Il prelievo bancario non prova i ricavi

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 5 Ottobre 2017 di Laura Ambrosi

Accertamenti. Annullata la contestazione a un lavoratore autonomo con attività artigianale

Il privato che svolge un’attività in nero, al pari del lavoratore autonomo, non può subire la presunzione legale di ricavo desumibile dai prelevamenti bancari non giustificati. A chiarirlo è la Corte di cassazione con la sentenza 23162 depositata ieri.
L’Agenzia emetteva un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente fondato sulle risultanze delle indagini finanziarie. In particolare, l’interessato svolgeva l’attività di assemblaggio di articoli per l’infanzia senza alcun dipendente presso l’abitazione della madre e non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi.
Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario eccependo anche l’illegittimità della pretesa sui prelevamenti: nel ricorso era affermato che l’Ufficio non aveva provato la riconducibilità degli stessi ad acquisti relativi all’attività svolta.
Il giudice di appello accoglieva la domanda annullando l’accertamento sulla parte riferita ai prelevamenti e confermandolo solo sui versamenti. L’Agenzia ricorreva in Cassazione sostenendo che era onere del contribuente dimostrare l’estraneità dei beneficiari dei prelievi all’attività di impresa.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che la Ctr, in base alle caratteristiche dell’attività svolta, aveva qualificato il contribuente come lavoratore autonomo. La sentenza ricorda che la Consulta (sentenza 228/2014) ha ritenuto la presunzione relativa ai prelevamenti, nei confronti dei professionisti, lesiva del principio di ragionevolezza e capacita? contributiva.
In conseguenza di tale decisione, secondo la Suprema Corte è venuta meno la presunzione legale sui prelevamenti operati sui conti bancari effettuata dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale. Si sposta così sull’amministrazione l’onere di provare che tali prelevamenti ingiustificati siano stati utilizzati dal libero professionista per acquisti inerenti la produzione del reddito. La decisione, a ben vedere, attiene un privato che svolgeva di fatto attività di impresa artigiana e non era un professionista (cui invece fa riferimento la Consulta)
E se l’irrilevanza dei prelevamenti, secondo la Cassazione, sia conseguente all’assimilazione della ditta individuale senza dipendenti al lavoratore autonomo, il principio potrebbe trovare un’ampia Accertamentiestensione all’interno del reddito di impresa e non soltanto più del lavoro autonomo.

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Operazioni inesistenti, prova a carico delle Entrate

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 28 Ottobre 2017 di A.I.

Frodi. La Cassazione

Nell’ipotesi in cui sia contestata l’inesistenza soggettiva dell’operazione, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche in via presuntiva, l’interposizione fittizia del cedente, ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, nonché la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa. Spetta, invece, al contribuente che intende esercitare la detrazione dimostrare l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente. È questo il principio ribadito ieri da due ordinanze 25538 e 25545 della Cassazione in tema di fatture soggettivamente inesistenti. In entrambe le pronunce la Corte ha rigettato i ricorsi delle Entrate secondo cui, contrariamente alle decisioni dei giudici di merito, l’Iva assolta dai contribuenti, che avevano ricevute fatture soggettivamente inesistenti, non poteva essere detratta.
In entrambe le vicende i contribuenti interessati avevano acquistato merce da soggetti che poi erano stati ritenuti “cartiere” con la conseguenza che, stante l’oggettiva effettuazione dell’operazione commerciale e risultante fittizio il cedente, veniva richiesta l’Iva detratta a fronte di tali acquisti.
I giudici di merito ritenevano dimostrata l’inconsapevolezza degli acquirenti e quindi la loro buona fede, con la conseguenza che non potevano ritenersi coinvolti nella frode commessa dai fornitori. In simili circostanze, la buona fede diventa centrale per evitare il coinvolgimento negli illeciti Iva. Tale concetto è stato in un qualche modo introdotto nel nostro ordinamento dalla Corte di giustizia, intervenuta sul tema. Un soggetto, infatti, non può avvalersi delle norme del diritto Ue quando nell’ambito di un’evasione o di un abuso, sapeva o avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. A tal fine, è legittimo pretendere che l’operatore adotti tutte le misure (che gli si possono ragionevolmente chiedere) per assicurarsi che l’operazione non comporti una propria partecipazione all’evasione.
La Cassazione ha così confermato che spetta alle Entrate dimostrare che il contribuente «sapeva o avrebbe dovuto sapere» che con il proprio acquisto partecipava ad una frode.

