E-commerce in nero scoperto con l’incrocio delle banche dati

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 6 Agosto 2024 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

L’operazione. Acquisti online per 1,3 miliardi , con 300 milioni di Iva non versata nel 2017 e nel 2018, nel mirino della Gdf di Pescara

Una gigantesca evasione fiscale sulle vendite online di beni prodotti all’estero – soprattutto abbigliamento ed elettronica – è stata scoperta dalla Guardia di finanza di Pescara che ha individuato 850 aziende in debito di oltre 300 milioni di Iva non versata all’erario italiano.

L’inchiesta, che riguarda gli anni 2017 e 2018 – quando le vendite transnazionali B2C (business to consumer) avevano regole più elastiche e erano interessate da controlli più difficili – ha fatto emergere oltre 1,3 miliardi di euro di transazioni effettuate tramite il marketplac e di Amazon completamente in nero, su un totale di vendite intermediate di 3 miliardi: in sostanza il 47% del mercato era in evasione totale di Iva, con danno erariale di oltre 300 milioni.

I riscontri incrociati ottenuti dalle Fiamme Gialle hanno potuto contare anche sui dati delle transazioni recuperati dal data base di Amazon, considerato che i marketplace digitali dal 2021 sono diventati per legge dei co-obbligati dell’Iva, parti integranti delle transazioni concluse e non più semplici spettatori “neutrali” delle operazioni intermediate.

Il business illecito ha visto coinvolte imprese di vari Paesi non solo Ue (Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Polonia, Austria, Svezia, Estonia, Lituania) ma anche in Usa, Regno Unito, Canada e soprattutto Cina.

L’inchiesta delle Fiamme Gialle si è incentrata sull’analisi dei dati riguardanti le vendite online incrociati con le informazioni fornite dai gestori dei siti e-commerce, dati poi confrontati con le banche dati dell’amministrazione fiscale dove è possibile identificare e verificare la posizione dei contribuenti, quando esiste. I sospetti sono stati confermati dal fatto che di 850 operatori molto “attivi” in Italia non risultava traccia, avendo questi attentamente evitato di aprire una partita Iva. La normativa vigente all’epoca – modificata nel 2021 – nel caso di vendite in e-commerce a consumatori privati prevedeva che l’imposta venisse assolta direttamente dall’operatore commerciale nello Stato membro di destinazione (cioè in Italia) ma solo se il giro d’affari annuale qui superava i 35mila euro.

Pertanto le vendite effettuate via e-commerce dall’impresa con sede all’estero nei confronti del consumatore italiano erano considerate rilevanti per l’Iva solo se il venditore aveva superato la soglia di 35mila euro di vendite nell’anno solare in corso o in quello precedente (soglia nel tempo abbassata fino agli attuali 10mila euro). In quel caso il venditore era tenuto a nominare un rappresentante fiscale o a procedere all’identificazione diretta per assolvere gli obblighi Iva. In entrambi i casi, l’adempimento dell’obbligazione tributaria prevede che vengano assolti tutti gli obblighi, dalla documentazione alle registrazione, dichiarazione e versamento dell’imposta, come un qualsiasi contribuente.

La modalita? “spontanea” di identificazione per gli operatori esteri, che fino a pochi anni fa apriva spazi enormi per condotte illecite, è stata lo spunto investigativo che ha permesso alla Gdf di Pescara di “forzare” lo scrigno del nero digitale.

Le nuove regole in vigore dal 2021 nell’Ue – direttiva 2017/2455/Ue e il regolamento Ue 2017/2454 che implementa la cooperazione amministrativa e penale, strumenti utilizzati da questa indagine – hanno abbassato la soglia di esenzione a 10mila euro di giro d’affari/ anno, ma soprattutto hanno spostato in carico all’intermediario – cioè al marketplace – l’assolvimento dell’Iva (dichiarazione più pagamento). Il marketplace oggi è considerato come il soggetto passivo che acquista e cede i beni nei confronti di una persona che non è un soggetto passivo Iva (come nel caso del consumatore). Con le nuove regole è evidente la centralità del ruolo del marketplace all’interno nella catena commerciale e la sua posizione di solidarietà debitoria dell’Iva, confermata dal Dl 34/2019 (convertito nella legge 58/2019).

E mentre il comandante provinciale della Gdf di Pescara, Antonio Caputo, spiega che il lavoro investigativo è solo all’inizio («Individueremo ogni posizione debitoria»), gli evasori scoperti stanno presentandosi alla cassa per un tardivo e non spontaneo ravvedimento.

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Bonifici truffa con sim falsa: responsabili la banca e Tim

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 13 Agosto 2024 di Alessandro Galimberti

MILANO

La responsabilità per la sicurezza dell’home banking è di tipo oggettivo; la banca può liberarsene solo provando che le operazioni contestate dal cliente sono dovute al suo specifico dolo o colpa grave.

Il Tribunale di Milano (VI civile, est. Anna Giorgia Carbone) condanna in solido la banca (Bper) e l’operatore telefonico (Tim) per non aver bloccato una serie di bonifici truffa, per circa 163 mila euro, subìti da due aziende milanesi durante le vacanze di fine anno del 2020.

Ad accorgersi di anomalìe nel funzionamento dell’interfaccia digitale, era stata una dipendente delle due società durante il check di fine anno: non riceveva più sul cellulare aziendale gli Otp (one time pin) con cui vengono autorizzate le operazioni comandate, una volta eseguito l’accesso sulla piattaforma. A seguito delle tempestive segnalazioni al servizio clienti della banca, il call centre dedicato aveva solo suggerito di reinstallare la app, operazione che non aveva risolto nulla. Solo nei giorni successivi era emersa la dinamica della truffa cosiddetta sim swap: i truffatori dopo aver carpito username password dell’home banking aziendale (non è stato chiarito se mediante phishing o fuga interna di info sensibili), si erano presentati a un punto di assistenza Tim, ottenendo con incredibile facilità la duplicazione della tessera sim (sostituzione di persona con documenti falsi, mancata richiesta di restituzione della vecchia scheda o denuncia di smarrimento). In tal modo i codici di sicurezza Otp da quel momento erano stati inviati solo alla nuova scheda clonata, saldamente controllata dai truffatori digitali.

