Decreto Legge 16 Settembre 2019 nr 141 – Deposito di domande di brevetto internazionale e di domande di brevetto europeo

7 Ottobre 2019

Si allega il testo completo del Decreto Legge nr 141 per il deposito delle domande di brevetto a livello internazionale ed europeo.

DL141-2019

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Decreto Legge 5 Settembre 2019 nr 135 – Proroga dei termini per la presentazione della domanda di concessione edilizia in sanatoria straordinaria ed adeguamento dei termini ad essa correlati

7 Ottobre 2019

Il Decreto Legge nr 135 proroga al 30/09/2020 la scadenza della presentazione della domanda di concessione edilizia in sanatoria straordinaria.

DL135-2019

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Tassati in Italia gli interessi percepiti da banche estere su prestiti a residenti

7 Ottobre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore 12 SETTEMBRE 2019 di Andrea Fagiani e Valerio Vallefuoco

La risposta delle Entrate 379/2019 di ieri in tema di tassazione in Italia degli interessi attivi percepiti da un non residente su prestiti finanziari concessi a residenti italiani, è da considerarsi un’ulteriore conferma di un nuovo orientamento che si sta consolidando, pur necessitando maggiori chiarimenti alla luce di precedenti giurisprudenziali in contrasto con tale posizione.

Le Entrate confermano l’obbligo di tassazione domestica degli interessi attivi percepiti dalle banche elvetiche e corrisposti da residenti italiani in ragione dell’applicazione del nostro Tuir (articoli 151, commi 1 e 2, e 23, comma 1, lettera b del Tuir). Per l’Amministrazione il reddito delle società e degli enti commerciali non residenti «è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato», individuati però dall’articolo 23 del Tuir che al comma 1, lettera b, prevede che siano assoggettati ad imposizione in Italia, in quanto si considerano prodotti nel medesimo territorio, i redditi di capitale corrisposti, tra gli altri, da soggetti residenti nel territorio dello Stato.

La citata disposizione, per attrarre a tassazione in Italia la tipologia di redditi di capitale utilizza, quale criterio di collegamento, la residenza del soggetto che eroga il reddito, esulando da qualsiasi connessione con il luogo in cui è stata svolta l’attività che ha generato il reddito medesimo.

L’orientamento del Fisco italiano, sulla base della nuova formulazione dell’articolo 151 del Tuir, aderisce quindi ormai all’indirizzo prevalente della tassazione dei non residenti su base isolata, che si pone in contrasto con alcune sentenze della Cassazione.

Le Entrate chiariscono inoltre la portata applicativa dell’articolo 11 del modello Ocse, con riguardo alla determinazione dell’imposta che potrà pertanto godere del trattamento convenzionale più favorevole (del 12.50%). Si ricorda che l’articolo 11 del modello Ocse e contenuto non solo nella Convenzione Italia e Svizzera ma in diverse altre Convenzioni, tra cui quella di San Marino.

In ultimo, si evidenzia come siano stati già avviate, negli ultimi mesi, verifiche e accertamenti nei confronti di intermediari finanziari esteri per mezzo della collaborazione tra l’Ufficio per il contrasto degli illeciti finanziari internazionali (Ucifi) presso la direzione regionale dell’agenzia delle Entrate di Milano e Torino, la Gdf e la procura di Milano. Gli accertamenti nati dall’analisi dei dati della voluntary disclosure effettuati dall’Ucifi di Milano, riguardano centinaia di istituti bancari esteri, i quali sono stati destinatari di questionari con la previsione, nel caso di mancate risposta, o di risposte mendaci, di sanzioni amministrative e penali.

In considerazione della novità e della necessità di chiarimenti anche di Cassazione, in contrasto con l’orientamento delle Entrate, sembrerebbe potersi escludere, con riguardo alla condotta ascritta l’elemento soggettivo del dolo da evasione e sembrerebbe altresì opportuno valutare l’applicazione della la causa di esclusione delle sanzioni amministrative tributarie, per incertezza normativa ed interpretativa. Questo orientamento dell’amministrazione non potrà che non incidere sulle valutazioni che dovranno fare sia per il passato che per il futuro le banche estere sulla loro compliance fiscale per le operazioni transfrontaliere con il mercato Italia.

