Giganti del web, tassa al 3% del fatturato

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 22 Marzo 2018 di Beda Romano

La proposta della Commissione: l’aliquota sarà applicata nei Paesi europei a livello nazionale

Bruxelles
A dispetto delle critiche degli uni e dello scetticismo di altri, la Commissione europea ha presentato ieri qui a Bruxelles nuove soluzioni per affrontare la questione della tassazione dell’industria digitale. Il pacchetto di proposte prevede tra le altre cose la controversa tassazione del fatturato delle imprese digitali a livello nazionale. La strada del provvedimento è tutta in salita. La stessa Business Europe è critica dell’iniziativa, così come alcuni stati membri.
«Le regole attuali non permettono ai Paesi membri di tassare correttamente le imprese digitali in Europa quando queste non hanno presenze fisiche – ha spiegato il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici –. Questa situazione rappresenta un buco nero per gli stati membri, buco nero che aumenta sempre più poiché si riduce la base imponibile. Ecco il motivo per cui oggi proponiamo una nuova norma giuridica e una tassa provvisoria applicabile a tutte le attività digitali».
Due quindi le proposte, come anticipato dalle informazioni circolate nei giorni scorsi qui a Bruxelles (si veda Il Sole 24 Ore del 16 marzo). La prima struttuale di lungo termine. La seconda di breve termine e temporanea, in attesa di una intesa internazionale. Cominciamo dalla prima. Per decenni, la tassazione societaria è avvenuta sulla base dei profitti generati in un dato paese per via della presenza fisica dell’azienda in quello Stato. Per sua natura, l’industria digitale non ha frontiere.
Di conseguenza, la Commissione propone tre criteri in alternativa l’uno all’altro per giudicare la presenza fisica di una azienda digitale: almeno sette milioni di euro di fatturato annuale in un paese membro; almeno 100mila utilizzatori in un paese membro durante un dato esercizio fiscale; almeno 3.000 contratti commerciali sempre in un dato paese membro. «Le nuove regole modificherebbero il modo in cui i profitti aziendali sono attribuiti ai paesi membri», spiega la Commissione.
In attesa che questo paradigma sia accettato a livello globale, Bruxelles propone fin da ora di tassare nell’Unione il fatturato nazionale delle singole imprese digitali, generato dalla vendita pubblicitaria, dalle attività di intermediazione, dalla vendita di dati personali. Tassate sarebbero le imprese con un fatturato di 750 milioni di euro o più a livello mondiale e di 50 milioni di euro o più a livello europeo. Il commissario Moscovici ha smentito che la nuova tassa sia diretta contro i giganti Internet americani.
Fredda Emma Marcegaglia, presidente di Business Europe: «È importante avere un accordo internazionale sulla tassazione delle imprese digitali, l’Europa non può procedere su questo da sola (…) Noi non vogliamo difendere nessuno in particolare, ma se stiamo (…) alle pratiche internazionali, a essere tassati sono i profitti non il fatturato. È questa regola che dobbiamo difendere». Viceversa il gruppo parlamentare dei Verdi a Strasburgo ha detto di «sostenere gli sforzi» di Bruxelles.
Secondo l’esecutivo comunitario, la nuova imposta – con una aliquota del 3% – potrebbe generare fino a cinque miliardi di euro di gettito fiscale. Bruxelles spiega che la proposta non viola regole sulla doppia tassazione e permette di evitare la segmentazione del mercato unico attraverso l’emergere di iniziative unilaterali (come in Italia, in Slovacchia e in Ungheria). Attualmente, in Europa, le imprese digitali vengono tassate con una aliquota media del 9,5%, rispetto al 23,2% di una società tradizionale.
In Europa, il tema fiscale è spesso fonte di tensioni. I progetti legislativi in questo campo richiedono l’unanimità dei Ventotto. «In mancanza di un consenso globale (…) dobbiamo avanzare a livello europeo, trovando un accordo su un approccio coordinato per garantire l’integrità del mercato unico», hanno scritto in un comunicato Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito. Altri paesi, come l’Irlanda, sono contrari. Si fa già strada l’idea di una cooperazione rafforzata; con quanto successo non è chiaro.

