore ha superato per la prima volta nella storia 4mila miliardi di dollari (quattro volte il valore delle azioni quotate a Piazza Affari). Se si escludono però i due progetti più istituzionali, ovvero Bitcoin (capitalizza 2.300 miliardi) ed Ethereum (500 miliardi) e se escludiamo anche la quota di mercato delle principali stablecoin agganciate al dollaro (170 miliardi per Usdt e 73 miliardi per Usdc), possiamo dedurre che i restanti circa 1.000 miliardi sono oggi posizionati su token di vario genere. Dalle superspeculative memecoin a progetti tecnologici sulla carta più seri (come le blockchain Solana, Sui, ecc.) passando per schemi Ponzi conclamati. Un far west di token che, al di là delle intenzioni in buona o mala fede di partenza dei creatori, nascondono in ogni caso un peccato originale che mal si concilia con una logica di investimento di lungo periodo. Perché spesso fanno leva sulla confusione tra il concetto di token e quello di azione. Tra questi due strumenti finanziari c’è un enorme differenza. Un token è emesso da una piattaforma, una start up o una blockchain, dunque sembra naturale immaginare che possederlo equivalga, almeno in parte, a detenere una quota di quella realtà. Ma non è così, e l’equivoco può costare caro.
Le azioni rappresentano un diritto codificato: proprietà, voto, dividendi, partecipazione agli utili e, in ultima istanza, alla liquidazione. Il valore dell’azione è legato alla capacità dell’azienda di generare utili e distribuirne una parte agli azionisti.
Un token, invece, non rappresenta proprietà della blockchain o della società che lo emette, salvo rari casi di security token regolamentati.
Il punto cruciale è che la crescita tecnologica o commerciale di un progetto non implica necessariamente l’aumento di valore del token associato. Anche perché c’è un altro aspetto da considerare: il macigno della diluizione. Spesso i token sono pre-minati e distribuiti in grandi quantità ai fondatori e ai primi investitori. Col passare del tempo, quando questi soggetti decidono di monetizzare, immettono grandi volumi sul mercato, facendo pressione sui prezzi. A differenza del mercato azionario, dove i lock-up e le regole di disclosure sono stringenti, nell’universo cripto la trasparenza è minima e la gestione dell’offerta è a totale discrezione del team di sviluppo. Inoltre, la tokenomics di molti progetti consente emissioni teoricamente illimitate di nuovi token, utilizzati per finanziare le spese operative, pagare gli sviluppatori o incentivare gli utenti tramite programmi di reward. Questa creazione costante di offerta funziona di fatto come una “stampante monetaria interna” e genera una diluizione continua per chi già detiene il token, minando le prospettive di rivalutazione nel lungo termine.
Un ulteriore aspetto da chiarire è la dinamica della quotazione dei token sugli exchange. A differenza delle Ipo tradizionali, che rappresentano l’ingresso regolamentato di una società sul mercato e impongono vincoli di trasparenza e lock-up agli investitori iniziali, nel mondo cripto il listing funziona spesso come una exit strategy per i venture capital. I fondi che hanno acquistato grandi quantità di token a prezzi irrisori nelle fasi di seed o private sale, quando il progetto era ancora embrionale, sfruttano il momento della quotazione per iniziare a liquidare le loro posizioni. Il retail si trova così a comprare a valutazioni già gonfiate, senza conoscere con precisione la distribuzione dei token né i piani di vesting degli insider. Il risultato è che, nei mesi successivi al listing, la pressione in vendita dei primi investitori schiaccia il prezzo, mentre la domanda di nuovi utenti non è sufficiente a compensare. Ecco perché per molti token il debutto sugli exchange non segna l’inizio di una fase di crescita, ma piuttosto il momento in cui il rischio viene trasferito dai professionisti agli investitori al dettaglio.Per questo, chi investe in token deve avere consapevolezza della propria scelta: non sta comprando un pezzo di un’azienda,ma spesso sta remunerando – e a caro prezzo – i finanziatori privati della prima ora.
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Compensi da noleggio senza ritenuta
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 19 Settembre 2025 di Alessandra Caputo
I compensi percepiti in relazione all’attività di noleggio di beni non devono essere assoggettati alla ritenuta a titolo d’acconto prevista dall’articolo 25-bis Dpr 600/1973. Lo precisa la risposta 250 pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate.
L’istanza è stata presentata da una società che aveva sviluppato un software in grado di consentire il noleggio e la vendita online di articoli di abbigliamento e accessori da parte di propri partner e nei confronti di clienti finali.
