Antiriciclaggio Usa: sospeso il registro dei titolari effettivi

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 8 Aprile 2025 di Antonio Martino Ernesto Carile

Deregulation. Dopo un solo anno dall’entrata in vigore, il Corporate transparency act non si applicherà più alle società statunitensi

Una marcia indietro che cambia lo scenario della trasparenza societaria negli Stati Uniti. Il 21 marzo scorso il Financial Crimes enforcement network (FinCEN) ha annunciato la rimozione dell’obbligo, introdotto poco più di un anno fa, di comunicare al registro centrale i dati sui beneficiari effettivi delle società statunitensi. La misura, che sospende di fatto l’applicazione del Corporate transparency act per i soggetti americani, è coerente con la nuova linea politica dell’amministrazione Trump, ispirata a una profonda revisione del sistema antiriciclaggio.

«Troppa burocrazia per le Pmi»

Il dipartimento del Tesoro, con un comunicato firmato dal segretario Scott Bessent, ha motivato la decisione come un intervento a tutela delle piccole e medie imprese, ritenute eccessivamente gravate da obblighi formali. Ma la lettura più ampia collega la scelta direttamente al Project 2025: The conservative promise, il manifesto programmatico elaborato dalla Heritage foundation, uno dei think tank conservatori più influenti di Washington.

Nel documento – che supera le 900 pagine e ha ispirato molte delle prime misure del nuovo esecutivo – viene delineata una riforma radicale delle istituzioni federali e una strategia di deregulation estesa, con particolare enfasi sulla revisione del sistema antiriciclaggio. In tale ottica, l’abolizione degli obblighi di trasparenza per i beneficiari effettivi rappresenta un passaggio chiave.

Gli Usa «sistema non conforme»

L’istituzione del registro centrale dei titolari effettivi era stata introdotta nel 2024 in risposta alle pressioni del Financial action task force (Fatf), che già nel 2016 aveva criticato duramente il sistema statunitense, giudicato «non conforme» rispetto agli standard internazionali in materia di trasparenza societaria. Il Cta (Corporate transparency act) aveva colmato una storica lacuna del sistema americano, imponendo per la prima volta obblighi stringenti di comunicazione alle società domestiche ed estere.

Ma la nuova norma in consultazione da parte del FinCEN prevede che solo le entità estere registrate per operare negli Usa siano soggette all’obbligo di comunicazione dei titolari effettivi. Le società costituite negli Stati Uniti – e i loro beneficiari, anche se cittadini stranieri – ne sarebbero esentate. Un ritorno, in sostanza, all’opacità del passato.

Se da un lato il provvedimento è presentato come un gesto a favore della competitività e della semplificazione per le imprese americane, dall’altro rischia di compromettere l’efficacia del sistema di prevenzione dei reati finanziari, proprio nel momento in cui a livello globale si rafforza l’azione per contrastare i flussi illeciti e le strutture societarie schermate.

Il Project 2025 di Heritage foundation

Il messaggio che arriva da Washington è chiaro: meno vincoli, più autonomia. E il Project 2025, pubblicato dalla Heritage foundation in vista delle elezioni presidenziali e già riferimento politico della nuova amministrazione, contiene indicazioni molto esplicite sulla necessità di “riformare” – ovvero ridurre – le funzioni del FinCEN e l’impianto normativo dell’Aml statunitense. Proprio nel paragrafo dedicato al Tesoro si auspica la rimozione degli obblighi di trasparenza e una profonda revisione dei poteri dell’autorità di contrasto ai flussi illeciti.

La decisione statunitense è destinata a creare frizioni anche con l’Unione europea, che con la nuova direttiva Aml sta rafforzando l’architettura antiriciclaggio continentale, prevedendo un registro centralizzato europeo e obblighi stringenti per le imprese. Il rischio è quello di un disallineamento normativo tra i due blocchi, con ricadute sui meccanismi di cooperazione e sulle procedure di due diligence per gli operatori transatlantici.