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Soglia «mondiale» per chi opera in Svizzera

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 19 Marzo 2018 di Davide Cagnoni e Angelo D’Ugo

La novità. Dal 1° gennaio 2018 le imprese estere sono soggetti passivi se il fatturato globale supera i 100mila franchi

A partire dal 1° gennaio 2018 tutte le imprese estere, comprese quindi anche le italiane, che svolgono attività in Svizzera sono ivi considerate soggetti passivi Iva se il loro fatturato annuo, inteso come fatturato realizzato sia in Svizzera sia nel resto del mondo supera i 100.000 franchi (circa 85.500 euro).
Non rileva più, quindi, come accadeva fino al 31 dicembre 2017, il volume d’affari realizzato sul territorio elvetico, ma quello prodotto a livello mondiale, con l’evidente conseguenza che saranno molto più numerose le imprese tenute a identificarsi come contribuenti e versare l’Iva in Svizzera mediante la nomina di un rappresentante fiscale.
L’obbligo riguarda sia le prestazioni eseguite in Svizzera tramite contratti d’appalto sia le fattispecie nelle quali, al di fuori di un contratto d’appalto, il fornitore consegni il bene solo dopo la lavorazione sul territorio svizzero (ad esempio consegna, dopo il montaggio, di macchinari, finestre o di impianti di areazione o, più in generale, consegna di beni importati con montaggio sul territorio svizzero in occasione di lavori di manutenzione di edifici).
La partita Iva in Svizzera si ottiene con la nomina, mediante procura scritta, di un rappresentante fiscale (persona fisica o giuridica) con domicilio o sede in Svizzera.

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Turnover nella black list della Ue

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 14 Marzo 2018 di Antonio Della Carità  e Marco Piazza

Internazionale. Il Consiglio dell’Ecofin è intervenuto sull’elenco delle giurisdizioni non cooperative

Escono Antigua e Barbuda, entrano Bahamas e le isole Vergini Usa

Il Consiglio dell’Ecofin tenutosi ieri a Bruxelles è nuovamente intervenuto sulla black list recante l’elenco delle giurisdizioni “non cooperative”, emanata il 5 dicembre scorso.
Alla luce degli impegni di alto livello assunti per riformare le proprie politiche fiscali, Bahrain, Isole Marshall e Santa Lucia sono state tolte dalla lista nera e inserite in quella “grigia” dei Paesi sotto osservazione.
Alla lista grigia si aggiungono anche quattro delle otto giurisdizioni dei Caraibi che, a causa degli uragani del 2017, avevano beneficiato di un termine più lungo per replicare alle osservazioni eccepite dal gruppo “Codice di condotta” nella fase di screening. Si tratta di Anguilla, Antigua e Barbuda, Isole Vergini britanniche e Dominica, che si sono impegnate a rafforzare le carenze individuate nei propri sistemi fiscali.
Entrano invece a popolare la black list Bahamas, Saint Kitts e Nevis e le Isole Vergini statunitensi, mentre l’ottava giurisdizione dei Caraibi, le Isole Turks e Caicos, avrà tempo fino al 31 marzo prossimo per decidere se affrontare o meno le problematiche fiscali riscontrate in sede europea. Si ricorda che la lista era già stata oggetto di un primo correttivo con la decisione varata dall’Ecofin il 23 gennaio scorso, che aveva eliminato dall’elenco dei Paesi non collaborativi ben 8 delle 17 giurisdizioni inizialmente individuate, promuovendo, al contempo, Panama, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Barbados, Grenada, Macao, Mongolia e Tunisia nella grey list.
A oggi, quindi, la black list di matrice europea conta 9 giurisdizioni: American Samoa, Bahamas, Guam, Namibia, Palau, Samoa, Saint Kitts e Nevis, Trinidad e Tobago e Us Virgin Islands. Fanno invece parte della lista “grigia” 59 giurisdizioni in luogo delle originarie 47.
La black list avrà un impatto effettivo sui Paesi interessati. Ad esempio, i finanziamenti europei operanti nel contesto del Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile (Efsd), del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) e del Mandato di prestito esterno (Elm) non potranno più convogliare attraverso entità localizzate in Paesi “non collaborativi”. Inoltre, la lista è entrata a far parte di talune proposte legislative, quali la Com/2016/0198 final – 2016/0107 sul “Country by Country reporting”.
Nell’obiettivo dichiarato dal Consiglio, l’elenco intende promuovere il buon governo in materia fiscale a livello mondiale, massimizzando gli sforzi per prevenire l’elusione, la frode e l’evasione fiscale. Ciò dovrebbe peraltro favorire l’adozione da parte di tutti gli Stati membri di un elenco comune in grado di superare i limiti di un approccio patchwork alla lotta ai paradisi fiscali.
In questo scenario la scelta adottata dall’Italia di abbandonare il precedente sistema eretto sulla balck list in luogo di un criterio di identificazione dei regimi a fiscalità privilegiata basato esclusivamente sul livello di tassazione nominale del Paese estero, mette in luce la profonda distanza tra l’approccio domestico e quello europeo. E ciò non solo per lo strumento adottato dal Consiglio (per esempio la pubblicazione di una lista nera), quanto per i criteri utilizzati nella fase di screening basati su trasparenza fiscale, equità fiscale e adozione di misure anti-Beps.
Le differenze emergono anche confrontando i Paesi attualmente inseriti nella white list di cui al Dm 4 settembre 1996, posto che delle attuali 9 giurisdizioni contemplate nella black list europea, 3 rientrano nella withe list italiana, mentre delle 59 giurisdizioni facenti parte della grey list, 43 popolano anche la white list. In quest’ottica una rivisitazione dei criteri di individuazione dei Paesi a fiscalità privilegiata coerente con l’approccio europeo consentirebbe di superare l’incertezza che l’articolo 167, comma 4, del Tuir gioco-forza determina, creando al contempo un contesto più chiaro ed equo sia per le imprese, sia per gli stessi Paesi terzi .