Con la stipula del contratto con il partner, la società di software si impegnava a realizzare un sito web finalizzato al noleggio online ed alla vendita dei prodotti; a concludere con i clienti, in nome proprio ma per conto del partner, contratti di noleggio dei prodotti attraverso la piattaforma; a concludere con i clienti, tramite la piattaforma, contratti di vendita dei prodotti, alle condizioni dell’Istante ed al prezzo convenuto tra le parti, previo acquisto degli stessi da parte dell’Istante; e a effettuare i servizi, a proprio rischio e con l’organizzazione dei propri mezzi, di deposito e movimentazione dei prodotti. Ciascun partner avrebbe inoltre consegnato i prodotti all’interno del magazzino e gli stessi, in quel momento, sarebbero entrati nella disponibilità dell’Istante che si impegnava a custodirli con diligenza e a utilizzarli esclusivamente per il noleggio o la vendita nei termini e nei modi indicati nel contratto. A fronte dell’attività ogni partner entro il 15 di ogni mese, avrebbe emesso fattura nei confronti dell’Istante per il totale dei corrispettivi dei noleggi effettuati nel mese solare precedente al netto del corrispettivo dell’Istante.
Il dubbio oggetto dell’interpello è se su questi compensi, pagati a fronte del noleggio, si dovesse applicare o meno la ritenuta di cui all’articolo 25-bis del Dpr 600/1973 prevista per i soggetti che corrispondono provvigioni.
La risposta dell’Agenzia è negativa: nell’elenco contenuto nell’articolo 25-bis non sono inclusi i compensi percepiti per l’attività di noleggio. Con riferimento all’oggetto della ritenuta, la circolare ministeriale 24 del 1983 ha specificato che la provvigione da assoggettare a ritenuta è costituita dai compensi percepiti per l’attività svolta dal commissionario, dall’agente, dal mediatore, dal rappresentante di commercio e dal procacciatore d’affari. Tale elencazione, sempre secondo la circolare richiamata, è da considerarsi tassativa. Pertanto, considerato che l’attività di noleggio non rientra in nessuna dei rapporti elencato, nessuna ritenuta è applicabile.
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Scadenziario Novembre 2025
30 Settembre 2025
entro il 20 Novembre
- Scade il termine per il pagamento dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S. F.S.S. e FONDISS per lavoratori dipendenti relativi al mese di ottobre.
entro il 30 Novembre
- termine di pagamento per lavoratori autonomi e ditte individuali dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S., F.S.S. e FONDISS relativi all’anno in corso;
- ai sensi dell’art. 39 Legge 130/2010 così come modificato dal D.D. nr 118 del 02/08/2019 – Norme di semplificazione burocratica per le imprese – i titolari di licenze di commercio al dettaglio non devono più comunicare i periodi di chiusura annuali all’Ufficio Attività Economiche ma solo giorno di chiusura infrasettimanale; la comunicazione va effettuata anche in caso di rinuncia al giorno di chiusura. Si ricorda di affiggere sempre all’entrata principale gli orari di apertura e chiusura in maniera visibile anche all’esterno.
- Si ricorda alle imprese titolari di licenza di commercio al dettaglio che volessero aderire alle vendite promozionali del “Black Friday” che ai sensi del D.D. 50/2024 art. 23 comma 10 non è più necessario darne comunicazione all’Ufficio Attività Economiche. Tale obbligo rimane solo per le vendite di liquidazione e vendite sottocosto tramite istanza OPEC indicando:
– date di inizio e fine;
– tipo di prodotti posti in promozione;
– percentuale minima e massima di sconto che si intende applicare
entro il 1° Dicembre
- termine di pagamento del secondo acconto dell’imposta generale sui redditi (I.G.R.) sia per le persone fisiche (lavoratori autonomi e ditte individuali) che per le persone giuridiche
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Il marchio ceduto non è ramo d’azienda
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2025 di Alessandro Germani
Ai fini Iva viene confermato che la cessione di marchi, anche se accompagnati da diritti IP (proprietà intellettuale) collegati, non costituisce ramo d’azienda e rileva ai fini del tributo. A livello di transfer pricing poi gli aggiustamenti di prezzo collegati a determinate transazioni rilevano anch’essi.