In attesa dell’entrata in vigore della norma definitiva, prevista entro fine anno, appare chiaro che gli Stati Uniti si stanno allontanando da un sistema multilaterale di lotta al crimine economico.

Una scelta che, pur nel nome della semplificazione, potrebbe riaprire spazi a opacità e arbitraggi regolatori, in un contesto globale che richiederebbe, al contrario, più coordinamento e trasparenza.

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Assegni per conto altrui, paga chi firma se manca l’indicazione della delega

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 28 Aprile 2025 di Antonino Porracciolo

Il delegato alla firma di un assegno bancario risponde in proprio se al momento della sottoscrizione non aggiunge la dicitura «nella qualità», e dunque non può liberarsi dall’obbligazione cartolare prospettando di aver agito in forza di una delega che gli aveva conferito il potere di emettere il titolo.

Lo afferma la Corte di cassazione nella sentenza 8426/2025 pubblicata lo scorso 31 marzo.

La vicenda giudiziaria prende le mosse dall’opposizione a un precetto del maggio 2002, con il quale il prenditore di diversi assegni bancari aveva intimato il pagamento dei relativi importi sia alla società titolare del conto corrente, sia alla persona che aveva sottoscritto quei titoli. L’opposizione era stata proposta dal sottoscrittore, che aveva affermato che la pretesa creditoria avrebbe potuto essere avanzata solo nei confronti della società titolare del conto corrente, risultato peraltro incapiente, ma non poteva essere diretto nei suoi confronti perché semplice delegato della società.

Il Tribunale aveva accolto l’opposizione, ma la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione, ritenendo che la mancanza del timbro della società o comunque dell’inciso «quale delegato» (o «nella qualità» o similari) comportasse l’obbligo di pagamento della persona fisica firmataria degli assegni.

Gli eredi del traente hanno quindi proposto ricorso per cassazione, sostenendo che era incorso in errore il giudice di secondo grado nel ritenere che l’articolo 14 della legge assegni (regio decreto 1736/1933) imponesse al loro dante causa, per andare esente da responsabilità, di specificare di agire in forza di delega. Inoltre, hanno dedotto che lo stesso articolo 14 non richiede che la spendita del nome avvenga mediante una formale dichiarazione di agire in nome e per conto di un terzo, e comunque che la delega all’emissione di assegni in nome altrui non presuppone l’esistenza di un atto scritto o di una procura a favore del delegato.

Nel respingere il ricorso, il giudice di legittimità ricorda che l’essenza dei titoli astratti, qual è l’assegno bancario, sta nel fatto che essi non recano alcuna menzione della causa che ha dato luogo alla loro emissione; aggiunge che il diritto incorporato nel titolo di credito si trasferisce secondo le regole sulla circolazione dei beni mobili, sicché la proprietà del titolo si può acquistare anche a titolo originario in forza del possesso di buona fede, secondo la regola generale dell’articolo 1153 del Codice civile.

Da ciò discendono due (tra loro connesse) conseguenze in tema di assegni bancari tratti da conto corrente intestato a società e risultato sprovvisto di fondi.

La prima: il prenditore ha facoltà di agire esecutivamente in danno del traente che abbia apposto in calce agli assegni la sua personale sottoscrizione, a meno che dal titolo risulti che il firmatario abbia «espressamente e univocamente dichiarato di agire in nome e per conto della società correntista».

La seconda: il sottoscrittore dell’assegno che non abbia agito in nome e per conto del correntista spendendo esplicitamente il nome di quest’ultimo «è cartolarmente obbligato e non può liberarsi né allegando i rapporti causali sottostanti, né prospettando di aver agito in forza di una delega che gli aveva conferito il potere di emettere il titolo nell’interesse del terzo».

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Fisco. Italia appetibile per i ricchi e per l’arte

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 5 Aprile 2025 di Marilena Pirrelli

La flat tax attrae i miliardari stranieri, sono collezionisti che amano il bello

Perché ora l’Italia dovrebbe modificare il suo sistema normativo e fiscale legato all’arte? Perché si è a un momento di non ritorno? Il BelPaese e, in particolare, Milano è diventata una destinazione privilegiata per i migranti di lusso grazie alla flat tax sul reddito introdotta nel 2017, che prevede una tassa forfettaria annuale sui redditi esteri per i nuovi residenti, all’inizio fissata a 100mila euro e nel 2024 raddoppiata a 200mila.