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I giudici mandano «in coda» il rimborso dei prestiti ai soci

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 02 SETTEMBRE 2019 di Giorgio Gavelli

SOCIETÀ E BILANCI

I giudici mandano «in coda» il rimborso dei prestiti ai soci

La giurisprudenza estende la postergazione alle Spa e a tutte le forme di debito

Sindaci e amministratori devono monitorare le situazioni a rischio

Restituire ai soci i finanziamenti da questi effettuati può costituire un problema per amministratori e sindaci. Anche alla luce della nozione “ampia” di divieto specifico adottata dalla giurisprudenza. Vediamo perché.

L’articolo 2467 del Codice civile prevede che «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito».

Il campo di applicazione

Ai fini di questa norma (che, per effetto dell’articolo 383 del Codice della crisi, dal 15 agosto 2020 perderà il riferimento al fallimento) rilevano i finanziamenti da soci «in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento».

Si intende, quindi, penalizzare il socio che ha scelto di finanziare la società quando avrebbe dovuto patrimonializzarla, creando così un legame con le somme erogate più facilmente scindibile in caso di avvisaglie di dissesto.

Divieto di restituzione

Il divieto di restituzione opera già nel corso dell’ordinaria attività d’impresa e non solo in sede di concorso tra creditori (Cassazione 12994/2019 e 25163/2017). Tuttavia, è evidente che occorre ragionare caso per caso, essendo «l’eccessivo squilibrio» finanziario e la «ragionevolezza» del conferimento in luogo del prestito due concetti da valutare nel concreto.

La giurisprudenza, ad ogni modo, pare applicare al caso di specie le stesse conclusioni a cui si giungerebbe in caso di restituzione di versamenti in conto capitale (Cassazione 31186/2018 e 50188/2017) e anche delle risorse ottenute a fronte dell’emissione di obbligazioni (Cassazione 16921/2018; in senso contrario, peraltro, Tribunale di Bologna 9 marzo 2016 n. 1030 e Tribunale di Milano 25 luglio 2014).

La norma è dettata espressamente per le Srl, ed è richiamata in caso di prestiti provenienti dalla società che esercita la «direzione e coordinamento» o dagli altri soggetti ad essa sottoposti (articolo 2497-quinquies). Il dato letterale non va, tuttavia, inteso in senso limitativo: secondo la giurisprudenza (Cassazione 16291/2018 e 14056/2015, Tribunale di Milano, sentenze 9104/2015 e 1658/2015) la norma si applica anche alle Spa che esercitano «imprese di modeste dimensioni e con compagini sociali familiari o comunque ristrette (chiuse)».

In senso parzialmente contrario si sono espressi la circolare Assonime 40/2007 e lo stesso Tribunale di Milano (sentenza 11552/2017). Né, secondo il Tribunale di Milano (sentenza 1658/2015), può costituire esimente il fatto che il finanziamento sia stato erogato nella fase di “start up” aziendale, così come la volontà del socio di compensare un proprio debito (Tribunale di Roma 6 febbraio 2017).

La giurisprudenza sembra accogliere tesi assai estensive anche con riferimento alla genesi del debito nei confronti del socio, qualificando nell’ambito della fattispecie prevista dalla norma anche crediti dei soci per prestazioni professionali (Tribunale di Milano 13 ottobre 2016), dilazioni di pagamento (Tribunale di Treviso 12 marzo 2019), pagamenti di creditori sociali (Cassazione 20649/2019) e prestazioni di garanzie (Tribunale di Reggio Emilia 10 giugno 2015 e Tribunale di Milano 4 giugno 2013).

Le sanzioni

Le conseguenze della violazione di questo precetto normativo possono essere molto gravi, essendo configurabile per gli amministratori – in particolare laddove essi coincidano con i soci beneficiari della restituzione – il reato di bancarotta patrimoniale per distrazione, con il concorso per i sindaci che non hanno impedito tale condotta (Cassazione 26041/2019, 12186/2019 e 50495/2018).

Come ricorda la Norma di comportamento 10.7 del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, vi deve essere una attenta verifica da parte del Collegio sindacale, finalizzata a scongiurare il rischio che, attraverso la restituzione, vengano lese le ragioni dei creditori mediante una indebita riduzione del patrimonio sociale.

Inoltre, occorre verificare che il tutto avvenga nel rispetto, oltre che dei precetti statutari, delle disposizioni creditizie che regolano questo tipo di raccolta del risparmio (provvedimento Bankitalia 8 novembre 2016 e deliberazione Cicr 19 luglio 2005, n. 1058).

