Antiriciclaggio, dai giudici il principio del favor rei

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 19 Gennaio 2018 di Valerio Vallefuoco

Sanzioni valutarie. Provvedimento del Tribunale di Roma

A distanza di quasi sei mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 90/2017 che recepisce delle IV Direttiva antiriciclaggio, si cominciano a definire i primi orientamenti giurisprudenziali in ordine alla portata applicativa delle nuove norme.
Sono infatti state emesse alcune sentenze di primo grado che applicano le sanzioni più favorevoli ai soggetti vigilati, in particolare alle banche ed ai loro dirigenti e dipendenti. In questo contesto si inserisce il recente provvedimento, ottenuto dallo studio Ristuccia Tufarelli, con il quale il Tribunale di Roma il 6 gennaio 2018 ha sospeso l’efficacia esecutiva di un decreto con il quale il Mef irrogava a una banca una pesante sanzione per violazione della normativa antiriciclaggio.
Nel motivare il provvedimento di sospensione, il giudice si richiama alla norma del nuovo testo antiriciclaggio (articolo 69) che, nel disciplinare la successione di leggi nel tempo, espressamente prevede l’applicazione del principio del favor rei in base al quale, per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del nuovo decreto, sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se più favorevole.
Ne risulta confermata l’operatività del principio della retroattività della legge più favorevole al sanzionato (lex mitior). Tale principio era stato richiamato prima nella relazione illustrativa del Governo al decreto, poi dalla circolare applicativa della Guardia di finanza e anche da quella del Mef sul regime e le procedure sanzionatorie.
In questo senso anche la dottrina si era già espressa (si veda Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2017). L’applicazione di tale principio presuppone che una medesima condotta sia prevista come illecita e sia sanzionata sia dalla legge in vigore al momento del fatto, sia dalla successiva ma con un regime sanzionatorio differente. Condizioni, queste, presenti nel caso sottoposto alla cognizione del giudice capitolino e che potrebbero portare ad un dimezzamento della sanzione irrogata.
C’è da attendersi che questo provvedimento giudiziario sia destinato a costituire un importante precedente soprattutto in considerazione del fatto che anche dopo la riforma i giudizi di opposizione al decreto sanzionatorio adottato dal Mef restano assoggettati alla giurisdizione del giudice ordinario individuato in via esclusiva proprio nel Tribunale di Roma.
Sarà interessante seguire gli ulteriori sviluppi in considerazione della difesa ministeriale, che invece sostiene la non applicabilità della sanzione più favorevole ai procedimenti definiti con decreto di condanna. Tale tesi si giustifica, secondo il ministero, in quanto, essendo il decreto di condanna immediatamente esecutivo, il sanzionato normalmente procede al pagamento e quindi il ministero sarebbe costretto a restituire quanto incassato in violazione del principio di invarianza finanziaria.
Probabilmente la questione è tutt’altro che risolta ed assisteremo a impugnazioni di queste decisioni e provvedimenti da parte del Mef, anche se il principio generale è chiaro: si applica sempre il principio della legge più favorevole quando un u decreto o un’ordinanza di condanna sono impugnati poiché sono considerati provvedimenti non definitivi .

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Delle ritenute omesse risponde il cda

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 24 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Cassazione. I singoli componenti sono responsabili quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento

Del reato di omesso versamento delle ritenute può rispondere ciascun componente del consiglio di amministrazione della società: ognuno infatti, disponendo di poteri di firma libera e disgiunta, può autonomamente adempiere all’obbligazione tributaria a prescindere dalla suddivisione interna di specifiche competenze.
Ad affermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2741 depositata ieri.
Nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una società veniva disposto sequestro preventivo finalizzato alla confisca, su beni nelle loro disponibilità per il delitto di omesso il versamento delle ritenute della società.
La misura cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame. Avverso tale decisione, ricorrevano gli amministratori in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi, l’errata estensione della responsabilità penale all’intero consiglio di amministrazione, anziché imputarla esclusivamente al legale rappresentante della società.
La Suprema corte, ritenendo infondata la doglianza, ha innanzitutto chiarito che la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate (nella versione ante modifiche del Dlgs 158/2015) nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente. Il reato si consuma così alla scadenza del termine lungo e non prima, con la conseguenza che fino a tale momento, il comportamento omissivo del contribuente non ha alcuna rilevanza penale. Da ciò consegue che la responsabilità potrebbe anche ricadere su un soggetto diverso da chi ha omesso i versamenti delle ritenute: potrebbe infatti accadere che l’amministratore nel corso dell’anno, quando cioè avvengono gli omessi pagamenti, non sia il medesimo in carica all’atto della presentazione della dichiarazione.
Con riguardo poi alla sussistenza di un consiglio di amministrazione, i giudici di legittimità hanno precisato che i singoli componenti non sono chiamati a rispondere perché garanti dell’adempimento altrui, ma quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento. Trattandosi di una società a responsabilità limitata, se l’ordinaria amministrazione è affidata a più persone disgiuntamente, ciascuno è autonomamente e singolarmente in grado di porre in essere gli atti estintivi delle obbligazioni della società.
Il pagamento del debito tributario, peraltro, è un atto giuridico che qualunque amministratore può validamente compiere, non trattandosi di atto di gestione in senso stretto.
L’eventuale suddivisione interna delle competenze non è opponibile a terzi e comunque non limita la capacità del singolo membro di compiere atti giuridici, tanto più se il potere di ciascuno è con firma libera e disgiunta.
Ciascun amministratore poteva così compiere atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere ed anche “estranei” al settore di propria competenza. Da qui il rigetto del ricorso.

 

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Lettere sulle attività estere «viziate» da dati indebiti

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 25 Gennaio 2018 di Marco Piazza

Adempimento spontaneo. Le comunicazioni dell’Agenzia riguardano il periodo d’imposta 2016

Nel Crs anche le informazioni sui rapporti intestati a intermediari

Lo scambio d’informazioni automatico con le amministrazioni finanziarie estere (secondo il cosiddetto Common reporting standard – Crs) comincia a dare i suoi risultati: sulla base del provvedimento dell’agenzia delle Entrate 299737/2017 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 22 dicembre 2017) sono state inviate migliaia di comunicazioni ai contribuenti che risultano detenere attività finanziarie all’estero non indicate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, con lo scopo di promuovere il cosiddetto “adempimento spontaneo”.
Queste comunicazioni sono estremamente generiche. Non contengono alcun dato che consenta di identificare la tipologia di attività, l’entità e il luogo di detenzione. Non si tratta quindi di accertamenti contro cui ricorrere, a rischio di perdere qualche opportunità di difesa; né si tratta di atti introduttivi di attività di indagine nei confronti del contribuente.
Viene solamente avvertito il contribuente che risultano anomalie nella sua posizione fiscale, che può chiedere e fornire spiegazioni.
Le comunicazioni riguardano l’anno d’imposta 2016 (dichiarazione 2017). Pertanto è ancora possibile avvalersi del ravvedimento operoso.
L’obbligo di compilare il quadro RW non sussiste se le attività all’estero sono detenute per mezzo di intermediari finanziari italiani che, al verificarsi dei presupposti, prelevino eventuali ritenute ed imposte sostitutive dovute (articolo 4, comma 3 del Dl 167/90).
Ci si attendeva che i rapporti all’estero intestati ad intermediari finanziari italiani (cosiddette “istituzioni finanziarie”) per conto dei loro clienti non sarebbero stati oggetto di alcuna segnalazione da parte degli intermediari esteri: in linea di massima, lo scambio automatico d’informazioni non viene effettuato se il conto o il deposito è intestato ad una istituzione finanziaria. Qualche problema poteva sorgere per i rapporti in amministrazione fiduciaria senza intestazione oppure per i lavoratori in zone di frontiera, detentori – nello Stato estero in cui lavorano – di conti correnti con giacenza media non superiore a 5mila euro.
Quando invece il rapporto all’estero è intestato a una istituzione finanziaria di un paese collaborativo (specie italiana) la segnalazione non dovrebbe essere fatta.
È invece successo che molti intermediari esteri hanno comunicato anche i titolari effettivi dei rapporti intestati a banche e fiduciarie italiane per loro conto e che quindi, l’agenzia delle Entrate abbia riscontrato, in tantissimi casi, anomalie in realtà non esistenti.
I principali casi riguardano polizze vita, quote di fondi comuni d’investimento e azioni o quote di società estere.
Il contribuente in regola può:
• trascurare la comunicazione;
• chiedere alla direzione provinciale competente ulteriori informazioni per individuare l’investimento oggetto di segnalazione;
• dare all’Agenzia l’informazione che giustifica la mancata compilazione del quadro RW, ossia che le attività sono amministrate da un intermediario finanziario italiano.
L’ultima soluzione (si veda qui a fianco il facsimile da adattare al caso concreto) pare preferibile perché i dati dello scambio d’informazioni sono disponibili anche per la Guardia di Finanza.