Briciole per i ricchi miliardari stranieri in fuga da Londra dopo l’abolizione del regime fiscale dei «non-domiciliati», che permetteva di non pagare tasse britanniche sui redditi esteri. Il governo laburista ha poi posto termine anche all’uso di trust off hore per evitare di pagare la tassa britannica sulle successioni, pari al 40%. Insomma per i miliardari stranieri è la fine del paradiso fiscale britannico.

È aperta la caccia a paesi fiscalmente vantaggiosi. Il magnate indiano dell’acciaio Lakshmi Mittal, potrebbe trasferirsi in Italia, in competizione con destinazioni come Emirati Arabi Uniti e Svizzera. Il nostro Paese si stima abbia già attratto 4.500 Hnwi: è sotto gli occhi di tutti la domanda di immobili di lusso e l’impatto sui prezzi, con effetto domino sino alla periferia a Milano. Questi ricchi signori spessissimo amano l’arte e ne collezionano e sarebbero disposti a trasferire in Italia le loro collezioni. Anche il grande collezionista Bernard Arnault, presidente e ceo di Lvmh, ha acquisito la storica Casa degli Atellani a Milano in Corso Magenta e potrebbe, secondo i ben informati, trasferire qui residenza e domicilio fiscale. Anche la sua collezione? Chissà.

Non a caso diverse gallerie straniere hanno fiutato l’aria e stanno aprendo a Milano, dov’è in corso Miart con l’Iva sulle transazioni al 22% e al 10% sull’import. E se da queste pagine abbiamo sempre sostenuto che l’Iva ridotta sull’arte è una richiesta sacrosanta perché l’arte è un prodotto culturale (i libri hanno l’Iva al 4%), è bene anche non nascondere le evidenze: la flat tax, la nuova politica britannica e l’esercizio della Delega di rimodulazione dell’Iva (dall’ordinaria alla ridotta) che scade ad agosto. Ecco la necessità di rendere subito la circolazione dell’arte più libera in Italia – ne entrerebbe tanta – e di ridurre l’Iva sugli scambi (si chiede il 5%) per essere più competitivi in Europa – la Francia l’ha ridotta al 5,5% e la Germania al 7% – promuovendo valore e volumi delle transazioni e di riflesso del gettito. Il Ministro della Cultura Alessandro Giuli ha dichiarato la scorsa settimana che la riforma si farà, ci sono le copertura e la convergenza con il Mef. La maggioranza al suo interno pare compatta. Si sta cercando il veicolo dove inserire la riforma, sperando sia ampia. Gli operatori del mercato dell’arte sono fiduciosi. Se il governo ha deciso di rendere l’Italia appetibile fiscalmente ai ricchi perché non renderla tale anche per l’arte. Coerenza lo richiederebbe, questo sì che porterebbe lavoro e risorse al sistema dell’arte, artisti e musei compresi.

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Prestazione di servizi, il pagamento determina il termine per versare l’Iva

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 25 Aprile 2025 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce

Nelle prestazioni di servizi, il pagamento del corrispettivo non identifica il fatto generatore dell’Iva, che si è già verificato al momento dell’esecuzione, ma determina l’esigibilità dell’imposta, ovvero il termine ultimo entro il quale l’Iva va pagata all’erario e occorre fatturare. Se l’Amministrazione finanziaria contesta al prestatore l’omessa fatturazione dei servizi in questione deve anche provare che il pagamento, pure per equivalente, è avvenuto oppure che il contribuente ha l’intenzione di evadere l’imposta.