Bper – subentrata nel contratto originario a Banca Intesa – al processo ha obiettato la scarsa diligenza delle clienti – la password era nella disponibilità di vari dipendenti – ma la giudice, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato che «la possibilità di una abusiva utilizzazione delle credenziali di accesso da parte di terzi rientra nel rischio d’impresa della banca intermediaria, sulla quale grava pertanto una responsabilità di tipo oggettivo», superabile solo dal dolo o colpa grave del cliente. Si tratta, peraltro, di responsabilità per trattamento dei dati personali (Cassazione 10638/2016), la cui prova liberatoria consiste solo nell’aver adottato «tutte le misure idonee ad evitare il danno secondo le conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati, alle caratteristiche specifiche del trattamento».

Aggiunge il Tribunale che «la banca era stata avvertita della sussistenza di anomalie sia il giorno stesso del fatto, sia il giorno immediatamente successivo, con molteplici telefonate al numero dedicato e alla consulente di fiducia della società. Tale comportamento è, quindi, di per sé sufficiente a destituire di ogni fondamento le difese» considerato poi che «l’istituto di credito non ha «adeguatamente provato l’allegata colpa grave del cliente, rinvenibile, in tesi, nell’avere omesso le necessarie cautele per la conservazione delle credenziali personali».

Alle società – assistite da Andrea Monti e Lorenzo Vigasio – spetta ora l’integrale risarcimento del danno attualizzato, a carico solidalmente della banca e dell’operatore telefonico. La prima aveva proposto «per buona volontà» una transazione al 50%, il secondo un “bonus” di 325 euro.

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Esterovestizione a prova stretta per la residenza di società estere

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 23 Agosto 2024 di Alessandro Germani

Risulta sempre delicato comprendere quale possa essere la residenza fiscale di società estere che il fisco italiano può contestare ritenendo che la stessa sia da attribuire all’Italia. Ciò anche in casistiche – invero molto diffuse – di gruppi societari che abbiano delle controllate all’estero. In questo contesto la nuova norma relativa alla residenza di società ed enti ex articolo 73, comma 3 del Tuir, come modificata dal Dlgs 209/23 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, dovrebbe aiutare a evitare questi inconvenienti.

Con riguardo alla nozione di residenza delle società prima delle modifiche apportate dalla legge delega va segnalata la sentenza della Cgt Lombardia di secondo grado del 27 luglio 2023 n. 2439/25/23. La fattispecie riguardava una controllante italiana attiva nella macellazione del bestiame e una sua controllata francese. La Guardia di finanza aveva contestato l’esterovestizione della società francese. Poi l’agenzia delle Entrate aveva corretto il tiro contestando che la società francese fosse una stabile organizzazione dell’entità controllante italiana. È evidente la finalità di queste attività accertative, che mirano a recuperare base imponibile nazionale. Tuttavia, la sentenza dei giudici milanesi conferma che il fatto di costituire una società di diritto estero in loco tendenzialmente risponde ad esigenze di business e non a motivazioni di evasione fiscale internazionale. Ciò a maggior ragione se la società francese ha approvato i propri bilanci, è amministrata da un organo amministrativo in loco, uno degli amministratori agisce sul mercato francese come testimoniato dagli estratti conto della carta di credito in merito ad alberghi, ristoranti, pedaggi autostradali, acquisto di carburante. Esiste un cost sharing agreement in essere con la capogruppo italiana per fornire servizi contabili, amministrativi e fiscali, la società francese ha inoltre conferito incarico di revisione ad una società locale.

Pertanto a tali fini non rileva l’impulso proveniente dalla controllante italiana, che corrisponde all’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento ma non fa venir meno l’indipendenza gestionale e operativa della partecipata francese.

La sentenza della Cassazione 20002 del 19 luglio 2024 ha confermato la tesi del fisco, che aveva contestato la residenza fiscale di una società residente in Romania controllata da una società italiana. L’Agenzia aveva considerato la società esterovestita per il periodo 2009, ovvero residente in Italia sulla base del vecchio criterio fondato sulla sede dell’amministrazione, ex articolo 73, comma 3 del Tuir nella versione ante modifiche della legge delega fiscale. Vengono riprese infatti alcune pronunce di Cassazione che hanno individuato la sede dell’amministrazione con la nozione civilistica di sede effettiva. L’aspetto importante ribadito dalla Cassazione 20002 consiste nel riaffermare un principio importante, cioè che la sede dell’amministrazione non può coincidere sic et simpliciter con il luogo in cui viene svolta la direzione e il coordinamento da parte della controllante. Ciò se avviene fisiologicamente non consente mai di considerare esterovestita la società controllata, perché ciò avviene solo se la controllante assuma il ruolo di vero e proprio amministratore indiretto della controllata, usurpandone l’impulso imprenditoriale (Cassazione 1544/2023).