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Beni situati in Paesi black list: raddoppio dei termini limitato

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 30 Ottobre 2017 di Giorgio Gavelli

Fisco internazionale. Il giro di vite del Dl 78/2009 non è retroattivo ed esclude i periodi ante 2010

Secondo la decisione 1085/4/2017 della Commissione tributaria provinciale di Genova (presidente Del Vigo, relatore Silvano), depositata lo scorso 25 agosto, il raddoppio dei termini di accertamento previsto dall’articolo 12 del Dl 78/2009 per i beni situati in Paesi black list e non oggetto di monitoraggio non può operare per i periodi d’imposta anteriori al 2010. Si tratta di un tema che assai spesso ricorre nel contenzioso tributario (si veda Il Sole 24 Ore del 23 agosto scorso).
Il caso trattato dalla Commissione genovese riguarda una polizza emessa da una società con sede nelle Isole Bermuda, sottoscritta nel 2007 dal contribuente e mai riportata (come del resto i relativi guadagni) in dichiarazione dei redditi.
L’articolo 12 del Dl 78/09 prevede, in sintesi, che:
gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di monitoraggio, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione (comma 2, prima parte);
in tale ipotesi le sanzioni ordinariamente previste per le violazioni dichiarative sono raddoppiate (comma 2, seconda parte);
per l’accertamento di tale presunzione gli ordinari termini sono raddoppiati (comma 2-bis), così come i termini per accertare le violazioni in tema di monitoraggio (comma 2-ter).
L’agenzia delle Entrate ha sempre ritenuto la “stretta” operata dal Dl 78/2009 come «di natura procedimentale» e, quindi, sostanzialmente retroattiva (circolari 19/E/2017, 6/E/2015 e 27/E/2015) e su questo ragionamento ha impostato la procedura di voluntary disclosure.
Tuttavia, la dottrina prevalente e buona parte della giurisprudenza hanno sempre nutrito perplessità sulla retroattività della presunzione sulla costituzione “in nero” di investimenti ed attività nei paradisi fiscali e sull’applicabilità ai periodi d’imposta anteriori al 2010 del raddoppio dei termini per le violazioni del monitoraggio e dei termini e delle sanzioni per quelle dichiarative.
Nel caso di specie, la presunzione di aver costituito provvista all’estero “in nero” non si applicava, avendo il contribuente documentato l’esistenza del capitale impiegato nella polizza già in anni anteriori. Restavano validi, tuttavia, secondo l’ufficio il raddoppio della sanzione sul monitoraggio ed il prolungamento dei termini di accertamento sul reddito non dichiarato. La Commissione genovese, tuttavia, non è di questo avviso. Da un lato appare indubbio che la norma «esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito» e, di conseguenza, non può applicarsi a fattispecie anteriori la sua entrata in vigore (così Ctr Lombardia 1865/1/2017, Ctp Rimini 42/1/2017 e Ctp Milano 3933/7/2017). Dall’altro, il raddoppio appare strettamente collegato alla operatività della presunzione sul capitale (Ctr Lombardia 4382/27/2015).
Nel merito, peraltro, il non aver allegato all’atto di accertamento la documentazione della Guardia di finanza consolida, secondo la Ctp, l’illegittimità dell’accertamento impugnato.