Nella risposta 210 del 19 agosto viene interrotto un contratto di licenza per acquisire il relativo marchio e i diritti IP collegati e l’istante si domanda se si tratti di una cessione di azienda/ramo, come tale esclusa dal tributo, o di una prestazione di servizi imponibile Iva (con il registro in misura fissa per il principio di alternatività). Nel confermare quest’ultima tesi e nel richiamare i precedenti unionali e di prassi amministrativa sulla nozione di azienda e di ramo, le Entrate evidenziano i driver per capire come vada inquadrata l’operazione. Non si tratta infatti di ramo perché sono ceduti degli asset isolati, non c’è passaggio di personale, non sono cedute le relazioni finanziarie, commerciali e personali né ci sono subentri. Il marchio quindi si configura come un servizio la cui cessione è imponibile ex articolo 3 del Dpr 633/72. Ciò vale anche nel caso in cui con esso si cedano i diritti IP collegati per lo sfruttamento del marchio stesso.
La risposta 214 riguarda degli aggiustamenti di Tp fra società del medesimo gruppo effettuati a livello trimestrale per adeguarsi alle risultanze del metodo del Tnmm (transactional net margin method) utilizzato mediante il Ros (reddito operativo/vendite) per verificare che il prezzo operato sia di libera concorrenza. Il caso di specie appare piuttosto laborioso in quanto gli aggiustamenti sono effettuati su base trimestrale, quando nella prassi generalmente sono effettuati su base annua a consuntivo. Sulla base dei risultati a quel punto scatterà una variazione in aumento o in diminuzione entro 45 giorni dalla fine del trimestre di riferimento. Occorre quindi comprendere se gli aggiustamenti siano rilevanti ai fini Iva, il che determina in acquisto la detrazione dell’Iva, che le Entrate avevano contestato in accertamento. L’Agenzia richiama il Working Paper n. 923 del 2017 della Commissione Europea e il documento del 18 aprile 2018 n. 081 REV2 del VAT Expert Group. In base a tali pronunce gli aggiustamenti sono generalmente esclusi da Iva, a meno che non si configurino come variazione di corrispettivo e siano collegati direttamente alla fornitura iniziale. La stessa Agenzia nella risposta 60/18 e 529/21 ha evidenziato per la rilevanza Iva i seguenti tre elementi:
onerosità dell’operazione;
individuazione dell’operazione a cui si riferisce il corrispettivo;
collegamento diretto.
Nel caso di specie sono effettuati aggiustamenti periodici in base al Tnmm con variazioni in aumento o in diminuzione, vi è un documento ( breakdown) da cui si evincono gli aggiustamenti e le operazioni a cui essi si riferiscono, motivo per cui c’è un collegamento diretto. L’operazione rileva quindi ai fini Iva come non imponibile, oppure con emissione di autofattura in caso di acquisti di beni in Italia da soggetto non residente.
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Residenza fiscale e redditi esteri tassati al momento dell’incasso
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 22 Agosto 2025 di Barbara Emma Pizzoni Stefano Grilli
Con la risposta a interpello 199 del 4 agosto, l’agenzia delle Entrate ha ritrattato la risposta 81 del 25 marzo scorso. La tesi espressa nella pronuncia di marzo non rappresenta un caso isolato, poiché il principio della rilevanza della residenza al momento della prestazione lavorativa era già stato affermato in più occasioni. Sia in relazione a trattamento di fine rapporto e incentivo all’esodo (risoluzione 1° agosto 2008, n. 341/E nonché le risposte a interpello, 11 settembre 2020, n. 343 e 1° agosto 2024 n. 167) sia con riferimento specifico ai compensi variabili dei manager (risposta 20 gennaio 2023, n. 126).
La risposta 199 riguarda il bonus incassato da un manager divenuto residente ai fini fiscali in Italia ma riferito a un periodo lavorativo (vesting) nel quale aveva lavorato ed era stato residente nel Regno Unito.
Il punto oggetto del (corretto) revirement dell’Agenzia riguarda i diritti impositivi dell’Italia in base al trattato con il Regno Unito (conforme sul punto al Modello Ocse). Per le convenzioni per evitare le doppie imposizioni è pacifico che lo Stato della fonte (working state) conservi il diritto di assoggettare a imposizione sui redditi derivanti dal lavoro ivi svolto, a prescindere dal momento in cui le somme sono percepite e assoggettate a imposta (Commentario all’articolo 15 Modello Ocse, paragrafo 12.1).
Lo Stato di residenza del lavoratore, invece, può assoggettare a imposta la remunerazione differita tutte le volte in cui quest’ultimo sia ivi residente al momento del verificarsi del presupposto impositivo in base alle regole interne di quello Stato e fermo restando l’obbligo di eliminare (tramite esenzione o credito di imposta) la doppia imposizione.