L’onere della prova

Ai fini probatori, incombe sulla società convenuta dai soci per la restituzione del finanziamento eccepire e dimostrare nell’ambito del giudizio la ricorrenza delle condizioni previste dal legislatore per la postergazione, non essendo sufficiente dimostrare che l’attività si è svolta per alcuni periodi in perdita (Tribunale di Roma 5 febbraio 2019, Tribunale di Milano 13 ottobre 2016 e 25 gennaio 2016).

Per quanto attiene alla redazione del bilancio, i finanziamenti operati dai soci – compresi quelli provenienti da un socio che è anche una società controllante – che prevedono un obbligo alla restituzione vanno iscritti nel passivo, alla voce D.3), indipendentemente dalla natura fruttifera o meno e dalla proporzionalità rispetto alla partecipazione al capitale (principio Oic 19).

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Bocciati i patti di non concorrenza indeterminati

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 02 SETTEMBRE 2019 di Monica Lambrou

LAVORO

Il Tribunale di Modena blocca il compenso mensile versato durante il rapporto

Il patto di non concorrenza stipulato fra azienda e lavoratore rischia di essere nullo se ha un contenuto indeterminato. Lo ha stabilito il tribunale di Modena (sezione lavoro), con sentenza del 23 maggio 2019. Nella sentenza si precisa che, in base all’articolo 2125 Codice civile, il patto di non concorrenza pone limiti all’attività del lavoratore dopo la cessazione del suo rapporto di lavoro ed è finalizzato a contemperare due ordini di interessi contrapposti: quello del datore di lavoro di proteggere il suo “patrimonio” e, quindi, il know how, l’avviamento e la clientela acquisita e quello del lavoratore a non subire un’eccessiva restrizione delle possibilità di trovare una nuova occupazione.

Si tratta di un contratto a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, per il quale vi sono limiti idonei a inficiarne, se non rispettati, la validità. In particolare, il patto deve considerarsi affetto da nullità «se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro» nonché se il vincolo posto in capo al dipendente «non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo».

La forma scritta dell’atto è richiesta ab substantiam, con conseguente nullità del patto in caso di ricorso ad altre forme.

Tra i principali contrasti interpretativi c’è il dibattito relativo alla legittimità di eventuali patti di opzione ovvero clausole di recesso, che riservino al datore di lavoro la facoltà di non avvalersi, in seguito alla stipula e entro un termine predeterminato, del patto di non concorrenza stesso, con conseguente venir meno del diritto del dipendente a percepire il corrispettivo.

In passato, la Cassazione si era espressa a favore della validità del patto di opzione e a favore del recesso unilaterale da parte del titolare.

Lo stesso giudice di legittimità, ha poi superato questa impostazione con la sentenza 9491/2003, arrivando alla tesi, tuttora prevalente, dell’invalidità di queste facoltà (così anche: Tribunale di Milano, del 25 luglio 2000, del 15 dicembre 2001 e Tribunale di Perugia 26 aprile 2005).

Non è, altresì, considerato legittimo un patto con un compenso di «carattere meramente simbolico, iniquo o sproporzionato» (Cassazione 4891/1998), ritenendosi la congruità di un corrispettivo che oscilli, generalmente, tra il 15% e il 35% della retribuzione (Tribunale di Milano, sentenza del 18 giugno 2001, sentenza del 5 giugno 2003, sentenza del 22 ottobre 2003).

Peraltro, come giudicato dalla recente pronuncia sopra citata, la nullità del patto può ravvisarsi anche in ragione delle modalità con cui viene pattuita la corresponsione del corrispettivo. Il giudice di merito, in conformità ad altra giurisprudenza di merito (Tribunale di Milano sentenze 13 agosto 2007, 28 settembre 2010) e all’orientamento già espresso dallo stesso tribunale (sentenza 347/2015), ha giudicato che la previsione del pagamento di un corrispettivo mensile in costanza di rapporto di lavoro violi il disposto dell’articolo 2125 Codice civile, perché rende ex ante indeterminabile il compenso, con conseguente alterazione della sinallagmaticità, considerato che, al momento della conclusione del patto, il corrispettivo è del tutto indeterminato, perché ancorato a una circostanza fattuale, quale la durata del rapporto, del tutto imprevedibile. Un ulteriore elemento da valutare per la validità del patto è il suo ambito territoriale di efficacia.