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Licenziato chi copia i dati aziendali

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 26 Ottobre 2017 di Giampiero Falasca

Cassazione. Anche se non protetti da password e non sono divulgati all’esterno

È legittimo il licenziamento del dipendente che copia su una pen drive personale, senza autorizzazione del datore di lavoro, alcuni dati aziendali riservati, anche se queste informazioni non vengono divulgate a terzi.
La violazione dei doveri contrattuali, infatti, si verifica anche quando una certa condotta, pur non producendo un danno concreto, ha una intrinseca potenzialità lesiva degli interessi del datore di lavoro.
La Corte di cassazione (sentenza 25147/2017), con un ineccepibile rigore interpretativo, ricostruisce alcuni principi importanti in tema di sicurezza dei dati aziendali, una questione sempre più rilevante per le imprese nell’attuale contesto tecnologico, dove è molto facile sottrarre e spostare grandi quantità di informazioni riservate.
La vicenda riguarda il licenziamento di un dipendente che ha trasferito su una pen drive di sua proprietà (poi smarrita e ritrovata casualmente nei locali aziendali) un numero rilevantissimo di dati appartenenti all’azienda. Il dipendente ha contestato la legittimità del licenziamento, sostenendo di essersi limitato a copiare i dati, senza diffonderli in alcun modo; il lavoratore, inoltre, ha evidenziato che i file in questione non erano protetti da password e non erano coperti da specifici vincoli di riservatezza.
La Suprema corte ha rigettato queste argomentazioni, ritenendo che la condotta del dipendente sia riconducibile all’ipotesi – sanzionato dall’articolo 52 del Ccnl del settore aziende chimiche con il licenziamento – della grave infrazione alla disciplina o alla diligenza del lavoro. Il Ccnl riconduce a tale fattispecie alcune condotte quali il furto, il danneggiamento volontario del materiale di impresa e il trafugamento di schede, disegni, utensili e materiali affini.
In coerenza con questa impostazione, la Corte ha escluso che la semplice copiatura dei file aziendali sia collocabile nell’ipotesi meno grave dell’utilizzo improprio degli strumenti di lavoro aziendali (per la quale il Ccnl prevede solo sanzioni conservative).
Ciò in quanto la condotta del dipendente è comunque connotata dalla finalità di sottrarre informazioni a prescindere dall’effettiva divulgazione dei dati, mentre la fattispecie dell’uso improprio si può applicare a condotte nelle quali manca tale finalità.
La sentenza chiarisce anche che è irrilevante, ai fini della valutazione disciplinare, la circostanza che i dati sottratti siano protetti oppure no da specifiche password; il fatto che l’accesso ai dati sia libero, precisa la Corte, non autorizza un dipendente ad appropriarsene per finalità proprie, né consente di farli uscire dalla sfera di controllo del datore di lavoro.

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Stabile organizzazione anche «personale»

9 Novembre 2017

IL Sole 24 Ore 24 Ottobre 2017 di Benedetto Santacroce

Modelli Ocse. Sterilizzata la frammentazione delle attività

L’Italia con la legge di bilancio cerca di recepire la nuova versione dell’articolo 5 del modello Ocse, in materia di stabile organizzazione così come modificato a seguito dell’Action 7 del Beps. In effetti, l’intervento, almeno nella bozza disponibile, riforma l’articolo 162 del Tuir sotto tre profili:
rivede integralmente il comma 4, inserendo il concetto di disponibilità dei beni e dei luoghi, concetto presente nel nuovo commentario Ocse. Il comma 4 definisce i casi in cui la sede fissa d’affari non è considerata stabile organizzazione. La nuova norma utilizza un’espressione diversa, in quanto viene previsto che il termine «stabile organizzazione» non comprende tutti i casi in cui l’impresa non residente dispone in Italia di luoghi destinati al mero deposito, ai soli fini di acquistare beni o merci o di raccogliere informazioni per l’impresa o per svolgere attività preparatorie o ausiliarie;
introduce nel nostro ordinamento il nuovo paragrafo 4.1 dell’articolo 5 dell’Ocse che è diretto a sterilizzare gli effetti della frammentazione delle attività anche nell’ambito dei gruppi ai fini della valutazione del carattere preparatorio o ausiliarie delle medesime. In particolare, costituisce stabile organizzazione una sede d’affari utilizzata o gestita da un’impresa se la stessa impresa o un’impresa strettamente correlata svolge la sua attività nello stesso luogo o in un altro luogo del territorio dello Stato;
viene modificato il concetto di stabile organizzazione personale e viene stabilito che se un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente e abitualmente conclude contratti o porta a conclusione contratti senza modifiche sostanziali essa costituisce stabile organizzazione del soggetto non residente. In questo caso l’Italia si conforma con la convenzione multilaterale.