L’articolo 15, infatti, non riguarda lo Stato di residenza del lavoratore, il quale applica i propri criteri interni di tassazione (in Italia in base al principio di cassa). Il punto è chiarito nel report «Cross-border Income Tax Issues Arising from Employee Stock-Option Plans» del 16 giugno 2004, le cui conclusioni sono state poi recepite nel Commentario.
Nella risposta 81, l’Agenzia aveva invece sostenuto che, ai fini convenzionali, la residenza andasse verificata con riferimento al momento della maturazione del reddito e non a quello dell’incasso. Correttamente, dunque, l’Agenzia, nella rettifica, riconosce invece il diritto dell’Italia di assoggettare a imposta il bonus percepito dal manager in ragione della sua residenza in Italia al momento dell’incasso, con applicazione del credito d’imposta (articolo 165 Tuir).
Con la risposta 199 l’Agenzia ha, dunque, corretto il tiro in materia di bonus, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi rettificato anche quanto affermato nella risposta 20 gennaio 2023, n. 126. Ratione materiae e per coerenza, l’Agenzia dovrebbe aver implicitamente modificato la propria posizione negli altri casi in cui ha adottato la medesima interpretazione. Si veda, ad esempio, la risposta all’istanza di interpello 11 settembre 2020, n. 343 con riferimento a un Tfr e a un incentivo all’esodo percepito da non residente che aveva lavorato all’estero nel periodo di maturazione pur mantenendo la residenza in Italia. In tale contesto, l’Agenzia aveva affermato la potestà impositiva interna in virtù della residenza italiana durante il periodo di maturazione. Tale interpretazione dovrebbe considerarsi superata a favore della non imponibilità in considerazione della mancata residenza italiana al momento della percezione dei redditi (oltre che dell’assenza di prestazioni lavorative svolte nel territorio dello Stato).
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Stabile organizzazione occulta con criteri stretti
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 26 Agosto 2025 di Enrico Holzmiller
Non si configura la presenza di una stabile organizzazione occulta nel caso in cui l’incidenza della casa madre si limiti a un’attività di direzione e coordinamento. È la conclusione della CgT di secondo grado della Lombardia con la sentenza 57/2025 (presidente Secchi, relatore De Domenico). Conclusione solo apparentemente scontata. Innanzi tutto, la correlazione tra il concetto di direzione e coordinamento, che richiama una sfera tipica della governance, e quello di stabile organizzazione, non è banale, atteso che la sfera decisionale è attrattiva della residenza fiscale e quindi correlata al concetto di esterovestizione. La sentenza quindi, seppur indirettamente, conferma il sottile confine a tra i due concetti, perlomeno per come vengono trattati, in modo spesso non univoco, nel caso di verifiche fiscali.
Nulla quaestio sulla differenza teorica tra stabile organizzazione e società esterovestita: mentre la prima è una sede secondaria estera di società residente, l’esterovestizione identifica una società “autonoma”, formalmente residente all’estero ma italiana ai fini fiscali.
Se la distinzione concettuale è chiara, nella pratica è più fluida, secondo la giurisprudenza (per la verità non consolidata) che identifica l’esterovestizione anche in assenza di fenomeni abusivi, ovvero anche nel caso in cui non vi sia la “scatola vuota” ma una organizzazione presente all’estero (si vedano le ordinanze di Cassazione n. 11709 e 11710 del 2022).
La sentenza in commento è interessante per valutare l’approccio nel contesto che trova il discrimine focalizzando l’attenzione non tanto sul PoEM (Place of Effective management), quanto sulla autonomia organizzativa della società estera rispetto alla controllante italiana, tale per cui l’incidenza decisionale di sulla branch si riduce “per differenza” a una mera attività di D&C.
L’innesco della verifica fiscale parte dall’analisi della documentazione della società italiana in materia di transfer pricing, dalla quale i verificatori evincono l’assenza di rischi in capo alla controllata estera (fornitrice di beni alla società italiana) oltre all’esistenza di una fee riconosciuta dalla prima alla seconda in relazione al volume di vendite raggiunto.
Le caratteristiche in capo alla branch straniera che hanno inciso sulla decisione dei giudici sono, in sintesi:
l’esistenza di un organigramma atto a provare il presidio sull’intero ciclo aziendale, sia con riferimento ai processi interni che esterni;
La prova della conclusione in via autonoma di contratti di acquisto di materie prime;
La gestione indipendente dei rapporti commerciali e contrattuali con il fornitore di energia elettrica, la cui incidenza rispetto agli altri costi di gestione risultava preponderante;
La prova di una assenza di dipendenza finanziaria nei confronti della controllante italiana.