Con la sentenza n. 10693 di ieri la Cassazione pone un ulteriore tassello all’interpretazione dell’articolo 6, comma 3, del decreto Iva sulla dicotomia fatto generatore-esigibilità dell’imposta in riferimento ai servizi. La norma secondo cui «le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo» aveva posto un problema di compatibilità con la disciplina unionale che, identificando il fatto generatore dell’imposta con l’esecuzione della prestazione, consente agli Stati membri di stabilire che l’imposta diventi esigibile con l’incasso del corrispettivo. L’interpretazione della giurisprudenza unionale e interna ha fatto salva la norma interna, intendendo la stessa con esclusivo riferimento all’esigibilità dell’imposta, in quanto ove la norma si riferisse al fatto generatore dovrebbe considerarsi incompatibile con il diritto UE (Corte UE, sentenza C-144/94 e Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 8059/16).

In altre parole, sul piano Iva esistono due momenti: i) il fatto generatore dell’imposta (che determina l’imponibilità dell’operazione che è indice di capacità contributiva) da cui scaturisce l’obbligazione tributaria e gli altri obblighi, compreso quello di fatturazione, a essa collegati; ii) l’esigibilità, da intendersi come momento ultimo in cui l’erario ha diritto a riscuotere l’imposta (estremo limite temporale per l’adempimento). Se, in teoria, questi due momenti dovrebbero coincidere, nella pratica, in riferimento alle prestazioni di servizi, il fatto generatore dell’imposta sorge con l’esecuzione della prestazione anche se il versamento dell’imposta, nonché la fatturazione, è possibile fino al pagamento del corrispettivo.

Ma quali effetti sull’obbligo di versamento dell’Iva può avere il mancato pagamento? In questo caso – ed è forse questo il punto che richiede maggiore attenzione della sentenza – se il Fisco non dà prova, anche solo sulla base di elementi presuntivi, che il pagamento in realtà è stato compiuto, anche per equivalente, oppure che esiste un intento del contribuente di sottrarsi all’adempimento dell’obbligo di fatturare e di assolvere l’Iva, non può contestarsi l’omessa fatturazione. Il fatto che dalla contabilità emergano prestazioni di servizi, dapprima in un conto «fatture da emettere» e poi in un conto relativo a crediti da riscuotere, non è un elemento sufficiente per riscuotere l’Iva non versata mancando l’incasso del corrispettivo.

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Se l’assemblea della Srl si è svolta senza convocazione

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 26 Aprile 2025 di Cristina Odorizzi

Sono amministratore unico di una Srl. Vorrei sapere se l’assemblea riunitasi lo scorso anno alla presenza di tutti i soci, rappresentanti l’intero capitale sociale, che ha deliberato l’approvazione del bilancio con la maggioranza dei presenti, possa essere considerata regolarmente costituita anche in mancanza dell’invio della comunicazione con raccomandata con avviso di ricevimento, come è previsto dallo statuto.

L’assemblea è valida anche in assenza di convocazione se ha le caratteristiche per essere considerata totalitaria. In particolare, per quanto attiene alle Srl, l’articolo 2479-bis del Codice civile prevede che «in ogni caso la deliberazione s’intende adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento».
Pertanto, l’assemblea tenutasi lo scorso anno in assenza di convocazione, ma con la presenza dell’intero capitale sociale e dell’organo amministrativo al completo, è validamente tenuta, ex articolo 2479-bis, del Codice civile.

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Imposte all’estero, sì alla detrazione anche se il credito è stato omesso

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 28 Aprile 2025 di Davide Settembre

Il contribuente ha diritto a detrarre l’imposta pagata all’estero anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni. Lo hanno affermato i giudici della Corte di giustizia tributaria del Lazio con la sentenza n. 7484/13/2024 (presidente e relatore Passero), allineandosi ai principi recentemente espressi dalla Corte di Cassazione.

La vicenda

Nel caso esaminato dai giudici laziali, una società chiedeva il rimborso delle imposte versate sui proventi percepiti all’estero in base alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Grecia.

Formatosi il silenzio-rifiuto, la società proponeva ricorso dinanzi la Ctp che lo accoglieva, ritenendo, tra l’altro, che il diritto alla detrazione doveva essere riconosciuto anche se il credito non era stato indicato dalla ricorrente nella dichiarazione dei redditi, come richiederebbe l’articolo 165 del Tuir.