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L’amministratore delegato non è dipendente se ha poteri ampi

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 18 SETTEMBRE 2019 di Giampiero Falasca

MESSAGGIO INPS

Rapporto di subordinazione compatibile se si è soggetti alle direttive del Cda

Cumulabilità esclusa per gli amministratori e i soci unici

Come si combina la subordinazione con il ruolo di amministratore o socio di una società? Il messaggio Inps 3359/2019, pubblicato ieri, risponde alla domanda fornendo un’utile ricognizione dei profili giuridici di una questione che ha una grande rilevanza per gli organi di vertice delle imprese.

Per quanto riguarda la possibile coesistenza tra la posizione di amministratore di società di capitali e quella di lavoratore dipendente della medesima impresa, l’Istituto, ricordando un principio più volte affermato dalla Cassazione, evidenzia che la carica di amministratore (o di presidente), in sé considerata, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato. Le due posizioni possono coesistere a patto che la persona sia soggetta alle direttive, alle decisioni e al controllo dell’organo collegiale.

Tale affermazione non è contraddetta neanche dall’eventuale conferimento del potere di rappresentanza al presidente, in quanto tale delega non estende automaticamente all’organo i diversi poteri deliberativi.

La situazione è differente per l’amministratore unico della società: tale organo è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale e quindi non può assumere anche la posizione di lavoratore dipendente della stessa società.

Per quanto concerne l’amministratore delegato, viene esclusa la compatibilità con la subordinazione qualora la delega conferita dal consiglio di amministrazione in suo favore abbia portata generale, dandogli facoltà di agire senza il consenso del Cda.

Invece l’attribuzione da parte del consiglio di amministrazione del solo potere di rappresentanza, ovvero di specifiche e limitate deleghe all’amministratore, non è incompatibile, in linea generale, con l’instaurazione di genuini rapporti di lavoro subordinato.

Il messaggio Inps esamina anche la compatibilità del rapporto di lavoro subordinato con la posizione di socio. Viene esclusa la possibilità di far coesistere le due posizioni in caso di unico socio, perché la concentrazione della proprietà nelle mani di una sola persona esclude l’effettiva soggezione alle direttive di un organo societario; la cumulabilità viene negata anche nel caso in cui il socio abbia assunto di fatto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione della società.

A parte questi casi, l’Inps ricorda che la semplice coesistenza della posizione di socio e amministratore può essere sintomatica della non sussistenza del vincolo di subordinazione, ma non è di per sé sufficiente a escludere che ci sia un vero rapporto di dipendenza.

Occorre verificare, caso per caso, se questo rapporto esiste, avendo presente alcuni indicatori di subordinazione: il potere deliberativo deve essere affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso; il soggetto deve svolgere, in concreto, attività che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe. È necessario, inoltre, che la costituzione e gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili a una volontà della società distinta dal soggetto titolare della carica (amministratore, eccetera): un legame formale eccessivo tra i due rapporti è, quindi, da sconsigliare.

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Senza la pubblicazione del bilancio non c’è prescrizione per mala gestio

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 05 SETTEMBRE 2019 di Patrizia Maciocchi