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Il reato tributario prevale sulle false comunicazioni

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 29 Gennaio 2018 di Antonio Iorio

Se le false comunicazioni sociali sono state poste in essere al solo fine di evadere il fisco e integrano anche un reato tributario non è possibile ipotizzare il concorso fra i due delitti in quanto l’illecito fiscale è speciale rispetto a quello societario e quindi lo assorbe. Lo scopo della violazione, in altre parole, è rappresentato soltanto dall’illecito risparmio di imposta che assorbe quello più generale previsto dalla fattispecie penale societaria di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. È questa una della numerose, interessanti, indicazioni fornite dal Comando generale della Guardia di Finanza nella circolare 1/2018 sull’attività di controllo del Corpo.
La direttiva, a questo proposito, richiama l’attenzione sul possibile concorso tra reati di matrice tributaria e quelli di falso societario con riferimento, ovviamente, alle società di capitali. Viene evidenziato che l’occultamento di ricavi ovvero l’esposizione di costi “gonfiata” da parte di società possono generare, contestualmente, sia un bilancio d’esercizio, sia una denuncia dei redditi mendace. Così l’inserimento tra i costi di un onere inesistente comporta inevitabilmente l’indicazione di un fatto materiale non rispondente al vero. In questo caso ricorre, astrattamente, il caso tipico di concorso materiale tra i reati di false comunicazioni sociali e di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2 del Dlgs 74/2000, che si configura laddove gli elementi negativi inesistenti rilevati in bilancio e indicati nella dichiarazione fiscale derivino dall’utilizzo di fatture o altri documenti falsi.
La circolare ricorda però che il concorso implica il riscontro della sussistenza degli altri elementi costitutivi delle fattispecie penali esaminate, tra cui i diversi elementi soggettivi e i differenti momenti di consumazione. L’elemento soggettivo proprio della frode fiscale è il fine di evadere le imposte e di consentire a terzi l’evasione e risulta ben distinto da quello del falso in bilancio rappresentato dal conseguimento per sé o altri di un ingiusto profitto. Quindi se le false comunicazioni sociali hanno un’esclusiva finalità fiscale, si configurerà, in virtù del criterio di specialità, la sola frode fiscale; di contro, ove non sussista il fine di consentire a terzi l’evasione, ma si riscontri il solo elemento psicologico previsto per il reato societario, sarà configurabile solo la fattispecie del mendacio societario.

 

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No alle presunzioni per il pagamento delle royalties

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 27 Gennaio 2018 di Alessandro Galimberti