L’appello dell’ufficio veniva accolto, ma la società ricorreva in Cassazione.

I giudici di legittimità accoglievano il ricorso e cassavano la sentenza con rinvio, sostenendo che i giudici di appello con una affermazione meramente apodittica si erano limitati a condividere astrattamente l’operato dell’ufficio. La società riassumeva così il giudizio in appello.

La decisione

I giudici di appello hanno accolto il ricorso in riassunzione, ricordando in primis che il diritto alla detrazione delle imposte assolte all’estero trova fondamento sia nell’articolo 165 del Tuir che nell’articolo 24 della Convenzione Italia-Grecia in base al quale, se il contribuente assoggetta a tassazione nel proprio paese gli elementi di reddito percepiti all’estero, deve dedurre dalle imposte così calcolate l’imposta sui redditi pagata in Grecia.

In particolare, i giudici hanno affermato che, sulla base dell’analisi delle clausole dei contratti sottoscritti in relazione ad alcuni progetti, la ricorrente si era impegnata a fornire il know-how necessario alla realizzazione delle opere e servizi previsti. Pertanto, i redditi percepiti dalla ricorrente dovevano essere inquadrati nella categoria delle royalty. Conseguentemente, tali redditi erano stati correttamente assoggettati alla ritenuta convenzionale del 5% dai committenti greci della società e ciò, in virtù del citato articolo 24, dà luogo al riconoscimento di un credito. Peraltro, la qualificazione dei redditi quali royalties era stata ritenuta corretta dallo stesso ufficio in sede di accertamento di adesione con riferimento all’annualità 2008.

Infine, i giudici hanno evidenziato che, sulla base della recente sentenza della Corte di cassazione n. 24160 del 2024, la detrazione delle imposte assolte all’estero deve essere riconosciuta anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia, come nel caso esaminato, una convenzione contro le doppie imposizioni. In sostanza gli accordi internazionali prevalgono sulle norme interne, salvo queste siano concretamente più favorevoli al contribuente.

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Credito per imposte estere solo con versamenti definitivi

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 29 Aprile 2025 di Emanuele Reich Franco Vernassa

Per i redditi prodotti all’estero da parte dei soggetti Ires e per la recuperabilità delle (eventuali) ritenute subite risulta necessario compilare il quadro CE di Redditi Sc 2025 o, in caso di consolidato fiscale, i quadri NE, NR ed NC del modello Cnm (articoli 165 e 118 del Tuir).

La corretta gestione delle imposte pagate all’estero sui redditi esteri si basa prima di tutto sull’individuazione della tipologia di reddito soggetto a ritenuta (interessi, royalties, dividendi, redditi d’impresa conseguiti tramite stabile organizzazione, management fees, fornitura servizi di ingegneria) e successivamente su una buona compliance procedurale dell’impresa, senza trascurare la contabilizzazione dei redditi esteri, delle ritenute recuperabili quali crediti, e delle ritenute non recuperabili quali costi.

Le tre condizioni

L’articolo 165 del Tuir, commentato ampiamente dalla circolare 9/E/2015 e da prassi recente (principi di diritto 15/2019 e 15/2021 e risposte a interpelli 118/2023, 120/2024, 13/2025, 101/2025 e 116/2025), definisce le tre condizioni necessarie per poter accedere al credito d’imposta per le imposte pagate all’estero, come segue (si veda la circolare 9/E/2015):

1 la produzione di un reddito in un Paese estero;

2 il concorso di quel reddito alla formazione del reddito complessivo del residente;

3 il pagamento di imposte estere a titolo definitivo.