Ne consegue, secondo la Cgt, che le attività gestionali della casa madre italiana si riducono, nei fatti, a quelle che a pieno titolo una capogruppo esercita sul proprio gruppo multinazionale, nell’ambito delle funzioni di direzione e coordinamento che alla stessa competono in funzione di tale ruolo.
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Deroga al segreto professionale, serve il permesso del magistrato
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore lunedì 25 Agosto 2025 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Se nel corso di una verifica un professionista oppone il segreto professionale, è necessario un provvedimento ad hoc del magistrato, non essendo sufficiente una preventiva e generica autorizzazione che consenta di derogare al segreto professionale.
A fornire queste interessanti indicazioni è la Corte di cassazione con l’ordinanza 17228 depositata il 26 giugno scorso.
In estrema sintesi, un avvocato, nel corso di una verifica fiscale della Guardia di Finanza eccepiva il segreto professionale rispetto a un blocknotes contenente, secondo i finanzieri, l’indicazione dei nominativi dei clienti e dei compensi incassati.
A fronte di questa eccezione, i finanzieri notificavano l’autorizzazione della Procura all’acquisizione di documentazione in deroga al segreto professionale, che tuttavia era antecedente rispetto al momento di formulazione dell’eccezione.
Il successivo avviso di accertamento, che contestava un maggior imponibile, si fondava anche sui dati contenuti nel citato blocknotes.
Il professionista lamentava che a fronte dell’eccezione del segreto professionale, l’autorizzazione era temporalmente antecedente e di conseguenza non indicava la documentazione da acquisire in deroga al segreto. Si trattava quindi di un’acquisizione illegittima dei documenti che inficiava anche il successivo accertamento.
Mentre i giudici di primo grado respingevano il ricorso del contribuente, quelli di appello lo accoglievano. L’Agenzia nel ricorso per Cassazione eccepiva, in estrema sintesi che la norma di riferimento non prescrive che l’autorizzazione debba essere richiesta in un momento successivo all’eccezione sollevata dal professionista.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, evidenziando che se nel corso dell’accesso nello studio professionale sia eccepito il segreto relativamente a determinati documenti, gli operanti possono esaminarli solo in forza di un’autorizzazione ad hoc. Detto provvedimento deve essere successivo al verificarsi della situazione che ne aveva imposto il rilascio e riferirsi specificamente ai documenti per i quali l’esigenza si è manifestata.
Non è sufficiente un’autorizzazione preventiva e generica.
La decisione è pienamente condivisibile. Peraltro è in linea non solo con l’orientamento delle sezioni unite ma con la nuova previsione contenuta nell’articolo 7-quinquies della legge 212/2000 in base alla quale non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento del tributo gli elementi di prova acquisiti in violazione di legge e non vi è dubbio che la legge (articolo 52, Dpr 633/72) richieda una autorizzazione ad hoc.
Va detto, per completezza, che nelle circolari emanate negli anni dal Comando generale della Gdf sull’attività di verifica, per queste ipotesi è stata sempre evidenziata la necessità di una autorizzazione ad hoc da richiedere alla competente autorità giudiziaria. Nella specie, l’intera vicenda (proseguita su tre gradi di giudizio, l’annullamento dell’accertamento e la condanna alle spese) deriva, probabilmente, da una inosservanza dei verificatori delle direttive centrali della Gdf.
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Europa, Stati Uniti, Giappone: impennata per i tassi dei bond
9 Settembre 2025
L’inflazione non pare del tutto ancora domata, negli Stati Uniti e anche in alcuni paesi europei come la Germania, e condiziona l’umore degli investitori. Il dato pur in linea con le attese registrato ieri dall’indice dei prezzi al consumo personali statunitensi (+2,6% annuo a luglio e +2,9% nella sua versione core depurata dale componenti più volatili) mantiene il livello del carovita al di sopra degli obiettivi della Federal Reserve. Non mette verosimilmente a rischio il taglio dei tassi da 25 punti base, ormai largamente scontato a settembre, ma pone qualche dubbio in più sulle mosse successive della Banca centrale di Washington.
Sotto questo aspetto si può quindi interpretare la reazione negativa dei mercati, con la battuta d’arresto di Wall Street rispetto ai massimi storici raggiunti ancora una volta il giorno precedente che ha a sua volta frenato i già incerti listini europei (Piazza Affari ha ceduto lo 0,59% in buona compagnia del resto del Continente). E soprattutto la continua pressione sui rendimenti dei titoli di Stato, ieri in avanzata in tutte le aree del globo: due punti base in più per i Treasury Usa (4,23%), tre per i Bund tedeschi (2,72%) e per il nostro BTp (3,61%).