Le due sentenze appaiono quindi importanti perché ambedue, su casi differenti, confermano il principio per cui se la società estera risponde ad esigenze di business in loco ed è controllata fisiologicamente dalla società italiana che esercita la propria direzione e coordinamento, ciò non è in grado di determinare alcun rilievo di esterovestizione. Che entra in gioco solo in situazioni per così dire “patologiche” di eterodirezione. Questo principio, valido per la formulazione dell’articolo 73, comma 3 ante modifiche, deve ritenersi valido anche dopo le modifiche apportate dal Dlgs 209/23, come confermato di recente anche dalla circolare Assonime 15 che ha trattato la tematica della nuova residenza fiscale delle società ed enti

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Fattura elettronica Ue vincolata solo per cessioni transfrontaliere

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2024 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

Massima e costante attenzione da parte delle istituzioni europee per il pacchetto Vida: nonostante il rinvio al secondo semestre 2024 per la loro definitiva approvazione da parte della Commissione Ue sotto la presidenza ungherese, resta viva l’attenzione su un complesso di norme in grado di incidere profondamente sulla direttiva Iva 2006/112/CE traguardando l’innovazione digitale nelle procedure di fatturazione e di gestione degli scambi intra-unionali. Una visione complessiva di quella che dovrebbe essere la disciplina a regime, anche come tempistiche di avvio, risulta dalle risoluzioni legislative del Parlamento europeo, pubblicate in Gazzetta Ufficiale dell’Unione del 24 luglio 2024, con cui sono stati apportati importanti emendamenti in fase di approvazione delle norme Iva per l’era digitale e delle vendite a distanza di beni importati. La Commissione europea è chiamata ora a modificare le sue proposte, mentre il Consiglio notificherà al Parlamento se intenderà discostarsi o meno dal testo definitivo.

Fattura elettronica formato Ue

Con la risoluzione legislativa C/2024/4246 datata 22 novembre 2023, il Parlamento europeo è intervenuto sull’obbligo di fatturazione elettronica, da un lato modulandone la definizione e dall’altro suggerendo alcune esenzioni soggettive e oggettive e novità circa il contenuto (si veda l’altro articolo). Mentre la prima versione del pacchetto Vida modificava infatti l’articolo 217 della direttiva Iva imponendo un formato elettronico strutturato, tale da consentire il trattamento automatico della fattura, la risoluzione parlamentare introduce una fondamentale distinzione obbligando l’utilizzo del formato strutturato esclusivamente per le comunicazioni digitali Drr – Digital reporting requirements e cioè per inviare i dati relativi a cessioni e prestazioni transfrontaliere. Resta invece la nozione originaria di fattura elettronica per tutte le operazioni nazionali, che potranno essere gestite in qualsiasi formato elettronico. Di conseguenza anche l’articolo 218 come emendato, nel riconoscere la possibilità per gli Stati membri di imporre l’obbligo di emettere fatture elettroniche utilizzando le sintassi della normativa EN16931, e cioè l’Ubl – Universal business language e il Cii – Cross industries invoice, li autorizza comunque ad avvalersi di formati diversi oltre che a vietare l’emissione di documenti su carta dal 1° gennaio 2028. Questo emendamento ha un impatto diretto per l’Italia dove, per le operazioni interne, potrà quindi continuare a essere utilizzato l’attuale formato xml, sebbene dovrà essere possibile scambiarsi documenti anche nei tracciati europei. La proiezione internazionale delle imprese italiane, accompagnata dall’obbligo di fatturazione elettronica intra-unionale e di gestione dei Drr in formato europeo, porterà con tutta probabilità ad una maggiore propensione nell’utilizzo dei tracciati Ubl e Cii.

Sopravvive il modello Intrastat

Nonostante l’introduzione del Drr, secondo quando dispone l’emendamento 3-ter, dovrebbe inoltre essere mantenuta la raccolta dei dati con i modelli Intrastat in quanto ritenuti strumenti essenziali per le amministrazioni fiscali nella lotta contro le frodi Iva. Altra novità riguarda l’accettazione del destinatario a ricevere una fattura in formato elettronico, ad oggi prevista dalla direttiva come elemento necessario e per il quale l’Italia ha richiesto e ottenuto una deroga, analogamente alla Germania nella quale dal 1° gennaio 2025 inizierà una graduale transizione verso l’obbligo di fatturazione elettronica B2B. Con l’emendato articolo 232 della direttiva 2006/112/CE, sino al 31 dicembre 2027 il ricorso a una fattura elettronica sarà subordinato all’accordo del destinatario solamente per gli acquisti intracomunitari di beni e di prestazioni di servizi imponibili in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito il fornitore o il prestatore. Gli Stati membri potranno infatti prevedere che per le restanti cessioni di beni e prestazioni di servizi il ricorso alla fatturazione elettronica da parte dei soggetti passivi stabiliti nel loro territorio non sia subordinato all’accordo del destinatario stabilito nel loro territorio. Dal 1° gennaio 2028 non sarà necessario alcun accordo neppure per le tipologie di operazioni intra-unionali.

GLI EMENDAMENTI

Le risoluzioni

Sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 24 luglio 2024 sono state pubblicate le risoluzioni legislative del Parlamento Ue, C/2024/4246, con cui il legislativo unionale ha emendato il pacchetto Vida. Nonostante il rinvio dell’esame delle norme Iva al secondo semestre 2024, sotto la presidenza ungherese, e in attesa dei rilievi del Consiglio, sono stati apportati importanti emendamenti in fase di approvazione delle norme Iva per l’era digitale e delle vendite a distanza di beni importati.

Definizione di e-fattura

Per fattura elettronica si intendono tutte le operazioni nazionali in qualsiasi formato elettronico (anche non strutturato). Utilizzo delle sintassi Ubl o Cii esclusivamente per le comunicazioni digitali Drr (Digital Reporting Requirements, dati relativi a cessioni e prestazioni transfrontaliere).

Facoltà per gli Stati membri

Gli Stati potranno imporre obbligo di e-fatture in formato EN16931 (Ubl e Cii). Possibili però formati diversi e divieto di documenti cartacei dal 1° gennaio 2028.

Sopravvive Intrastat

Nonostante la nuova reportistica, sarà mantenuta la raccolta dei dati con gli attuali modelli Intrastat, in quanto ritenuti strumenti essenziali per le amministrazioni fiscali nella lotta contro le frodi Iva.