Naturalmente, è necessario che le imposte pagate all’estero siano imposte sul reddito o ad esse assimilabili. Le imposte da indicare devono essere:

divenute definitive entro il termine di presentazione della dichiarazione, oppure, nel caso di opzione in virtù del comma 5 dell’articolo 165 del Tuir, entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo;

irripetibili, pertanto non vanno indicate, ad esempio, le imposte pagate in acconto o in via provvisoria e quelle per le quali è prevista la possibilità di rimborso totale o parziale

Nel caso in cui il reddito prodotto all’estero abbia concorso parzialmente alla formazione del reddito complessivo in Italia (ad esempio, dividendi imponibili per il 5%), in base al comma 10 dell’articolo 165 del Tuir, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente. Si deve ricordare che il principio della prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno è, di fatto, pacificamente riconosciuta nell’ordinamento italiano e, in ambito tributario, sancita dall’articolo 169 del Tuir e dall’articolo 75 del Dpr 600 del 1973, oltre ad essere stata affermata dalla giurisprudenza costituzionale.

Un suggerimento operativo consiste nel prevedere nel contratto tra il soggetto Ires ed il cliente estero uno specifico articolo che preveda l’assoggettamento dei pagamenti effettuati a ritenuta alla fonte da Trattato da parte della società estera-committente, con reciproci obblighi documentali.

La composizione

Il quadro CE, così come i quadri NE, NR ed NC del modello Cnm, è piuttosto complesso e quindi deve essere compilato con attenzione sulla base dell’apposita documentazione che dovrà essere conservata a disposizione dell’amministrazione finanziaria. Soffermiamoci sul quadro CE, che è diviso in tre sezioni:

1 la prima è riservata all’indicazione delle informazioni necessarie alla determinazione del credito d’imposta di cui al comma 1 dell’articolo 165 del Tuir e del credito d’imposta indiretto (articolo 86, comma 4-bis e articolo 89, comma 3, del Tuir)

2 la seconda è riservata all’indicazione delle informazioni necessarie per la determinazione delle eccedenze di imposta nazionale e delle eccedenze di imposta estere riportabili per 8 anni, di cui all’articolo 165, comma 6 del Tuir, e dell’eventuale credito spettante;

3 la terza è una sezione di riepilogo dei crediti determinati nelle precedenti sezioni. Ad esempio, l’importo del credito andrà poi riportato nel rigo RN13.

La determinazione del credito va effettuata con riferimento al reddito prodotto in ciascuno Stato estero e al singolo periodo di produzione.

La sezione I si divide in due parti: la sezione I-A individua il credito d’imposta «teoricamente» spettante, mentre la sezione I-B quello «effettivamente» spettante.

Individuate le imposte pagate all’estero a titolo definitivo, è necessario determinarne la parte recuperabile in Italia con il meccanismo previsto dal comma 1 dell’articolo 165 del Tuir secondo il quale esse sono ammesse in detrazione dall’imposta italiana dovuta, fino a concorrenza della quota d’imposta lorda italiana corrispondente al rapporto tra il reddito prodotto all’estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione nel limite dell’imposta netta italiana relativa al periodo di produzione del reddito estero.

Le eccedenze

La sezione II del quadro CE, che si divide in tre parti (A, B, C), individua le eccedenze d’imposta in base all’articolo 165, comma 6, del Tuir; tale norma dispone che l’imposta estera pagata a titolo definitivo nel Paese estero eccedente la quota di imposta italiana relativa al medesimo reddito estero, costituisce:

un credito d’imposta;

fino a concorrenza dell’eccedenza della quota d’imposta italiana rispetto a quella estera pagata a titolo definitivo in relazione allo stesso reddito estero, verificatasi negli esercizi precedenti fino all’ottavo (carry back).

Se non è possibile fruire del carry back, l’eccedenza dell’imposta estera può essere riportata a nuovo fino all’ottavo esercizio successivo, per essere utilizzata come credito di imposta nei casi previsti (carry forward). Il riporto in avanti dovrà essere monitorato nel tempo, previa eventuale contabilizzazione dell’imposte estera come credito, ove se ne preveda ragionevolmente l’utilizzo.

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Polizze catastrofali, l’obbligo non riguarda il magazzino

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore 4 Marzo 2025 di Alessandro Germani

Oggetto della copertura obbligatoria per le polizze catastrofali sono le immobilizzazioni materiali, esclusi gli altri beni, dell’attivo di stato patrimoniale, per cui dalla medesima resta fuori il magazzino. Ciò impone alcune considerazioni distinguendo le aziende industriali e quelle commerciali.