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La crisi di liquidità non esonera dall’Iva

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 14 Marzo 2018 di Rosanna Acierno

Imposte indirette. Confermato l’orientamento in base al quale l’omesso versamento è giustificabile solo in caso di forza maggiore

L’omesso versamento dell’Iva può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore, a cui lo stesso non abbia potuto porvi rimedio per cause estranee alla sua volontà. È pertanto irrilevante la cosiddetta “crisi di liquidità” del debitore alla scadenza del termine per operare il versamento dell’Iva, poiché il debitore ha l’obbligo non solo di accantonare le risorse necessarie per l’adempimento dell’obbligazione tributaria, ma anche di adottare tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo.
Sono le principali conclusioni cui è giunta la Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11035 depositata ieri, conformandosi ad altre precedenti pronunce di legittimità.
Si ricorda che, secondo quanto stabilito dall’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000 (come modificato dal Dlgs 158/2015) è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250mila euro (fino al 22 ottobre 2015 50mila euro) per ciascun periodo d’imposta. Inoltre, in base a quanto stabilito dall’articolo 13 del Dlgs 74/2000 (entrato in vigore dal 22 ottobre 2015) l’omesso versamento dell’Iva per importi superiori a 250mila euro non è penalmente sanzionato quando il contribuente versa integralmente le somme dovute all’Erario, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi maturati, prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado.
La pronuncia trae origine da un ricorso per cassazione di una sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Trieste proposto da un imprenditore che aveva omesso per il 2008 e 2009 di versare l’Iva dovuta in base alle dichiarazioni annuali. In particolare, l’imprenditore eccepiva la mancata considerazione da parte della Corte di Appello della circostanza che l’omesso versamento dell’Iva non era dovuto ad una condotta volontaria, bensì alla crisi di liquidità in cui versava la sua impresa a causa di enormi crediti vantati nei confronti di terzi, ma non riscossi. Inoltre, lo stesso imprenditore chiedeva, per l’anno di imposta 2009, il riconoscimento della causa di non punibilità, in forza del principio del favor rei, per aver provveduto al pagamento di quanto dovuto a titolo di imposta, sanzioni e interessi anche se però dopo il dibattimento di primo grado.
Pur annullando la parte di sentenza relativa al reato commesso per il 2008 perché, trattandosi di omesso versamento Iva per 200mila euro, ossia inferiore alla nuova e più alta soglia di 250mila euro, il fatto non sussiste, i giudici di legittimità non hanno riconosciuto per il reato commesso per il 2009 alcuna causa di non punibilità. Secondo la Corte, infatti, soltanto la comprovata assoluta impossibilità di adempimento dell’obbligo tributario è idonea ad escludere la punibilità del reato di omesso versamento dell’Iva, ma non di certo la mera difficoltà di porre in essere il comportamento omesso.