Accettazione dei destinatari

L’accettazione dei destinatari di e-fattura – prevista dalla direttiva come elemento necessario e per il quale l’Italia ha richiesto e ottenuto una deroga – sarà necessaria sino al 31 dicembre 2027 limitatamente agli acquisti intracomunitari di beni e di prestazioni di servizi.

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I mutanti. La carica delle criptobische: le trappole web del risparmio azzardato

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 24 Agosto 2024 di Stefano Elli

Le catene multilivello che svaniscono e ricompaiono con nomi diversi

Si chiama reboot, in italiano riavvio. Quando uno schema multilivello esaurisce la propria spinta propulsiva (cioè i soldi) lo si riavvia in altri luoghi e con altri nomi. E lo si fa ricominciare daccapo. È una specifica tecnica utilizzata per trattenere i clienti scottati dal crollo dello schema precedente in una sorta di insana fidelizzazione (gli psicologi la chiamano sindrome di Stoccolma).

Oggi è facilissimo farlo per tre ragioni: il debordante catalogo prodotti offerto dall’universo criptovalute (vere o presunte); la transnazionalità; e la rapidità degli scambi: il tutto contribuisce a creare l’ecosistema ideale per questo genere di rutilanti operazioni. Proprio a questa tipologia di accidenti della criptofinanza sembra appartenere l’ultimo caso di reboot: quello di Nrt (Neo Credit Token), della digital bank Lituana Banca Neo, del trust Neo Group e del programma di marketing referenziale Neo Circle.

I mutanti

Oggi Neo Circle non esiste più. È stata acquisita dall’azienda di Dubai Xera che a sua volta deriverebbe da altre tre catene: Safir International, Success Factory e The Blockchain Era. A monitorare le piroette di questi acrobati del web è il sito-testata online Decripto.org che da tre anni vigila sul mondo dei criptoscambi. Di queste – ricostruiscono gli esperti di Decripto.org – Safir era stata costruita intorno a Zeniq coin ed era stata acquisita proprio da Neo Group che l’aveva riavviata come Neo Zen Tech. Success Factory, a sua volta, era un reboot di DagCoin di Nils Grossberg ed è finita in fallimento nell’agosto dell’anno scorso. «The Blockchain Era è, tra questi, il caso più eclatante per il fatto che è durato pochissimo, nonostante le mirabolanti parole usate dai vari promotori al momento del suo lancio dalle ceneri di Wewe.global, The Blockchain Era era il suo quarto riavvio. Aggregate alla galassia figuravano anche le tre società LyoPay, LyoTrade e LyoWallet».

Come agisce Xera? «Attraverso le attività di un bot di trading guidato dal sistema di intelligenza artificiale battezzato Quantwize: investimento minimo 110 euro sollecitando puntate in Eurx che richiama nel nome un’altra criptovaluta oggi non più esistente».

E per quanto riguarda lo schema multilevel? «Si alimentava attraverso commissioni dirette realizzate grazie a una struttura di compensazioni unilevel, non mancano anche i bonus grazie ai quali è possibile entrare nella classifica gerarchica in base sia al volume degli investimenti realizzati personalmente, sia in base a quelli iniettati dai nuovi ingressi».

L’architettura

L’architettura utilizzata, dunque, è quasi sempre la stessa. Manuel Sassi Maramotti, banchiere di lungo corso che ha studiato la vicenda dall’interno, sta raccogliendo alcune centinaia di adesioni di clienti di una di queste reti a strascico, che intendono sporgere denuncia, spiega : «L’azienda inizia ad attirare i clienti con un percorso di “private sale” di token suddiviso in diversi round di acquisto. Poi il prezzo si alza e gli utenti vengono convinti che il token sarà utilizzato per acquistare prodotti e servizi nel proprio ecosistema digitale, diventando un “utility token”, moneta utilizzabile solo internamente. Nella terza fase si promette che il token sarà utilizzabile solo all’interno del circuito».

Chiamarlo risparmio tradito è improprio: più corretto sarebbe chiamarlo azzardo finito male. Ma l’enfasi dei procacciatori che da Dubai (sempre più spesso epicentro di queste avventure) si esibiscono nella pantomima del successo (il loro) sono un’esca allettante. Così ci si crede e si investe (o meglio: si punta) su strumenti parafinanziari sapientemente imbellettati per non apparire tali. E il motivo c’è: se apparissero tali si materializzerebbe la fattispecie dell’abusivismo finanziario. E in Italia collocare al pubblico strumenti finanziari senza autorizzazione della Consob e di Banca d’Italia non si può fare.

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La decisione della Corte di Cassazione agevola in caso di errore dell’Iban

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 3 Agosto 2024 di Federica Pezzatti

PAGAMENTI

Accoppiata pericolosa.  Smartphone e pagamenti fraudolenti

È uno degli errori più comuni e anche facili da commettere: digitare un Iban sbagliato, facendo sì quindi che il denaro sia trasferito sul conto corrente di una persona diversa da quella alla quale si voleva inviare il denaro.

Quando capita di sbagliare il complicatissimo Iban di un bonifico spesso ci si trova a dover fare tentativi per recuperare la somma finita sul conto del destinatario sbagliato talvolta non riuscendoci.

Le cose dovrebbero cambiare dopo la recente ordinanza numero 17.415 di giugno 2024 della I Sezione della Corte di Cassazione che si è pronunciata in tema di responsabilità di una banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, per bonifici effettuati ad un errato beneficiario.