L’avanzata dei tassi
A differenza dei tassi dei titoli a scadenza più ravvicinata, che proseguono più o meno nella loro marcia verso la riduzione perché più sensibili ai 91 tagli dei tassi compiuti finora da inizio anno dalle Banche centrali (il ritmo di allentamento più sostenuto dal 2020 a livello globale), quelli con durata più lunga mostrano infatti una strenua resistenza. Dopo il balzo seguito all’aggressivo ciclo rialzista necessario per domare l’incendio dell’inflazione post-Covid, i tassi decennali sembrano per esempio ormai da almeno due anni congelati fra il 4 e il 5% negli Stati Uniti e fra il 2 e il 3% in Germania, tanto per citare due titoli che per la loro importanza fanno da metro di paragone per il mercato.
Altrove il fenomeno appare ancora più marcato: nella Francia alle prese con crisi di governo e finanze che rischiano di finire fuori controllo, oppure in una Gran Bretagna dove si sta valutando l’introduzione di nuove imposte per sistemare il bilancio e i tassi trentennali si sono spinti ai massimi del 2008 al 5,60 per cento. In Giappone su questa parte della curva si sono addirittura raggiunti nei giorni scorsi i massimi storici al 3,25% e la Banca centrale è dovuta correre al riparo con acquisti anche per tamponare la scarsa domanda che ha fatto saltare alcune aste pubbliche.
Il peso di inflazione e bilanci
Al di là delle questioni specifiche – alle quali si può idealmente aggiungere anche il caso del calo di fiducia che ha colpito gli Stati Uniti dopo l’annuncio dei dazi da parte di Donald Trump nel Liberation Day e l’incertezza legata alla continua sfida con la Fed e il suo presidente Jerome Powell – due sono gli indubbi elementi che accomunano il mondo intero e accompagnano ovunque l’avanzata dei rendimenti obbligazionari. Il primo motivo, come conferma la reazione ai dati di ieri, riguarda direttamente la persistenza dell’inflazione dopo anni, se non decenni, di livelli mediamente inferiori agli obiettivi desiderati dalle banche centrali, che si erano di conseguenza impegnate in politiche monetarie ultra-espansive tali da condurre in molti casi all’anomalia di valori addirittura sotto zero per i rendimenti sovrani.
La seconda ragione riguarda il ritorno in grande stile all’utilizzo della leva fiscale da parte dei Governi, anche dei più «insospettabili» come quello tedesco, che per finanziare le spese programmate hanno dovuto aumentare i livelli di debito e, conseguentemente anche le emissioni di titoli di Stato. A livello globale, secondo i dati più recenti pubblicati dal Global Debt Monitor dell’Institute of International Finance e aggiornati al 31 marzo di quest’anno, l’indebitamento complessivo del settore pubblico è cresciuto nel giro di mesi da 91.500 a oltre 97mila miliardi di dollari e si sta avvicinando sempre di più alla fatidica quota 100% rispetto al Pil (si è ormai arrivati al 97,9%).
Gli Stati Uniti giocano sotto questo aspetto senza dubbio il ruolo guida, con un debito federale che viaggia ormai a un livello record di 37mila miliardi: una montagna addirittura più alta rispetto al Pil combinato di Cina, Giappone, Germania e India. Anche gli altri Paesi recitano però la propria parte, nelle aree avanzate del globo come l’Europa la Gran Bretagna e lo stesso Giappone, ma anche nel mondo emergente. Il debito pubblico è in questo caso cresciuto di 3.300 miliardi, per un rapporto con il Pil che si è spinto fino al 72,7% e la Cina a fare da capofila con una quota rispetto alla ricchezza nazionale balzata in un anno di quasi 10 punti al 93,5 per cento.
La risposta dei mercati
Il maggior quantitativo di titoli di Stato destinato a piovere sui mercati nei prossimi anni per soddisfare il fabbisogno di bilanci pubblici sempre più elefantiaci tende in effetti a esercitare pressione sui rendimenti. Alla crescente offerta di carta corrisponde tuttavia un appetito ancora piuttosto marcato da parte degli investitori, attirati probabilmente da tassi di interesse che non si vedevano da tempo. Dall’inizio del 2025, secondo le rilevazioni di Epfr Global riportare da BofA Securities, i bond governativi sono stati in grado di attirare flussi netti in entrata per 24,8 miliardi, oltre 1,5 miliardi ancora l’ultima settimana. Le forze di mercato sembrano insomma in grado di sostenere gli sforzi degli emittenti sovrani e in parte anche di correggere certi eccessi provocati dai Governi, almeno per il momento.