Ctp Milano. Rapporti infragruppo

Il pagamento di royalties per lo sfruttamento del marchio non può essere dedotto in via presuntiva dall’amministrazione se non risulta in contabilità, e comunque l’ufficio ha l’onere di provare l’effettiva corresponsione degli importi soggetti a ritenuta.
Una recente decisione della Commissione provinciale di Milano (n° 7134/23/17, depositata il 27 dicembre scorso) può diventare un punto di riferimento per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre. La Ctp ha infatti accolto il ricorso di una società milanese contro gli avvisi di accertamento per gli anni 2011-12-13-14 sugli omessi versamenti di ritenute per lo sfruttamento del marchio di proprietà di una società svizzera (importo complessivo di circa 340 mila euro).
Le Entrate avevano in sostanza considerato, nonostante la mancata evidenza in bilancio, che i rapporti tra la branca italiana e la casa madre svizzera fossero la prosecuzione di un accordo in vigore negli anni precedenti le contestazioni, in base al quale era riconosciuta alla società di diritto svizzero una royalty pari al 2,5%. In realtà, come emerso già in sede di contraddittorio e poi nel procedimento, a partire dal 2009 l’entità distributiva “AG” era stata accentrata in Svizzera «assumendo la duplice veste di titolare del trademark rights e di distributore accentrato del gruppo». In sostanza, argomenta la Ctp, non è qui utilizzabile la direttiva Ocse che presume l’incorporazione del compenso (royalty) nel prezzo fatturato solo quando «un’impresa vende a un’altra prodotti non finiti, mettendo a disposizione al tempo stesso la propria esperienza per un’ulteriore lavorazione di questi prodotti». Nel caso in esame, invece, la società italiana si era limitata a vendere prodotti finiti e totalmente “gestiti “oltre frontiera.
I giudici hanno così risolto la questione della (im)possibilità da parte degli uffici finanziari di pretendere le ritenute su royalties non risultanti dalla contabilità, ma accertate in via presuntiva come ricomprese nel prezzo delle merce distribuita in Italia con marchio appartenente alla casa madre estera. La Commissione ha escluso tale possibilità in quanto è “inammissibile” ipotizzare il pagamento di royalties alla casa madre quando la società controllata italiana limita la propria attività alla sola distribuzione e, in capo alla casa madre estera, la funzione di distribuzione coincide con la proprietà del marchio.
«Si tratta – argomenta il legale della ricorrente, Angelo Vozza – di sentenza interessante per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre perché, con un esame approfondito, dichiara illegittimo l’accertamento della ritenuta su una royalty presunta in modo del tutto irragionevole».

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Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 30 Gennaio 2018 di Antonio Zappi

Ctr Veneto. Il conto corrente

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).
L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.
Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.
Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».
Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.
Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.
Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

 

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L’esterovestizione non esonera dall’obbligo di dichiarazione Iva

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 23 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi

Cassazione. L’operazione non abusiva comporta l’adempimento

L’esterovestizione di una società non è un’operazione abusiva con la conseguenza che l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia costituisce una fattispecie penalmente rilevante. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2407 depositata ieri.
La vicenda nasce da una contestazione della Gdf con la quale veniva considerata esterovestita una società tedesca. Il legale rappresentante veniva così accusato di omessa dichiarazione Iva.
Il Gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia nei confronti della società sia del suo amministratore, fino a concorrenza dell’imposta evasa. Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro e l’indagato, il legale rappresentante della società, proponeva ricorso per Cassazione.
Tra i motivi di doglianza, la difesa rilevava che la realtà tedesca non era stata indagata dalle relative autorità; quindi, al massimo poteva essere contestato, attesa la veridicità delle operazioni commerciali, un abuso del diritto di stabilimento della sede operativa, ma non il reato di omessa presentazione in Italia della dichiarazione. Non era configurabile alcun delitto, poiché nel nostro ordinamento è esclusa la rilevanza penale delle operazioni abusive (articolo 10 bis dello Statuto del contribuente).
I giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza precedente, hanno innanzitutto ricordato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se c’è una stabile organizzazione in Italia. Tale caratteristica si desume da elementi fattuali rilevanti quali la sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (la cosiddetta “alta amministrazione”) nonché della conduzione delle attività costituenti l’oggetto sociale.
Nella specie, in Italia era stata rinvenuta in sede di verifica tutta la documentazione contabile, bancaria (peraltro di conti correnti italiani) e commerciale e la bontà di tali prove era stata già valutata dal Tribunale con adeguata motivazione sul punto.
Con riferimento all’abuso del diritto, per la Suprema corte le operazioni abusive si configurano solo quando non violano disposizioni tributarie e penali tributarie; è una norma di applicazione solo residuale rispetto ad altre relative a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione ed all’utilizzo di documentazione falsa. Perciò non può esistere abuso quando i fatti in contestazione integrano fattispecie penali connotate da elementi costitutivi specifici. Dai documenti in atti era indubbio che si trattasse di esterovestizione e pertanto che la società avesse dovuto rispettare gli obblighi fiscali italiani.