SOCIETÀ

Il rendiconto costituisce la prova dell’incapienza per i creditori

Documento non surrogabile da decreti ingiuntivi o annullamento dei fidi

La prescrizione non blocca l’azione di responsabilità del curatore verso gli amministratori della società per mala gestio, se manca la prova della pubblicazione del bilancio. E l’assenza di pubblicazione, utile a rendere chiara l’incapienza ai creditori, non può essere “surrogata” nè dai di decreti ingiuntivi a carico della fallita, nè dalla revoca dei fidi bancari. Il count down per la prescrizione può partire solo dal momento della pubblicazione dei “conti” perché solo allora ai creditori è chiara la situazione patrimoniale. La Cassazione (sentenza 22077) respinge il ricorso dei componenti del Cda di una società per azioni, contro, la condanna al risarcimento di oltre un milione e 700 mila euro, per aver provocato l’insufficienza patrimoniale della società di capitali poi fallita. Nel mirino dei giudici era finita un’operazione immobiliare, fatta con estrema negligenza, con costi eccessivi e attuando, infine, una cessione di quote in favore di una società di diritto lussemburghese, che non offriva garanzie sul pagamento del debito di una società di diritto francese, costituita dalla Spa amministrata dai ricorrenti e da questa partecipata per il 99,6 per cento. I membri del board respingevano l’ accusa di cattiva gestione e negavano la possibilità applicare nei loro confronti la norma del codice civile sulla responsabilità verso i creditori sociali (articolo 2394). Norma che presuppone che il danno patrimoniale ai creditori sia collegato da un rapporto di causalità con gli atti di mala gestio. E la dimostrazione del nesso sarebbe mancata nell’azione promossa dal fallimento, visto che la curatela non aveva dimostrato che i pregiudizi derivati dall’operazione “disinvolta” contestata, avessero prodotto lo stato di insufficienza patrimoniale. Alla Corte territoriale sarebbe poi sfuggito un altro elemento: la cessione era stata decisa dai precedenti amministratori e per i nuovi consiglieri era stato impossibile disporre degli elementi per verificare la correttezza dell’affare. Infine, c’è la carta della prescrizione. Con l’approvazione del bilancio e la sua regolare pubblicazione, i creditori sapevano dell’incapienza patrimoniale e c’era dunque il presupposto per far decorre i termini della prescrizione. Nessuna delle circostanze “a discolpa” è accettata dalla Cassazione. Ad iniziare dallo scaricabarile sulla passata gestione per la cessione. Un passaggio di mano deliberato circa 20 giorni dopo l’assunzione in carica del nuovo Cda composto dai ricorrenti. E dal momento dell’”investitura” derivava la responsabilità per le decisioni future. Nulla da fare sulla prescrizione. È vero che il bilancio di esercizio che segnala il “rosso” è utile a comunicare lo stato di incapienza della società, ma è vero anche che se non viene pubblicato, sono al corrente del deficit solo gli organi sociali e non i terzi. L’azione di responsabilità del curatore sarebbe stata prescritta in cinque anni a partire dal giorno in cui i creditori fossero stati avvertiti della condizione della Spa. Però non c’era prova della pubblicazione del semestrale né di altri elementi dimostrativi della conoscibilità. Allo scopo non sono, infatti, utili i decreti ingiuntivi, la revoca dei fidi e il mancato rispetto dei piani di rientro concordati con i creditori.

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Prestito dei soci, ritenuta anche sugli interessi non erogati

7 Ottobre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore del 10 SETTEMBRE 2019 di Roberto Bianchi

La società di capitali che riceve somme di denaro dai propri soci a titolo di mutuo ha l’obbligo di operare la ritenuta d’acconto sugli interessi dovuti non solo nel caso in cui la corresponsione degli stessi sia effettivamente avvenuta, ma anche quando essa sia soltanto presunta dalla norma. Ciò in virtù del carattere ordinariamente oneroso del mutuo previsto dall’articolo 1815 del Codice civile, oltreché in forza della presunzione prevista dal comma 2 dell’articolo 45 del Dpr 917/1986. Lo afferma la Cassazione nelle tre ordinanze 20625, 20626 e 20627 depositate il 31 luglio 2019.

Già nel 2018 con l’ordinanza 3819 i giudici di legittimità avevano precisato che i finanziamenti dei soci alla società si devono presumere onerosi, con la conseguente applicazione della ritenuta d’acconto sui correlati interessi passivi, non solo nel caso in cui la corresponsione degli stessi risulti essere effettiva, ma anche qualora sia solamente presunta.

La dimostrazione della mancata percezione di interessi attivi sulle somme concesse a mutuo incombe sul contribuente, atteso il carattere normalmente oneroso di tali operazioni, così come previsto sia dall’articolo 1815 del Codice civile che dall’articolo 45 del Tuir.

Ne consegue che la società che ha ricevuto il finanziamento dai propri soci è obbligata a operare la ritenuta d’acconto sugli interessi dovuti (articolo 26 del Dpr 600/1973) non solo quando la corresponsione di tali importi è concretamente avvenuta, ma anche quando la stessa sia soltanto presunta dalla legge.

Va altresì evidenziato che in precedenza la Suprema corte, con la sentenza 8747/2008, aveva affermato che la semplice indicazione degli interessi passivi nel bilancio della società rappresentava essa stessa ragione per cui scattasse l’obbligo di operare la ritenuta d’acconto, a prescindere dalla materiale erogazione degli stessi.

Pertanto, nonostante la norma di riferimento individui il momento di effettuazione della ritenuta in occasione del pagamento degli interessi, il collegio di legittimità ha ritenuto che la presunzione di percezione degli interessi in capo al titolare del reddito operi anche per il sostituto d’imposta e che tale obbligo sorga automaticamente in conseguenza dell’iscrizione in bilancio per competenza degli interessi maturati.