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Per i clienti societari si guarda alla proprietà diretta o indiretta

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore del 23 Ottobre 2017

Esperto Risponde  a cura di Luigi Ferrajoli e Flavia Silla

Il titolare effettivo è chi detiene oltre il 25% delle quote

IL QUESITO: Sono un commercialista cui è stato affidato l’incarico di seguire un finanziamento per la Srl X, che svolge attività di produzione e vendita di elementi di arredo. Il capitale sociale di questa Srl è suddiviso tra quattro soci: A è una persona fisica e ha in mano il 10%, B è persona fisica titolare del 3%, C è una Spa con il 19% e D è una Srl che possiede il 68 per cento. Vorrei capire, in base all’attuale disciplina, come va determinato il titolare effettivo e come devo assolvere agli adempimenti di adeguata verifica della clientela ai fini dell’antiriciclaggio.
A. C. – LECCE

Per evitare che una società, un trust o un ente vengano utilizzati come schermi per rendere difficile l’accertamento e l’individuazione di attività di riciclaggio e/o di finanziamento del terrorismo, la legge (e non più un allegato tecnico) stabilisce i criteri per determinare il cosiddetto “titolare effettivo”.
Quest’ultimo, in base all’articolo 1 del Dlgs 90/2017, viene identificato nella persona fisica o nelle persone fisiche, diverse dal cliente, «nell’interesse della quale o delle quali, in ultima istanza, il rapporto continuativo è istaurato, la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita».
Se il cliente è una società o un ente, il titolare effettivo è colui al quale è attribuibile la proprietà diretta o indiretta dell’ente, ovvero il controllo diretto o indiretto sullo stesso. A tal fine, la nuova formulazione dell’articolo 20 del Dlgs 231/2007 stabilisce che la proprietà diretta di una società va riferita alla titolarità di una partecipazione superiore al 25% del capitale del cliente, detenuta da una persona fisica; mentre la proprietà indiretta è connessa alla titolarità di una quota di partecipazione superiore al 25% del capitale posseduto tramite una società controllante, una fiduciaria o per interposta persona. In altre parole, il rapporto continuativo, la prestazione professionale o l’operazione eseguita si riconducono alla persona fisica che, in ultima istanza, risulta intestataria di una rilevante quota della società.
Quando l’assetto proprietario non consente di giungere a una precisa individuazione, il titolare effettivo va identificato nella persona fisica che controlla la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria o gode di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in tale assemblea, oppure colui al quale – sulla base di vincoli contrattuali – è consentito di esercitare in assemblea un’influenza dominante.
Il titolare effettivo della Srl
Nel caso in questione, il socio che risulta titolare di una quota superiore al 25% è il socio D, rappresentato da una Srl. Poiché il titolare effettivo va identificato per legge in una persona fisica, per assolvere all’obbligo di adeguata verifica è quindi necessario valutare la compagine societaria. In assenza di ulteriori indicazioni da parte del lettore, si ipotizzi ad esempio che il capitale sociale del socio D (titolare del 68% della Srl X) sia suddiviso fra tre persone fisiche: Tizio partecipa per il 5 %, Caio per il 42%, Mevio per il 53 per cento. Così i titolari effettivi della Srl X risulterebbero essere Caio e Mevio, perché ognuno di loro – avendo una partecipazione superiore al 25% – controllerebbe, ai fini della normativa sull’antiriciclaggio, la Srl D e indirettamente la Srl X.