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Delega di funzioni, giudici sempre più rigorosi con gli ad
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 13 Agosto 2025 di Alessandro De Nicola
Il tema della delega di funzioni nell’ambito della responsabilità penale degli amministratori delegati (Ad) è uno snodo cruciale per la corporate governance delle società complesse, soprattutto in settori ad alto rischio come infrastrutture, energia e grande industria. La recente sentenza della Cassazione penale, Sezione V, 14 luglio 2025 n. 25729, offre l’occasione per riflettere sull’evoluzione dei criteri giurisprudenziali in materia, mettendo a confronto l’attuale orientamento rigoroso con posizioni più “morbide” che hanno caratterizzato la prassi giudiziaria degli anni precedenti.
Nella moderna corporate governance, la delega di funzioni è uno strumento essenziale per garantire l’efficienza gestionale e la specializzazione delle competenze. In organizzazioni di grandi dimensioni, l’Ad non può materialmente sovrintendere a ogni aspetto operativo: la delega consente di attribuire compiti specifici a dirigenti e responsabili di area, favorendo una gestione più snella e reattiva che valorizza le competenze. Tuttavia, la delega non è solo un istituto organizzativo, ma assume anche una valenza giuridica fondamentale, in quanto può incidere sulla ripartizione delle responsabilità penali in caso di eventi dannosi.
La sentenza 25729/2025 della Cassazione è il punto di arrivo di un percorso giurisprudenziale che ha progressivamente irrigidito i requisiti di validità della delega di funzioni. Secondo la Corte, la delega può escludere la responsabilità dell’Ad solo se rispetta criteri molto stringenti. Eccone l’elenco.
Forma scritta e specificità: la delega deve essere formalizzata per iscritto e riferita a funzioni ben determinate, non potendo essere generica o indeterminata;
Effettività: il trasferimento dei poteri deve essere reale e non meramente cartolare; il delegato deve essere posto nelle condizioni di esercitare concretamente le funzioni attribuite;
Professionalità e autonomia di spesa: il delegato deve possedere le competenze tecniche necessarie e disporre di un’autonomia di spesa adeguata per l’esercizio delle funzioni delegate;
Contenuto specifico: la delega deve riguardare settori di competenza ben individuati e non può mai comprendere le scelte strategiche di fondo o i profili strutturali dell’organizzazione, che restano in capo all’organo apicale;
Alta vigilanza: anche in presenza di una delega valida, l’Ad mantiene un obbligo di «alta vigilanza» sull’operato del delegato, con dovere di intervento in caso di inadempimento.
La Corte sottolinea che la delega può avere effetto liberatorio solo se l’evento dannoso è riconducibile a una disfunzione occasionale nell’ambito delle funzioni delegate, mentre la responsabilità dell’Ad permane in caso di carenze strutturali, difetti organizzativi o scelte strategiche errate.
Non sempre la giurisprudenza ha richiesto requisiti così rigorosi. In passato, soprattutto prima della codificazione dell’articolo 16 del Dlgs 81/2008, la Cassazione ha talvolta adottato un approccio più flessibile. In alcune pronunce, è stato ritenuto sufficiente, ai fini dell’efficacia della delega, che il trasferimento delle funzioni e dei poteri fosse effettivo, anche in assenza di una formale delega scritta, purché fosse dimostrato che il delegato esercitava in concreto i poteri necessari (Cassazione, sezione IV penale, n. 24136/2016, Di Maggio, e n. 22606/2017, Minguzzi).
La svolta verso un approccio più rigoroso si è avuta con la sentenza delle Sezioni Unite sulla vicenda Thyssen (2014) e con la codificazione dell’articolo 16 del Dlgs 81/2008, che hanno fissato in modo tassativo i requisiti della delega di funzioni, almeno in materia di sicurezza sul lavoro. La giurisprudenza successiva ha esteso tali principi anche ad altri ambiti della responsabilità penale d’impresa, affermando che i requisiti della delega non possono essere meno rigorosi di quelli previsti dal legislatore: forma scritta, specificità, professionalità, autonomia di spesa e contenuto determinato. Questa estensione ad altri ambiti, come vedremo, apre una serie di questioni. La sentenza del 2025 conferma e rafforza questa linea, affermando che la delega non può mai riguardare le scelte strategiche di fondo e che l’Ad mantiene sempre un obbligo di alta vigilanza, la cui omissione può fondare una responsabilità per cooperazione colposa in caso di evento dannoso.