Con il Dm 3o gennaio 2025 n. 18 pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» lo scorso 27 febbraio sono state disciplinate le modalità attuative delle polizze catastrofali (contro sismi, alluvioni, frane, inondazioni e esondazioni) di cui le imprese dovranno dotarsi entro il prossimo 31 marzo. L’obbligo originariamente è stato introdotto dall’articolo 1 commi 101-111 della legge 213/2023, con scadenza per l’adeguamento fissata dapprima al 31 marzo 2024 e poi prorogata al 31 marzo 2025 dal decreto Milleproroghe (Dl 202/2024). La norma risponde all’esigenza di prevedere una copertura obbligatoria per le aziende a fronte di eventi che si manifestano con sempre maggiore frequenza e intensità ma con un onere assicurativo in capo a queste. D’altronde si diffonde una cultura assicurativa che è irrinunciabile in presenza di eventi calamitosi.

Profilo soggettivo

Vediamo quali sono le imprese obbligate alla copertura in questione. L’articolo 1 del Dm 18/25 definisce come assicurato l’impresa con sede legale in Italia e le imprese aventi sede legale all’estero con una stabile organizzazione in Italia, tenute all’iscrizione nel Registro delle imprese in base all’articolo 2188 del Codice civile, ad esclusione delle imprese agricole (articolo 2135 del Codice civile). L’obbligo pare quindi ampio, riguardando tanto le imprese italiane quanto le stabili organizzazioni in Italia di soggetti esteri, visto che il comun denominatore consiste nell’iscrizione al registro delle imprese che vale anche per le branch. A maggior ragione, l’iscrizione sembrerebbe ricomprendere non solo le società ma anche le imprese tenute in ogni caso a tale iscrizione.

Profilo oggettivo

Le definizioni richiamano le immobilizzazioni di cui all’articolo 2424, comma a, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3), del Codice civile. Viene specificato che si tratta di:

terreni;

fabbricati intesi come costruzioni e opere murarie, compresi gli impianti idrici, elettrici, di riscaldamento, di condizionamento, comunque pertinenziali all’edificio;

impianti e macchinari;

attrezzature industriali e commerciali.

Il richiamo al Codice civile e agli schemi di bilancio consente di fare riferimento al principio Oic 16 sulle immobilizzazioni materiali, che suddivide i fabbricati fra quelli strumentali (ad esempio silos, piazzali e recinzioni, autorimesse, officine, oleodotti, opere di urbanizzazione, fabbricati ad uso amministrativo, commerciale, uffici, negozi) e quelli non strumentali (ad esempio immobili abitativi, termali, sportivi, balneari, terapeutici, collegi, colonie, asili nido, scuole materne). Invece gli impianti e macchinari ricomprendono sia quelli generici (impianti di produzione, impianti di distribuzione energia, raccordi ferroviari, impianti di allarme) sia quelli specifici. La norma richiama poi anche le attrezzature ma non gli altri beni (mobili e arredi, automezzi, macchine ufficio). Accanto a questi ultimi, resta fuori anche l’altra categoria del magazzino, facente parte dell’attivo circolante.

Modalità di copertura

Sotto il profilo assicurativo, la norma primaria (comma 103) prevede che le compagnie possano assumere direttamente il rischio, oppure agire in coassicurazione o in forma consortile mediante una pluralità di imprese. È poi previsto un intervento di Sace a favore sia degli assicuratori sia dei riassicuratori.