Quest’ultima, come ogni persona giuridica tenuta all’iscrizione al registro delle imprese, deve comunicare per via telematica le informazioni relative alla propria titolarità effettiva, i cui dati vengono inseriti in una particolare sezione riservata. L’accesso a tale sezione è infatti consentito alle autorità competenti (Mef, autorità di vigilanza), alle autorità preposte al controllo dell’evasione fiscale, all’autorità giudiziaria, ai soggetti privati compresi quelli portatori di interessi diffusi (sempre che la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per tutelare, in pendenza di un procedimento giurisdizionale, i loro interessi) e infine ai soggetti obbligati alla comunicazione stessa.
Se i dati sulla titolarità effettiva non vengono comunicati, a carico dell’amministratore della società si applica la sanzione prevista dall’articolo 2630 del Codice civile, che va da un minimo di 103 euro fino a un massimo di 1.032 euro. Ma che si riduce a un terzo quando la comunicazione è effettuata con un ritardo non superiore a 30 giorni rispetto al termine previsto.
La sanzione è riferita a ogni singolo amministratore, se la società è dotata di un organo amministrativo pluripersonale, e anche a ogni sindaco, se tale organo è presente e non ha provveduto alla comunicazione in caso di inerzia da parte degli amministratori.
L’attiva collaborazione
Per poter individuare correttamente il titolare effettivo e procedere agli obblighi di adeguata verifica della clientela, l’articolo 22 del Dlgs 231/2007 conferma a carico del cliente gli obblighi di attiva collaborazione. In particolare, nel caso in esame, l’amministratore (o gli amministratori) della società X è tenuto (sono tenuti) a fornire al destinatario – cioè al commercialista – e per iscritto tutti i dati e le informazioni necessari all’osservanza degli adempimenti citati. Per la società vi è poi un ulteriore obbligo, introdotto dal Dlgs 90/2017 : acquisire e conservare accurate e aggiornate informazioni sulla propria titolarità effettiva per un periodo di almeno cinque anni.
Oltre che nell’individuare l’effettivo titolare, gli obblighi di adeguata verifica ai fini dell’antiriciclaggio consistono anche in altri adempimenti:
identificazione del cliente e verifica della sua identità tramite un documento di riconoscimento o altro documento equipollente (attività che viene svolta prima dell’instaurazione di un rapporto continuativo, dell’incarico di svolgere la prestazione o dell’esecuzione dell’operazione occasionale);
acquisizione dal cliente di informazioni in merito alla natura e allo scopo del rapporto continuativo o della prestazione professionale. Si tratta di dati e di informazioni relativi all’instaurazione del rapporto, alla relazione tra il cliente e il titolare effettivo, nonchè alla situazione economico-patrimoniale del cliente. Qualora sussista un forte rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, occorrerà applicare la procedura di acquisizione e valutazione dei dati e delle informazioni anche alle prestazioni e alle operazioni occasionali;
controllo costante, per tutta la durata del rapporto o della prestazione del rapporto con il cliente, tramite la verifica e l’aggiornamento dei dati acquisiti.

 

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Clausole dei contratti senza registro

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 17 Ottobre 2017 di  Angelo Busani

Compravendite immobiliari. La Ctp di Pesaro spiega che l’imposta riguarda l’atto e non i suoi contenuti