Dunque una volta stabilito che una determinata operazione costituisce un finanziamento oneroso, ovvero che la stessa debba considerarsi tale da un punto di vista tributario, è importante accertare in quali casi e in quale momento sorga in capo al soggetto beneficiario, nella sua veste di sostituto d’imposta, l’obbligo di applicazione della ritenuta alla fonte sugli interessi passivi.

Con specifico riferimento agli interessi relativi alle somme finanziate, il comma 5 dell’articolo 26 del Dpr 600/1973 dispone che i soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 23 del Tuir operino una ritenuta a titolo d’acconto con obbligo di rivalsa sugli interessi da essi corrisposti.

La norma, pertanto, utilizzando il termine “corrisposti” nel significato più comune attribuitogli ossia di “proventi materialmente versati”, collega l’insorgere dell’obbligo di effettuazione della ritenuta all’atto del pagamento degli interessi, e non a circostanze diverse, come, per esempio, la loro eventuale maturazione (effettiva o presunta) o la loro iscrizione nelle poste di debito del soggetto che ha beneficiato del finanziamento.

Appare pertanto evidente come la conclusione a alla quale è giunta la Suprema corte non collimi con quanto letteralmente previsto in materia dal dettato normativo.

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D.D. 12 settembre 2019 nr 140 – Regolamento per l’utilizzo della Cassa Integrazione Guadagni per causa 3) riqualificazione professionale, riconversione produttiva, ristrutturazione organizzativa prevista dall’art.11 c.2 Legge 31 marzo 2010 nr 73 e succ. mod.

7 Ottobre 2019

Si allega il testo completo del Decreto  Delegato nr 140 che disciplina il controllo  e la documentazione necessaria per poter accedere alla Cassa Integrazione Guadagni per coloro che effettuano  investimenti   per la riqualificazione professionale, riconversione produttiva e ristrutturazione organizzativa.

DD140-2019+All

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Per chi ha attività e beni non dichiarati in Svizzera la resa è vicina

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 07 SETTEMBRE 2019  di Lucilla Incorvati

ANALISI

Per gli evasori duri e puri che per anni hanno lasciato i loro averi in Svizzera pensando di non essere scoperti, la possibilità di continuare a farla franca è ormai ridotta all’osso. Si tratta di individui (sul numero è difficile fare previsioni) che, per quanto sollecitati a regolarizzare la proprio posizione (scudo fiscale 1 e 2 , voluntary disclosure e altro)praticamente da dieci anni a questa parte, hanno continuato ad avere condotte illecite. Dopo tanti annunci l’Agenzia delle Entrate italiana è passata all’azione e chi si trova in questa situazione non ha che una via, vale a dire procedere con il ravvedimento operoso.

Qualche settimana fa alcune banche svizzere (una per tutte Ubs ma anche altre banche elvetiche sono state sollecitate) hanno comunicato ad alcuni clienti (tutti residenti in Italia con conto in Svizzera) che l’Agenzia delle Entrate, per il tramite dell’Agenzia fiscale svizzera, ha fatto una richiesta di scambio di informazioni di gruppo. E così verso i clienti “stanati” di fatto si è aperto un procedimento perché la banca trasmetterà i nomi all’Agenzia fiscale svizzera che li passera a quella italiana. Di fronte al procedimento ci si può opporre oppure acconsentire. Se si acconsente i dati vengono trasmessi subito, in caso contrario si apre una causa e in base all’esito si deciderà sulla trasmissione.

«Al contribuente che sa di essere nell’elenco, ma soprattutto sa di non essere in regola – spiega Stefano Noro, partner dello studio fiscale Sala Noro e Associati – suggeriamo al più presto di procedere con il ravvedimento operoso. Anche perché sono soggetti che già avevano ricevuto dalle banche più di una sollecitazione in tal senso». Nello specifico la richiesta di regolarizzazione riguarda gli anni 2015/2016 quando ancora non era in vigore lo scambio automatico (i contribuenti sono invitati a trasmettere il saldo al febbraio 2015 e al 31/12/2016 perché poi dal 2017 lo scambio di informazione è diventato automatico).

«Le violazioni in atto sono due – aggiunge Noro -. In primis non aver indicato il patrimonio nel quadro RW con sanzione dal 6 al 30% dei patrimoni; la seconda sanzione, decisamente più grave, riguarda il fatto se i capitali sono stati formati in anni ancora accertabili (per esempio il soggetto ha trasferito il denaro dall’Italia all’estero oppure da estero a estero dal 2010/2016) c’è da pagare anche l’Irpef dal 180 al 360%».

Insomma, un bel salasso.

 

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