«Elemento di rilievo nella decisione è rappresentato dal fatto che la Corte ha precisato che la banca non solo deve adottare tutte le cautele necessarie al fine di eliminare il rischio di un’erronea individuazione del beneficiario – spiega l’avvocato Massimiliano Elia, partner dello studio Pavia e Ansaldo – ma deve anche prestare assistenza al vero beneficiario del bonifico individuando a chi è andato in concreto il pagamento eseguito con Iban non corretto. Infatti, anche se non rientra tra gli obblighi dell’istituto di credito verificare l’esattezza delle informazioni fornite dall’utente, grava comunque sulla banca la responsabilità da cosiddetto “contatto sociale qualificato”, nei confronti del beneficiario del bonifico rimasto insoddisfatto per l’errata indicazione dell’Iban».

Secondo la Corte, infatti, la disciplina specifica sui servizi di pagamento, per quanto riguarda la responsabilità dell’intermediario ai sensi degli articoli 24 e 25 del Dlgs n. 11/2010, attribuisce all’Iban la centrale funzione di filtro per determinare i casi in cui la responsabilità della mancata o inesatta esecuzione è attribuibile all’utente e quelli in cui si può procedere per accertare quale degli intermediari coinvolti nel procedimento abbia causato il malfunzionamento dell’operazione e come tale responsabile.

«Pertanto, qualora la banca abbia dato seguito all’operazione di pagamento in favore di un beneficiario erroneo, pur consapevole dell’incongruenza delle informazioni, potrà essere ritenuta responsabile nei confronti dell’utente del servizio non avendo assolto l’obbligo di conformare la propria condotta ai principi di buona fede e diligenza nell’esecuzione del contratto».

Fino a prima di questa sentenza in caso di inserimento di un Iban sbagliato, il denaro veniva trasferito sul conto indicato erroneamente.

Era tuttavia possibile che il sistema di internet banking, mediante un controllo automatico dei dati, si accorgessero della non corrispondenza tra l’Iban e il nome del beneficiario del bonifico.

In questi casi, la banca già procedeva al blocco del bonifico e allo storno dell’importo pagato.

Nel caso in cui però il sistema bancario non avesse ravvisato l’errore, era necessario un intervento in prima persona (che doveva essere anche tempestivo) da parte del correntista, il quale doveva procedere il più rapidamente possibile alla revoca del bonifico eseguito erroneamente. Infatti, sono previsti dei limiti temporali entro cui è possibile revocare un bonifico, che di solito sono inferiori rispetto al tempo medio necessario per l’accredito delle somme (ovvero 1-3 giorni lavorativi).

Quindi oggi, chi si accorge di aver effettuato un bonifico nei confronti di un beneficiario diverso da quello a cui si voleva inviare il denaro, deve immediatamente, o comunque nel più breve tempo possibile, procedere alla revoca del bonifico per impedire che lo stesso si perfezioni.

Ora il sistema bancario si dovrà attrezzare per supportare la clientela.

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Fisco, addio al redditometro Analisi di rischio su chi evade

9 Settembre 2024

Il Sole 24 Ore 7 Agosto 2024 di Marco Mobili e Giovanni Parente

Lotta al sommerso. Con il decreto correttivo del concordato cambiano i controlli in base alle spese Accertamento con doppia soglia: il 20% sul dichiarato e almeno 70mila euro di scostamento

Controlli più mirati anche grazie all’analisi di rischio per concentrarsi sui grandi evasori o a chi non dichiara nulla al Fisco. La pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di lunedì 5 agosto del decreto correttivo sul concordato preventivo (Dlgs 108/2024) manda definitivamente in archivio la stagione del redditometro. L’obiettivo delle forze di maggioranza su cui il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha trovato una quadratura tecnica, che ha poi portato alla firma del Capo dello Stato sul provvedimento, era quello di arrivare a uno strumento in grado non più di colpire a tappeto ma di andare a puntare sui grandi scostamenti. Arriva, infatti, una doppia soglia di cui il Fisco dovrà tener conto prima di procedere con l’accertamento: da un lato viene confermato che lo scostamento tra reddito ricostruito attraverso le spese sostenute e reddito effettivamente dichiarato deve essere almeno il 20%, dall’altro c’è un’ulteriore limitazione che lo scarto deve essere superiore almeno a dieci volte all’assegno sociale annuo (attualmente pari 6.947,33 euro), ossia poco meno di 70mila euro.

Facciamo un esempio per chiarire. Con le vecchie regole in presenza di un reddito dichiarato di 10mila euro sarebbe bastato al Fisco ricostruire un reddito di 12.500 attraverso le spese del contribuente per muovere il primo passo verso la contestazione di un’evasione; ora invece l’allarme rosso scatterà solo in presenza di un reddito ricostruito di poco meno di 80mila euro.

È evidente l’intento di ridurre al massimo il numero dei cosiddetti «falsi positivi» e di indirizzare i controlli su casi in cui c’è effettivamente un’evasione elevata. Anche per questo saranno previsti comunque dei presidi per impedire di non colpire in maniera indiscriminata. Prima attraverso l’analisi del rischio, poi con la possibilità di giustificazione di eventuali altri redditi o quote di risparmio accumulato o la replica rispetto alle spese oggetto di contestazione.

L’analisi del rischio fa parte di una strategia avviata già con il primo decreto attuativo della delega fiscale) sul concordato preventivo e l’accertamento (il Dlgs 13/2024). Lo sforzo è quello di arrivare a utilizzare le nuove tecnologie (compresa l’intelligenza artificiale) e le banche dati di cui dispone l’amministrazione finanziaria in un’ottica non solo deterministica, incrociando le informazioni disponibili e verificando le eventuali “mancanze” del contribuente, ma anche in termini probabilistici, ossia cercando di individuare fenomeni di evasione in cui calare poi i controlli. In questa direzione è già a lavoro una task force composta da agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza, che stanno iniziando a ragionare attraverso l’Upar (Unità per l’analisi del rischio) sulle soluzioni da mettere in campo che naturalmente dovranno essere rispondenti alle regole sulla privacy.