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Aliquota al 26% sulle plusvalenze dal 2019

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 6 Marzo 2018 di Giacomo Albano e Marco Piazza

Persone fisiche. Parificato il trattamento tra partecipazioni qualificate e non qualificate

Regime impositivo unico per la tassazione dei dividendi percepiti da persone fisiche. Con le modifiche della legge di Bilancio tutti gli utili distribuiti da società ed enti residenti e non residenti scontano la ritenuta o imposta sostitutiva del 26%, sia che derivino da partecipazioni qualificate che non qualificate.
Finora, nei confronti delle persone fisiche residenti la ritenuta o imposta sostitutiva del 26% a titolo definitivo era applicata solo sugli utili e proventi derivanti da partecipazioni non qualificate, mentre se riferiti a partecipazioni qualificate concorrevano alla formazione del reddito Irpef del percipiente nella misura del 58,14% (misura applicabile dagli utili prodotti dal 2017).
Ricordiamo che per partecipazioni qualificate si intendono quelle che rappresentano oltre il 2% dei voti in assemblea ordinaria o il 5% del capitale, per le società con azioni negoziate in mercati regolamentati oppure oltre il 20% dei voti o 25% del capitale, per le società non quotate.
Unica eccezione all’imposta secca del 26% nel nuovo regime impositivo è rappresentata dagli utili provenienti da società localizzate in Stati o territori a fiscalità privilegiata che concorrono per il 100% alla formazione del reddito complessivo dei percipienti residenti in Italia, scontando le ordinarie aliquote Irpef e relative addizionali, a meno che non si tratti di utili già tassati per trasparenza ai sensi della disciplina Cfc o provenienti da partecipazioni black list in relazione alle quali sia dimostrata la seconda esimente (si veda l’articolo in alto).
Nessuna modifica, invece, per gli utili di provenienza black list per i quali sia dimostrato la prima esimente, ovvero che la società non residente svolge un’effettiva attività industriale o commerciale nel mercato dello Stato di insediamento. Il nuovo regime di tassazione al 50% è infatti applicabile esclusivamente ai soggetti Ires.
Le nuove regole di tassazione dei dividendi – con l’imposizione del 26% anche sugli utili qualificati – si applicano ai redditi di capitale “percepiti” a partire dal 1° gennaio 2018. Una norma transitoria prevede, tuttavia, che alle distribuzioni di utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, e deliberate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022, continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto Mef del 26 maggio 2017. Pertanto, gli utili derivanti da partecipazioni qualificate la cui distribuzione è deliberata nel quinquennio 2018-2022 concorrono alla formazione del reddito complessivo:
per il al 40%, se prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2007
per il 49,72%, se prodotti a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 e fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2016;
per il 58,14%, se prodotti a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016.
I dividendi distribuiti si considerano prioritariamente formati con utili prodotti fino al 2007, poi con quelli prodotti fino al 2016 e – da ultimo – con gli utili 2017.
La tassazione unica del 26% riguarda, infine, anche le plusvalenze – sia qualificate (per quelle realizzate dal 1° gennaio 2019) che non qualificate – fermo restando il concorso integrale al reddito imponibile delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in società localizzate in Paesi a fiscalità privilegiata.

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L’amministratore imprudente deve risarcire i danni

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 8 Marzo 2018 di Antonino Porracciolo