Fuori dall’imposizione delegazioni di pagamento, penali e caparre

La clausola che, in un contratto di compravendita immobiliare, contiene una delegazione di pagamento non è autonomamente soggetta a imposta di registro; questa, infatti, concerne il contratto di compravendita e non la clausola contenuta. Lo ha deciso la Commissione tributaria provinciale di Pesaro nella sentenza 951/2017 .
La pronuncia, nonostante sia assai laconica (e un po’ superficiale: menziona il Dpr 634/1972, quando la legge di registro è oggi contenuta nel Dpr 131/1986) e provenga da una Corte di primo grado, è importante non solo perché non esistono precedenti (sebbene la clausola di delegazione sia frequentissima) ma anche perché consente di affrontare l’impervio e mai approfondito tema della tassazione delle singole clausole di cui un contratto si compone.
La clausola di delegazione, in particolare, è quella (articolo 1268 e seguenti del Codice civile) con la quale il venditore Tizio (debitore della banca Alfa a seguito di un mutuo) vende la sua casa all’acquirente Caio, delegandogli di pagare il prezzo dovuto, in tutto o in parte, alla banca Alfa ad estinzione del mutuo contratto da Tizio.
Questa pattuizione, contenuta in un atto a sé, genererebbe senz’altro l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota del 3% (articolo 9, Tariffa Parte I allegata al Dpr 131/1986, testo unico del registro). Ma che succede se l’accordo di delegazione è una mera clausola di un contratto?
L’articolo 21 del Dpr 131/1986 dispone che se un atto contiene più negozi, ciascuno di essi ha una propria tassazione (comma 1) a meno che le varie “disposizioni” del contratto siano intrinsecamente connesse (comma 2), caso nel quale si tassa la più “costosa” fiscalmente (come nel caso della permuta). Infine, l’articolo 21, comma 3, esonera da tassazione le clausole di quietanza e di accollo contestuali ad altre pattuizioni.
Quest’ultima norma è assai importante: essa non dice che quietanze e accolli, se contestuali, sono clausole intrinsecamente connesse al contratto cui accedono; né rappresenta una norma eccezionale rispetto alla regola del primo comma in tema di individuale tassazione dei vari negozi contenuti in un atto. La norma del comma 3 vuol significare che le singole clausole di un contratto sono irrilevanti agli occhi dell’imposta di registro, poiché questa imposta riguarda gli “atti” (articolo 1, Dpr 131/1986) e non le loro “clausole”. Quindi, quando il legislatore contempla accolli e quietanze nel comma 3 dell’articolo 21, intende evidentemente compiere con tale norma un’opera chiarificatrice relativa a clausole di frequente ricorrenza, sgombrando il campo una volta per tutte da appetiti che il fisco intenda, caso per caso, manifestare.
Questo ragionamento porta a concludere che qualsiasi singola clausola di un contratto non è in sé rilevante per l’imposta di registro, a meno che la legge non lo imponga espressamente. Divengono quindi in particolare irrilevanti la clausola penale, la caparra o multa penitenziale (la clausola con cui si “paga” il recesso da un contratto ex articolo 1386 del Codice civile) e le clausole di indennizzo, frequenti nelle compravendite immobiliari di notevoli dimensioni, nonché nelle cessioni di partecipazioni e di aziende; e ciò anche se la Cassazione ha espresso una frettolosa decisione nel senso della loro tassabilità nella sentenza n. 17948 del 19 ottobre 2012.

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Il Fisco fa cadere il velo sui conti esteri

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 2 Ottobre 2017 di Marco Mobili e Giovanni Parente

I primi dati in arrivo con lo scambio automatico serviranno a innescare le verifiche