L’evoluzione giurisprudenziale descritta ha un impatto diretto sulla corporate governance delle società complesse. Da un lato, la necessità di formalizzare le deleghe secondo criteri rigorosi impone alle imprese di dotarsi di procedure interne chiare, di una documentazione accurata e di un sistema di controlli che consenta all’Ad di esercitare effettivamente l’alta vigilanza richiesta. Dall’altro, la tendenza a non riconoscere effetto liberatorio alla delega in caso di carenze strutturali o scelte strategiche errate rafforza la centralità della funzione di indirizzo e controllo dell’organo apicale, che non può mai essere completamente deresponsabilizzato.
Non bisogna nascondersi che, poiché questi principi si applicano a tutti gli ambiti di governo dell’impresa e la delega «non può mai comprendere le scelte strategiche di fondo o i profili strutturali dell’organizzazione», nelle strutture estremamente complesse si apre per gli Ad uno scenario per il quale molte loro risorse saranno assorbite da un esercizio della «alta vigilanza» (e non solo) anche in aree dove la loro specifica competenza
non è elevata.
La giurisprudenza più recente della Cassazione, culminata nella sentenza 25729/2025, segna un punto di non ritorno verso una concezione rigorosa della delega di funzioni, che impone alle imprese standard elevati di formalizzazione, effettività e controllo fondati sulla responsabilizzazione effettiva degli organi apicali e sulla centralità del sistema dei controlli interni.
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Il deposito cauzionale non è soggetto all’Iva
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 27 Agosto 2025 di Angelo Busani
Non può essere qualificata come acconto di prezzo – e tanto meno come caparra confirmatoria – la somma versata in sede di contratto preliminare di compravendita immobiliare e qualificata in tale contratto come “deposito cauzionale” (perché a garanzia delle obbligazioni assunte dalla parte promissaria acquirente) anche se l’importo del deposito cauzionale sia prossimo all’entità del prezzo pattuito tra venditore e acquirente e che quest’ultimo sia obbligato a corrispondere in sede di contratto definitivo.
È quanto la Cassazione decide con l’ordinanza 23857 di ieri, cassando la sentenza della Ctr Toscana 2350 del 30 ottobre 2017, la quale, a sua volta, aveva riformato la sentenza di primo grado: in quest’ultimo giudizio era stato annullato l’avviso dell’agenzia delle Entrate nel quale il predetto deposito cauzionale era stato riqualificato come “acconto”, pretendendone la conseguente tassazione.
L’argomento principale della Cassazione a supporto della sua decisione è che nell’interpretare un contratto, occorre anzitutto osservare il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate dai contraenti. Soltanto se vi sia una situazione di ambiguità può farsi ricorso ai criteri interpretativi dettati dalla legge: dapprima quelli definiti come criteri di interpretazione “soggettiva” (di cui agli articoli da 1362 a 1365 del Codice civile) e, se non sono sufficienti, quelli di interpretazione “oggettiva” (di cui ai successivi articoli da 1366 a 1371).
In altre parole, qualora il testo del contratto, per le espressioni usate, riveli con chiarezza e univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile: nel caso specifico la qualificazione come deposito cauzionale è stata ritenuta coerente con la funzione di garanzia che la somma in questione era preordinata a svolgere, secondo quanto stabilito nel contratto preliminare. Inoltre, non è risolutivo, secondo la Cassazione, notare che l’importo della somma qualificata come deposito cauzionale nel contratto preliminare sia pressochè identico all’importo del prezzo (in quanto analogamente può accadere per un acconto o una caparra confirmatoria). Il giudice della legittimità infine non manca di cogliere che si tratta di una vicenda per intero condotta (prima dall’Agenzia e poi nel corso di tutto l’iter giurisdizionale) nella prospettiva di accertare una elusione fiscale, vale a dire con l’intento di affermare la sostanziale natura di acconto per una somma formalmente qualificata come deposito cauzionale; la Cassazione rileva però che una contestazione esplicita in tal senso non è mai stata effettuata prima del giudizio e nel corso del suo svolgimento e che non è stato svolto il procedimento per acclarare l’elusione prescritto attualmente dall’articolo 10-bis della legge 212/2000 e, prima, dall’articolo 37-bis del dpr 600/1973.