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Prestanome responsabile in concorso

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 17 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Omessa dichiarazione. Per la Cassazione autore principale è l’amministratore di fatto

Il prestanome risponde in concorso con l’amministratore di fatto per il reato di omessa dichiarazione. È responsabile, infatti, di non aver impedito l’evento delittuoso. A confermare questo principio di diritto è stata la Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 1590/2018, depositata ieri.
La sentenza riguarda la vicenda del legale rappresentante di una società che veniva condannato per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dalla quale era conseguita un’evasione di imposta penalmente rilevante.
La condanna di primo grado veniva confermata anche in appello e l’imputato ricorreva così in Cassazione. Lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione.
Più precisamente, nella sentenza di secondo grado non sarebbe emersa la valutazione delle prove riguardanti la consapevolezza della commissione del reato. L’imputato, infatti, non era l’amministratore di fatto della società e pertanto era concretamente estraneo alle scelte aziendali.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il collegio territoriale aveva correttamente valutato la vicenda posta a base dell’intera contestazione.
La società era stata costituita per emettere fatture soggettivamente inesistenti, al fine di giustificare contabilmente gli acquisti di merce in nero effettuati da un’altra società del “gruppo”.
Dai documenti in atti, risultava che l’amministrazione di fatto delle società era affidata ad un terzo soggetto, diverso cioè dal legale rappresentante di diritto.
Dal disegno criminoso emergevano quindi l’omessa presentazione delle dichiarazioni e il mancato versamento dell’Iva, che erano preordinati all’evasione fiscale.
Con riguardo alla responsabilità, la Cassazione ha precisato che l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, poiché è il titolare effettivo della gestione sociale. È infatti l’unico soggetto che si trovi nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.
L’amministratore di diritto, invece, è un mero prestanome. Per questo motivo, è responsabile a titolo di concorso per avere omesso di impedire l’evento. La Corte di cassazione, però, ha precisato che tale concorso interviene a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma. Quindi, nella fattispecie, occorre che il prestanome abbia agito con il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sull’Iva ovvero consentire l’evasione fiscale di terzi.
Tuttavia, poiché nella maggior parte delle ipotesi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che è sufficiente il dolo eventuale.
Il prestanome, quindi, accettando la carica accetta anche i rischi connessi a tale carica.
Nella specie, il giudice territoriale aveva rilevato una forma di partecipazione attiva alla vita sociale da parte dell’amministratore di diritto, poiché risultava coinvolto nella gestione operando sui conti correnti bancari.
Era così consapevole dei meccanismi illeciti e peraltro, su tali considerazioni, l’imputato non aveva eccepito alcuna osservazione.

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Scadenziario Febbraio 2018

1 Febbraio 2018

Scadenziario entro il 20 Febbraio

  • Scade il termine per il pagamento dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S.  F.S.S. e FONDISS per lavoratori dipendenti relativi al mese di gennaio.

Scadenziario entro il 28 Febbraio

  • Scade il termine per il versamento della ritenuta del 5% sugli utili  (anche eventualmente accantonati a Riserva) prelevati nel bimestre di novembre e dicembre dell’esercizio precedente (ritenuta da applicarsi sulla distribuzione utili formatisi dall’anno 2014  in avanti);
  • il pagamento delle ritenute a titolo definitivo per lavoro autonomo relativi al bimestre di novembre e dicembre dell’esercizio precedente;
  • il pagamento dell’imposta speciale di bollo sui servizi di agenzia e rappresentanza (3% – 6%) relativi al bimestre di novembre e dicembre dell’esercizio precedente;
  • il pagamento dell’imposta speciale di bollo sui servizi di elaborazione dati e pubblicità (3%) relativi al bimestre di novembre e dicembre dell’esercizio precedente;
  • scade il termine per la richiesta di rimborso per l’acquisto di benzina e di gasolio usato come carburante nel periodo 01/07/2017 – 31/12/2017 come da decreto delegato del 6 agosto 2012 n. 114

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