La paura per gli evasori potrebbe fare davvero “novanta”. Tanti sono gli Stati che aderiscono tra quest’anno e il prossimo allo scambio internazionale in automatico dei dati su conti correnti, depositi e altri rapporti finanziari detenuti all’estero. C’è chi enfaticamente l’ha definita come la fine del segreto bancario. Per capire se davvero sarà così, bisognerà attendere nel dettaglio come e in quale misura sarà utilizzata questa nuova mole di informazioni destinate ad arricchire il patrimonio informativo dell’amministrazione finanziaria. Qualche dubbio è più che legittimo soprattutto alla luce delle ultime settimane caratterizzate dal caos spesometro e dalle “bacchettate” della Corte dei conti sul mancato utilizzo della Superanagrafe dei conti correnti “interni”. Ed è proprio in questo settore dell’Anagrafe tributaria che dovrebbero confluire i dati dei conti correnti detenuti all’estero dai cittadini italiani. Dati in prima battuta relativi al 2016 e che coinvolgeranno 49 Paesi oltre all’Italia, i cosiddetti early adpoters. Già da stamattina i database del Fisco italiano potranno contare su questi nuovi elementi, visto che la deadline di trasmissione per le amministrazioni finanziarie estere (e della nostra verso gli altri Stati aderenti all’accordo) era sabato 30 settembre.
Solo per fare qualche esempio, ci saranno i dettagli su chi detiene conti e altre ricchezze finanziarie nei forzieri di Anguilla, Isole Vergini britanniche e Cayman, oltre a quelli dei principali Paesi europei. Poi dal 2018 arriveranno anche le informazioni (relative al 2017) da Aruba, Hong Kong, Montecarlo, Svizzera, per avere un’idea della capillarità e del coinvolgimento. Coinvolgimento che salirà, quindi, complessivamente a 90 Paesi.
Di fatto, il materiale non mancherà per andare a scandagliare chi ha spostato o accumulato all’estero patrimoni in aree fino ad ora considerate al riparo dagli occhi del Fisco. In realtà, il percorso che dovrà portare all’utilizzo di questo tesoro informativo passa dall’incrocio con altri dati fiscali già attualmente disponibili. La relazione sulla lotta all’evasione che ha accompagnato la Nota di aggiornamento al Def ha messo nero su bianco quale sarà il punto di partenza: «Le informazioni ricevute nell’ambito dello scambio automatico costituiranno un’importante fonte di innesco per successive richieste mirate su casi oggetto di accertamenti fiscali».
Quindi un input o, per semplificare, un campanello d’allarme che potrebbe spingere l’amministrazione finanziaria ad approfondire il rischio-evasione di alcuni contribuenti. E c’è un filo rosso nemmeno tanto sottile che collega questa operazione alla voluntary disclosure. Con la prima edizione la voluntary aveva messo a punto un sistema di archiviazione e un applicativo chiamato «Cover» attraverso l’analisi delle istanze per rilevare statisticamente le condotte evasive più diffuse (soprattutto quelle che prevedono l’allocazione all’estero di risorse e investimenti) e di profilazione di fenomeni ad alta pericolosità fiscale.
Con la seconda, sostanzialmente, si è data un’altra opportunità – a quanti non si erano ancora messi in regola – per sistemare la propria posizione alla vigilia del passaggio automatico delle informazioni (perché sta qui la vera differenza rispetto al passato).
La voluntary-bis, nonostante la proroga in scadenza oggi, finora non è stata colta da tutti i soggetti preventivati. Alla scorsa settimana le adesioni complessive (tra quelle datate 2016 e 2017) pervenute con i canali Entratel e Fisconline risultavano poco più di 16mila, solo il 59% dei 27mila attesi. Tanto è vero che il Governo ha dovuto vedere al ribasso nell’aggiornamento del Def le previsioni di recupero: da 1,6 miliardi a 850 milioni.
I nuovi dati, dunque, potranno essere incrociati con quelli delle richieste di gruppo verso Paesi con cui erano stati siglati accordi per scambi di informazioni bilaterali e con i nominativi già finiti in alcune liste, come quelli dei Panama papers.

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Scadenziario Novembre 2017

1 Novembre 2017

Scadenziario entro il 20 Novembre

  • Scade il termine per il pagamento dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S. F.S.S. E FONDISS per lavoratori dipendenti relativi al mese di ottobre.

Scadenziario entro il 30 Novembre

  • Scade il termine per sia per le persone fisiche (lavoratori autonomi e ditte individuali) che giuridiche, il versamento del secondo acconto dell’imposta generale sui redditi (I.G.R.) relativa all’anno in corso;
  •  per le persone fisiche (lavoratori autonomi e ditte individuali), versamento del secondo acconto dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S. e F.S.S. relativi all’anno in corso;
  •  ai sensi dell’art. 39 Legge 130/2010 i titolari di licenze di commercio al dettaglio devono comunicare all’Ufficio Industria, Artigianato e Commercio:
  1.  i periodi di chiusura previsti per l’anno successivo;
  2.  il giorno di chiusura infrasettimanale; la comunicazione va effettuata anche in caso di rinuncia al giorno di chiusura; c) occorre affiggere all’entrata principale gli orari di apertura e chiusura in maniera visibile anche all’esterno.

Si ricorda che le attività commerciali possono effettuare fino ad un massimo di 60 giorni di chiusura annuale, suddivisi in massimo 3 periodi.

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