In ogni caso il nuovo evasometro prevede un ampio margine al contribuente (e ai suoi difensori) per giustificare gli scostamenti tra redditi dichiarati e spese sostenute finiti sotto la lente del fisco. Con la modifica contenuta nel decreto correttivo del concordato, vengono infatti uniformate le regole tra l’accertamento sintetico puro e quello che poi dovrebbe essere ricondotto agli elementi di capacità contributiva definiti con un decreto ministeriale (l’ultimo in ordine di tempo è stato congelato con l’atto di indirizzo firmato da Leo e dal direttore delle Finanze Spalletta in attesa della revisione complessiva delle regole per placare le polemiche politiche sorte nella campagna elettorale per le europee). In entrambi i casi, infatti, il contribuente potrà sempre dimostrare che il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile o da parte di soggetti diversi dal contribuente. Ma non solo perché ci sarà margine per spiegare che le spese attribuite hanno un diverso ammontare e che la quota di risparmio utilizzata per consumi e investimenti si è formata nel corso degli anni precedenti.

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Residenza delle società su direzione effettiva e gestione ordinaria

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 31 Luglio 2024 di Alessandro Germani

La circolare Assonime n. 15 del 30 luglio ripercorre le novità normative della legge delega che hanno modificato il concetto di residenza delle società e degli enti (articolo 2 del Dlgs 209/2023). Di fatto il nuovo comma 3 dell’articolo 73 del Tuir prevede, accanto alla sede legale (che resta invariata), la sede di direzione effettiva e la gestione ordinaria che servono a chiarire meglio i criteri di residenza delle società. I due criteri si ricollegano al place of effective management (Poem), che dal 2017 non costituisce più una tie breaker rule ma solo uno dei fattori che serve a definire la residenza delle società. Nella tradizione anglosassone esso coincide con la punta più alta del governo societario, rappresentata dal board of directors. Invece la tradizione dell’Europa continentale ha puntato di più sul concetto del day to day management (place of central management and control), ovvero laddove è collocato l’head office (Ceo, Cfo, prima linea di management). Per il Regno Unito vi è sempre stata la preminenza del board of directors, anche nei casi in cui poi l’head office governasse la società presso un altro paese differente dal Regno Unito. Con gli anni 2000 a seguito dello sviluppo tecnologico, delle molteplici residenze dei membri del board e della globalizzazione delle funzioni aziendali, è sempre stato più difficile utilizzare il Poem per la risoluzione dei conflitti di residenza. Con il Commentario Ocse del 2017 il Poem è stato sostituito da un approccio case by case per la risoluzione dei conflitti.

Storicamente l’Italia ha fatto riferimento al concetto della sede dell’amministrazione, che in chiave civilistica è la sede effettiva e che poi fiscalmente è stato inquadrato nella sede di direzione effettiva che faceva riferimento al Poem. Adesso il nuovo comma 3 dell’articolo 73 inquadra specificatamente:

la sede di direzione effettiva;

la gestione ordinaria.

Il primo concetto richiama di fatto i componenti del consiglio di amministrazione, compresi il presidente, il vicepresidente e il Ceo (highest ranking persons). Da tale livello restano esclusi i soci, anche di controllo, nonché sia le attività di monitoraggio e supervisione svolte dal board della controllante sia la direzione e coordinamento. Non sono queste ad integrare la residenza della società. Il secondo concetto è quello proprio del day to day management ovvero della gestione intermedia. Questi due criteri finiscono per sorreggersi e completarsi a vicenda.

Viene abbandonato il criterio dell’oggetto principale come criterio di collegamento con il territorio dello Stato in aderenza alla disciplina societaria (articolo 2505 del Codice civile). Ciò in quanto tale criterio ha dato origine a notevoli incertezze interpretative e, in ogni caso, rivive soprattutto nella “gestione ordinaria in via principale”. In tal modo si evita che una holding estera, per il solo fatto di avere partecipazioni in Italia, ricondotte all’oggetto principale, sia considerata residente in Italia.

L’Associazione poi riconduce la tematica dell’esterovestizione, intesa come residenza fittizia in paesi che potrebbero consentire una tassazione conveniente (rispetto a quella nazionale) con il regime Cfc, laddove in base alla giurisprudenza unionale si ravvisi una costruzione di mero artificio. Da qui derivano una serie di sentenze, quali la Cassazione penale n. 43809 del 2015 relativa ad una controllata estera IP company titolare di marchi famosi e la n. 23225 del 2022 relativa ad una società operativa cinese low risk. Le novità introdotte nell’articolo 73 del Tuir dovrebbero aiutare a concludere che la sede di direzione effettiva di una controllata estera, parte di un gruppo, non possa identificarsi sic et simpliciter con la sede della controllante da cui provengono gli impulsi volitivi o l’esercizio di attività di direzione e coordinamento. A meno che (Cassazione 1544 del 2023) l’attività di direzione e coordinamento abbia usurpato l’impulso imprenditoriale divenendo un vero e proprio amministratore indiretto della controllata.

Come tema de iure condendo si propone di ripensare al fatto se per le società, ai fini della fissazione della residenza nel territorio dello Stato, i criteri di collegamento soggettivo all’imposizione devono risultare integrati «per la maggior parte del periodo di imposta», al pari di quanto avviene per le persone fisiche.

Viene ribadito come la riforma abbia inteso uniformare i criteri di individuazione della residenza delle società noti a livello internazionale e utilizzati negli altri ordinamenti, andando così ad operare una sorta di reset.