Fallimento. Causa promossa dal curatore

No alla responsabilità degli amministratori delle società di capitali per il solo fatto che la gestione abbia prodotto risultati negativi. A condizione, però, che le iniziative non siano state avventate e che le scelte abbiano rispettato le regole di prudenza che, per il tipo di operazione, erano richieste da legge o statuto. Sono questi, in sintesi, i principi affermati dal tribunale di Roma nella sentenza 24233 dello scorso 29 dicembre.
La causa è stata promossa dal curatore fallimentare di una Srl per ottenere la condanna dell’ex amministratore della stessa società al pagamento di 557mila euro; somma che, secondo il ricorrente, costituiva l’equivalente del danno che il convenuto aveva causato alla Srl per non aver pagato le imposte né riscosso crediti della società e per aver iscritto al bilancio somme per fatture inesistenti. L’ex amministratore è rimasto contumace.
Nel decidere la lite, il tribunale osserva, innanzitutto, che, dopo il fallimento di una società di capitali, le diverse ipotesi di responsabilità degli amministratori previste dal Codice civile «confluiscono in un’unica azione, dal carattere unitario e inscindibile», che può essere esercitata solo dal curatore in base all’articolo 146 della legge fallimentare. Il giudice aggiunge quindi che, a parte le condotte dolosamente realizzate ai danni della società, le iniziative degli organi amministrativi («quand’anche risultate in concreto economicamente poco positive») non possono di regola essere considerate fonte di responsabilità verso lo stesso ente; ciò purché si tratti di scelte che «rientrino nell’ambito del normale esercizio della libertà imprenditoriale e nel rischio d’impresa». Di conseguenza, i risultati negativi della gestione non determinano, di per sé, responsabilità in capo all’organo amministrativo, giacché le decisioni prese nella gestione dell’impresa presuppongono una discrezionale «valutazione di opportunità e di convenienza», sottratta al giudizio dei tribunali.
Nel caso in esame, il tribunale ha posto a carico del convenuto le sanzioni e gli interessi dovuti dalla Srl per non aver pagato le imposte; così come ha riconosciuto il diritto del fallimento al risarcimento per la mancata riscossione di un credito verso altra società e per la fatturazione di operazioni inesistenti, dirette creare debiti fittizi a carico della società. Così l’ex amministratore è stato condannato al pagamento di 293mila euro alla curatela.

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Il costo delle materie prime non prova l’antieconomicità

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 12 Marzo 2018 di Marco Nessi e Roberto Torelli

Accertamento. Va considerato il consumo effettivo e il fatto che l’acquisto avviene in blocco a inizio anno

È illegittimo l’accertamento basato sulla presunta antieconomicità dell’attività economica svolta sulla base dei soli costi sostenuti per l’acquisto di materie prime ma non già dell’effettivo consumo dei prodotti acquistati. È questo il principio enunciato dalla Ctr Puglia nella sentenza 2594/14/2017 (presidente Solimando, relatore De Maria).
Nel caso in esame, sulla base di una presunta sproporzione esistente tra i ricavi dichiarati ed i costi sostenuti (acquisto di materie prime, merci e servizi, canoni locativi, spese per dipendenti), l’ufficio contestava ad un parrucchiere l’esistenza di maggiori ricavi omessi (ai sensi dell’articolo 41-bis e 38 del Dpr 600/1973). In particolare, il maggior reddito accertato veniva quantificato in base alla media dei prezzi relativi alle prestazioni effettuate. Il contribuente proponeva ricorso dinnanzi alla commissione tributaria e, a dimostrazione dell’assenza di un comportamento antieconomico nella gestione, sottolineava che, nel caso specifico, l’ufficio non aveva neanche verificato se i prodotti acquistati erano stati effettivamente utilizzati nell’attività e in quale misura. Inoltre, considerato che l’acquisto dei prodotti era stato complessivamente pattuito con i fornitori all’inizio dell’anno solare ad un prezzo predeterminato, la merce era stata ritirata indipendentemente dalla previsione di effettivo utilizzo.
La Ctp di primo grado, pur ritenendo sussistente l’incongruenza dei ricavi dichiarati dal contribuente, provvedeva a rideterminare la pretesa impositiva applicando a tutte le prestazioni effettuate il prezzo più basso (25 euro), corrispondente al prezzo per la messa in piega con shampoo e bagno di crema e per taglio.
In sede d’appello, l’ufficio ribadiva la correttezza del proprio operato e confermava di avere applicato alle prestazioni accertate il prezzo medio tra quelli minimi previsti per i vari tipi di prestazione. La Ctr ha rigettato l’appello dell’ufficio, confermando la sentenza di primo grado. In particolare, il collegio ha osservato che, nel caso in esame, il Fisco non poteva rilevare l’antieconomicità del comportamento del contribuente sulla base dei soli costi sostenuti per l’acquisto di materie prime, in quanto questa conclusione è basata sull’errato presupposto (mai dimostrato) che ad ogni acquisto di prodotti debba conseguire l’effettivo consumo degli stessi.
Inoltre, a differenza di quanto è stato fatto, la dimostrazione dell’effettiva sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti non poteva essere rilevata solo facendo ricorso alle medie del settore dato che, come è stato affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza 16862/2008 «tali medie non integrano un fatto noto e storicamente provato, dal quale argomentare quello ignoto, ma il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati». Quanto sopra dimostra l’assenza delle gravi incongruenze tra i valori dichiarati dal contribuente e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o degli studi di settore e, di riflesso, l’illegittimità del maggior reddito accertato.

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Tassazione a tre vie per i dividendi

11 Aprile 2018

Rendite finanziarie. L’agevolazione prevista dalla legge di Bilancio si applica solo se la società estera svolge un’effettiva attività industriale o commerciale

Il Sole 24 Ore 6 Marzo 2018 di Giacomo Albano e Marco Piazza

Per l’Ires il prelievo al 50% sugli utili black list si aggiunge al regime ordinario e a quello integrale Regime ordinario di esclusione dal reddito per il 95% dell’ammontare, tassazione integrale o detassazione al 50 per cento. Sono tre i regimi di imposizione dei dividendi per i soggetti Ires previsti a seguito delle modifiche introdotte dalla legge di Bilancio 2018 (legge 205/2017).
Quest’ultima ha modificato le modalità di tassazione dei dividendi provenienti da Stati o territori a regime fiscale privilegiato (che vengono chiamati per semplicità black list anche se la lista nera al decreto 21 novembre 2001 non è più operativa) , stabilendo un regime di esclusione parziale (al 50%) dal reddito della società percipiente a condizione che sia dimostrato l’effettivo svolgimento, da parte della partecipata non residente, di un’attività industriale o commerciale nel mercato dello Stato o territorio di insediamento.
Di fatto è un regime “intermedio” (per i soli soggetti Ires) tra il regime di tassazione integrale che ha finora caratterizzato i dividendi provenienti da Stati a fiscalità privilegiata ed il regime di esclusione al 95% (ovvero tassazione per il 5%) che rappresenta il regime ordinario di tassazione dei dividendi.
Il regime ordinario si applica agli “utili” distribuiti in qualsiasi forma dalle società ed enti residenti, nonché ai proventi derivanti da strumenti finanziari partecipativi, la cui remunerazione sia costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente o di altre società del gruppo, e alla remunerazione dei contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza che prevedono un apporto di capitale da parte dell’associato.
In caso di utili distribuiti da società non residenti è inoltre richiesto che gli stessi siano indeducibili dal reddito estero dell’emittente e che non siano “provenienti” da società in Paesi a fiscalità privilegiata diversi da quelli Ue o See.
Per gli utili di provenienza black list l’integrale imposizione dei dividendi poteva finora essere evitata solo nel caso in cui gli utili stessi fossero stati imputati al socio per trasparenza ai sensi della disciplina Cfc, ovvero a seguito della dimostrazione che «dalle partecipazioni non fosse conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato» (seconda esimente).
Al contrario, nessuna deroga al regime di integrale imponibilità era finora accordata dimostrando lo svolgimento da parte della partecipata di un’attività industriale o commerciale (prima esimente).
La dimostrazione dell’esimente dell’effettiva attività commerciale consentiva di evitare la tassazione per trasparenza del reddito della partecipata, ma non la tassazione integrale dei dividendi da questa distribuita. In questo caso l’unico correttivo consisteva nel riconoscimento di un credito d’imposta “indiretto” sugli utili maturati durante il periodo di possesso della partecipazione.
In questo contesto interviene la legge di Bilancio 2018, che introduce una detassazione del 50% dell’ammontare dei dividendi provenienti da soggetti residenti in paradisi fiscali che svolgono un’effettiva attività industriale o commerciale. Resta ferma, inoltre, la possibilità di ottenere il credito d’imposta “indiretto” per le imposte estere assolte dalla partecipata nei limiti dell’imposta italiana relativa a tali utili, quindi nei limiti del 50 per cento.
Senza una decorrenza specifica, le nuove regole dovrebbero applicarsi in relazione agli utili percepiti dal 1° gennaio 2018, indipendentemente dall’esercizio di maturazione degli stessi e dalla data della delibera. Il nuovo regime, peraltro, non si estende alla tassazione delle plusvalenze derivanti da cessione di partecipazioni in società operative residenti in paradisi fiscali, che restano pienamente imponibili, salvo che sia fornita la dimostrazione che dalle partecipazioni non sia stato conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati a regime fiscale privilegiato.