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Perdite, la deducibilità scatta per elementi certi e precisi

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 15 luglio 2024 di Cristina Odorizzi

Il quadro RS del modello Redditi SC chiede di indicare al rigo RS65 le perdite di esercizio: a colonna 1 le perdite rilevate a bilancio e a colonna 2 le perdite fiscali ex articolo 101, comma 5, del Tuir. Queste perdite comprendono anche le perdite imputate in esercizi precedenti la cui deducibilità è stata rinviata per assenza dei presupposti fiscali.

Perdite deducibili

In base all’articolo 101, comma 5, del Tuir, le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi. Si prevedono poi alcune situazioni in cui gli elementi certi e precisi sussistono ex lege e in particolare:

quando il debitore è interessato da procedure concorsuali o da una ristrutturazione dei debiti o da un piano attestato;

quando il credito è di modesta entità ed è decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento. Sussiste la modesta entità se l’importo è fino a 5.000 euro per le imprese più rilevanti, e fino a 2.500 euro per le altre;

quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto.

In tutti le altre ipotesi, il generico riferimento agli elementi certi e precisi implica la necessità di una valutazione caso per caso. La circolare 26/E/2013 ha chiarito che possono considerarsi come sufficienti elementi di prova tutti i documenti attestanti l’esito negativo di azioni esecutive attivate dal creditore (ad esempio, il verbale di pignoramento negativo), sempre che l’infruttuosità delle stesse risulti anche sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e definitiva.

La circolare 26/E cita come altro utile elemento di prova, a corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, la documentazione idonea a dimostrare che il debitore si trovi nell’impossibilità di adempiere per un’oggettiva situazione di illiquidità finanziaria e incapienza patrimoniale e che, pertanto, è sconsigliata l’instaurazione di procedure esecutive.

Individuazione dei mini-crediti

I “mini-crediti” sono una fattispecie in cui, ex lege, ricorrono gli elementi certi e precisi per la deducibilità delle perdite. Per quanto riguarda le modalità di calcolo, l’importo del credito si individua considerando il relativo valore nominale, comprensivo di Iva e con esclusione di interessi di mora e oneri accessori addebitati per inadempimento, al netto di eventuali incassi parziali e prescindendo da eventuali svalutazioni effettuate in sede contabile e fiscale (circolare 26/E/2013).

Molto importante, poi, è ricordare che il limite quantitativo va verificato in relazione al singolo credito, se rappresentativo della singola obbligazione in essere; quindi, non è rilevante che, in relazione al medesimo debitore, sussistano più posizioni creditorie. Nel caso in cui, invece, le partite creditorie si riferiscano al medesimo rapporto contrattuale, la modesta entità va valutata sul saldo complessivo dei crediti, riconducibili al medesimo rapporto. Sempre la circolare 26/E/2013 ha chiarito che in presenza di crediti scaduti da almeno sei mesi e di crediti non scaduti, si assumono solo i crediti scaduti.

I crediti prescritti

Un’ulteriore ipotesi di sussistenza ex lege degli elementi di certezza e precisione è quella della prescrizione del diritto di credito. È una casistica di non semplice applicazione, posto che ai fini della prescrizione è necessaria l’assenza di attivi interruttivi da parte del creditore. Sul punto la circolare 26/E/13 ha dimostrato una certa rigidità, affermando che «resta salvo il potere dell’Amministrazione di contestare che l’inattività del creditore abbia corrisposto ad una effettiva volontà liberale».

Tuttavia, con la pubblicazione del principio di diritto n. 16 del 29 dicembre 2021, l’agenzia delle Entrate ha precisato che la prescrizione del credito costituisce sempre «elemento certo e preciso a cui collegare la deduzione della relativa perdita e la rilevazione del periodo d’imposta in cui operarla».

Svalutazione dei crediti, deduzione circoscritta

La deduzione delle perdite e degli accantonamenti inerenti ai crediti commerciali richiede la corretta gestione e compilazione del modello Redditi SC 2024 (anno d’imposta 2023).

Va innanzitutto distinto il concetto di perdita su crediti da quello di svalutazione: si ha perdita del credito quando esso è divenuto definitivamente inesigibile, mentre si ha svalutazione quando il credito è solo temporaneamente non realizzabile (Cassazione, ordinanza 10686/2018).

Le perdite su crediti trovano disciplina fiscale nell’articolo 101, comma 5, del Tuir, che delinea le condizioni in base a cui una perdita su crediti diviene deducibile. Il tema delle svalutazioni crediti è regolato invece dall’articolo 106, commi 1 e 2, del Tuir.

La svalutazione dei crediti

Ai fini civilistici il principio Oic 15, al paragrafo 59, dispone che la svalutazione del credito deve essere operata «nell’esercizio in cui si ritiene probabile che il credito abbia perso valore». Il valore del credito va rettificato per tenere conto della perdita di valore stimata, mediante un apposito fondo di svalutazione. Dunque, i crediti sono rappresentati in bilancio al netto del fondo svalutazione crediti. Fondo che «è utilizzato negli esercizi successivi a copertura di perdite realizzate sui crediti» (Oic 15, paragrafo 65).

Ai fini fiscali la deducibilità della svalutazione crediti è legata a parametri quantitativi e quindi a prescindere dalla presenza di crediti effettivamente di dubbia esigibilità. L’articolo 106, comma 1, del Tuir consente la deducibilità della svalutazione dei crediti non assicurati nel limite dello 0,50% annuo del valore nominale dei crediti; fino però a un totale massimo del 5% del valore nominale dei crediti. L’eventuale superamento del limite del 5% (ad esempio per drastica riduzione dell’importo dei crediti a bilancio) impone la tassazione immediata dell’intero importo eccedente. In pratica, la norma fiscale consente la deducibilità della svalutazione in modo massivo senza alcuna indagine sulle caratteristiche dei crediti, ma ponendo uno sbarramento massimo rispetto all’importo della svalutazione.