 

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False fatture, nei gruppi fari sulle controllate

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 14 Marzo 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Società. In caso di raggruppamenti con reddito unificato rilevano ai fini penali le dichiarazioni delle imprese consolidate

In caso di false fatturazioni tra società dello stesso gruppo in regime di consolidato fiscale si commettono comunque i delitti di emissione ed utilizzo in dichiarazione di documenti per operazioni inesistenti, in quanto ai fini penali sono rilevanti le singole dichiarazioni delle imprese consolidate e non quella di gruppo. È il rigoroso orientamento espresso dalla Cassazione, con la sentenza 11034 depositata ieri.
Il rappresentante legale di due società dello stesso gruppo era condannato per emissione di fatture false da parte di una delle due imprese e di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di falsi documenti da parte dell’altra impresa.
Nel ricorso l’imputato eccepiva, tra l’altro, l’insussistenza del dolo specifico non essendoci la finalità di evadere le imposte: le società facevano parte del medesimo gruppo che aveva optato per il regime consolidato. Tale dichiarazione comprendeva gli utili e le perdite delle varie imprese con una unitaria liquidazione dell’imposta. Ne conseguiva che nessun vantaggio fiscale era stato conseguito in quanto i maggiori costi di una società erano compensati dai maggiori ricavi dell’altra.
La Corte ha respinto il ricorso. Innanzitutto, ha chiarito che solo le dichiarazioni presentate dalle singole società rientrano nel delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture, in quanto solo tali dichiarazioni possono contenere elementi passivi fittizi. È così esclusa la dichiarazione consolidata che non presenta al suo interno tali elementi passivi fittizi.
Secondo la Cassazione, la circostanza che le due società (emittente ed utilizzatrice) fossero in regime di consolidato ai fini delle imposte sui redditi, comporta soltanto sul piano esclusivamente fiscale la determinazione di un reddito complessivo corrispondente alla somma algebrica dei redditi delle singole società.
Non è esclusa, invece, la dichiarazione fraudolenta, in quanto inficiata da elementi passivi fittizi in capo ad una società, e l’emissione di false fatture nei confronti dell’altra che si perfeziona a prescindere dall’effettivo utilizzo dei terzi di tali documenti. La pronuncia è certamente condivisibile in merito all’irrilevanza penale della dichiarazione consolidata di gruppo perché non riporta alcun elemento passivo fittizio (risultante invece nella dichiarazione della consolidata). Non è noto se tutti i documenti falsi siano rimasti all’interno delle imprese del gruppo, tantomeno gli importi precisi delle imposte derivanti dalle fatture emesse e del risparmio fiscale ottenuto.
La Cassazione, però, sembrerebbe non considerare che se i due importi dovessero coincidere in realtà non viene evasa alcuna imposta. Difetterebbe quindi il dolo specifico. Non è un caso che normalmente le false fatturazioni tra società dello stesso gruppo non hanno mai finalità di risparmio fiscale ma altri scopi (illeciti) non tributari.

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D.D. 1 febbraio 2018 n. 15 Disposizioni per favorire il rientro di patrimoni e l’emersione di alcuni beni detenuti all’estero

11 Aprile 2018

Si ricorda che con Decreto Delegato 1 febbraio 2018 n. 15 è stata prevista la facoltà – per ogni contribuente – di presentare istanza di regolarizzazione dichiarativa dibeni/patrimoni e redditi esteri non dichiarati in relazione ai periodi d’imposta per i quali non sono decorsi i termini per l’accertamento di cui all’art. 115 della Legge IGR n.166/2013 e successive modifiche ed integrazioni. La scadenza è prevista entro il 31/05/2018 e si allegaper tutti gli interessati il testo completo della  Circolare del 28/03/2018 dell’Ufficio Tributario.

Circolare 28 marzo 2018 Ufficio Tributario

 

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