Per quanto attiene ai crediti assicurati da escludere dalla base di calcolo dello 0,5%, la risposta a interpello 340/2023 ha chiarito che tale importo si determina con riferimento ai «massimali» delle polizze assicurative. Pertanto, devono ritenersi esclusi dal plafond di calcolo delle svalutazioni deducibili ai fini Ires i crediti commerciali coperti dai massimali di polizza, senza tener conto delle relative franchigie, che concorreranno a determinare le perdite su crediti nei periodi d’imposta in cui saranno soddisfatti i requisiti ex articolo 101, comma 5, del Tuir.

La compilazione del Redditi SC

La svalutazione dei crediti commerciali richiede la compilazione in primo luogo del quadro RS destinato ai crediti, sezione II, righi da RS64 a RS69 (per soggetti diversi da enti creditizi e finanziari), dedicato al coordinamento tra dati di bilancio e dichiarazione dei redditi. Il rigo RS64 va compilato inserendo il valore complessivo delle svalutazioni risultanti a fine 2022, distinguendo importo di bilancio (colonna 1) e importo fiscale (colonna 2). Nel rigo RS65 vanno indicate le perdite dell’esercizio: a colonna 1 le perdite da bilancio e a colonna 2 le perdite fiscalmente deducibili. Il rigo RS66 (solo ai fini fiscali) determina la differenza fra questi due importi, quale accantonamento residuo.

Nel rigo RS67 vanno inserite le svalutazioni dell’esercizio, nell’importo da bilancio e fiscale, conducendo quindi all’importo complessivo delle svalutazioni a fine 2023 (RS68), da rapportare al valore dei crediti a bilancio esposti ai fini fiscali al lordo del fondo svalutazione crediti (RS69, colonna 2).

Se in esito ai dati del quadro RS l’accantonamento operato nell’esercizio risultasse superiore allo 0,5% del valore di bilancio dei crediti, si determinerebbe una svalutazione in tutto o in parte fiscalmente deducibile da esporre a rigo RF31 (altre variazioni in aumento) utilizzando il codice 41 (eccedenza delle svalutazioni su crediti rispetto all’importo fiscalmente deducibile). Stesso meccanismo opera in caso di superamento della soglia assoluta del 5% per eccesso di accantonamenti complessivamente operati (si veda l’esempio a lato).

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Spa detenuta da una holding: chi è il «titolare effettivo»

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 8 Luglio 2024 di Luigi Ferrajoli e Francesco Ferrajoli

Diritto societario

Una holding detiene il 100% del capitale sociale di una società per azioni (Spa). Soci della holding sono cinque persone fisiche, legate tra loro da vincoli familiari. Tre soci hanno, ciascuno, una quota pari al 26,5 per cento, il quarto socio ha il 4,65% e il quinto ha il 15,85 per cento.

Alla luce delle faq (risposte a domande frequenti) del ministero dell’Economia e finanze (Mef) di novembre 2023, come si individua il titolare effettivo della società per azioni? È corretto identificarlo nel rappresentante legale della Spa?

Nel caso in cui una società di capitali sia partecipata da un’altra società di capitali e quest’ultima possegga una percentuale di partecipazione superiore al 25 per cento, ai fini dell’individuazione del titolare effettivo della società partecipata, è necessario applicare l’articolo 20, comma 2, lettera b, del Dlgs 231/2007, secondo cui «costituisce indicazione di proprietà indiretta la titolarità di una percentuale di partecipazioni superiore al 25 per cento del capitale del cliente, posseduto per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona». In tali circostanze è, pertanto, essenziale individuare la persona fisica indirettamente proprietaria della partecipazione rilevante, risalendo nella catena partecipativa attraverso il criterio del “controllo”.

Qualora la società socia non sia una società fiduciaria, il titolare effettivo va, quindi, identificato nella persona fisica (o nelle persone fisiche) che “controlla” (o che “controllano”) la società socia.

La nozione di “controllo” ha nel tempo posto problemi interpretativi, risolti dal Mef, il quale, nelle proprie faq, ha chiarito che, «per l’ipotesi di proprietà indiretta, per il tramite di società controllate, la soglia del 25% +1 va considerata esclusivamente in relazione al capitale della società cliente, al quale si fa espressamente riferimento, risalendo poi la catena partecipativa per individuare la persona fisica o le persone fisiche che esercitano il controllo ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del Codice civile».

Pertanto, l’identificazione del titolare effettivo va realizzata partendo dall’individuazione delle società titolari di una partecipazione superiore al 25% nel capitale della società partecipata, e qualificando come titolari effettivi tutte le persone fisiche che le controllano.Nel caso prospettato, va rilevato che, essendovi una holding che detiene il 100% delle partecipazioni della Spa, i titolari effettivi di quest’ultima saranno dunque tutte le persone fisiche che controllano la holding.

In tal senso, sembra quindi possibile escludere dal processo di individuazione i soci di minoranza della holding (il quarto e il quinto socio), mentre, in presenza di tre soci di maggioranza della holding con identiche percentuali di partecipazione, appare ragionevole affermare che tutti loro vadano individuati quali titolari effettivi della Spa.

 

La faq del ministero dell’Economia e finanze n. 8 di novembre 2023, secondo cui, in applicazione del criterio residuale di cui all’articolo 20, comma 5, del Dlgs 231/2007, «il titolare effettivo va individuato nella figura del soggetto titolare di poteri di rappresentanza legale, amministrazione o direzione quali, esemplificativamente, il rappresentante legale, gli amministratori esecutivi o i direttori generali della società o del cliente comunque diverso dalla persona fisica», non sembra utile a fornire compiuta risposta al caso di specie, poiché non sussiste, stando a quanto argomentato, l’impossibilità di procedere alla individuazione univoca del titolare effettivo della società holding posta al vertice della catena partecipativa in questione.

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