Aspetti di mercato

È chiaro che l’obbligatorietà ha puntato sul comparto delle immobilizzazioni materiali, escludendo gli altri beni. Ma l’esclusione del magazzino comporta che la copertura obbligatoria per un’impresa industriale sia superiore rispetto a quella di un’impresa commerciale. In altre parole, l’evento calamitoso può colpire una linea industriale per cui sarà previsto il risarcimento, ma non avverrà lo stesso nel caso in cui l’evento colpisca il magazzino. Che costituisce l’asset principale di un’impresa commerciale. È evidente che vi saranno state motivazioni economiche a suggerire di non incrementare eccessivamente la misura della copertura obbligatoria come onere a carico delle imprese. Va da sé che le realtà commerciali potranno in ogni caso negoziare con l’assicuratore di estendere la copertura anche al magazzino, sebbene ciò possa comportare un incremento del costo della polizza, a fronte di una copertura ben maggiore.

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Si ricorda che è stata prevista la proroga dei termini di adempimento dell’obbligo di assicurazione dei rischi catastrofali, disposta dal Dl 39/2025,

  • le piccole imprese e le microimprese potranno farlo entro il 1° gennaio 2026 
  • quelle medie entro il 1° ottobre
  • grandi imprese il termine del 1° aprile rimane fermo, sia pure con un periodo di tolleranza durante il quale non saranno applicabili conseguenze sanzionatorie.

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Dividendi di fonte estera: sì al credito dopo prelievo preventivo e ritenuta

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Davide Greco e Giulia Sorci

Il credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir deve essere riconosciuto anche al

beneficiario persona fisica di un dividendo di fonte estera qualora questo sia stato

obbligato dalla propria normativa nazionale ad assoggettare il reddito in questione a

ritenuta a titolo di imposta del 26%, come richiesto dall’articolo 27, comma 4 del Dpr

600/1973.

Questa, in estrema sintesi, è la conclusione della Cgt Bergamo n. 68/1//2025 del 14

febbraio scorso (presidente e relatore Fischetti).

La vicenda aveva visto coinvolta una contribuente italiana, la quale lamentava il

mancato rimborso del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir in relazione a dividendi

da lei percepiti e doppiamente tassati: dapprima in Svizzera, con la cosiddetta imposta

preventiva sui dividendi e, successivamente in Italia con ritenuta a titolo d’imposta del

26% (articolo 27, comma 4 del Dpr 600/1973).

La sentenza in commento è rilevante poiché si inserisce all’interno del filone

giurisprudenziale “inaugurato” nel 2022 dalla Corte di cassazione (con la sentenza n.

25698/2022), confermato anche nel 2024 (si veda Cassazione civile n. 10204/2024),

secondo cui ai fini dell’ottenimento del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir non

costituirà più, a certe condizioni, causa ostativa l’aver assoggettato in Italia i dividendi di

fonte estera a ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento.

Il ragionamento seguito dai giudici di merito si pone, infatti, in linea con l’orientamento

dei giudici di legittimità e costituisce, da ciò che ci risulta, uno dei primi approdi della

giurisprudenza di merito sul tema (sembra difatti vi siano pochissime sentenze di merito

antecedenti, ovvero: sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siena

 

  1. 68/2024 e sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Milano n.

3184/2024).

Facendo leva sul dettato normativo contenuto nell’articolo 24, secondo paragrafo della

Convenzione tra Italia e Svizzera, la Corte bergamasca ha dichiarato la supremazia della

fonte sovranazionale rispetto a quella domestica sancendo, in definitiva, che «spetta il

credito per [le] imposte pagate all’estero alle persone fisiche tenute, senza facoltà di

scelta, al pagamento della ritenuta a titolo di imposta come nell’ipotesi di cui all’articolo

27, comma 4 del Dpr 600/1973».

Se, infatti, è vero che una delle condizioni richieste dall’articolo 165 del Tuir per

beneficiare del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero è che il reddito in

questione concorra «alla formazione del reddito complessivo» è anche vero che, a livello

convenzionale, l’articolo 24 della Convenzione tra Italia e Svizzera non riconosce il

beneficio nell’ipotesi in cui «l’elemento di reddito venga assoggettato in Italia ad

imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario del reddito

in base alla legislazione italiana».

Da tale disposizione pattizia se ne ricava, all’opposto che, qualora l’assoggettamento ad

imposizione mediante ritenuta a titolo d’imposta, o mediante imposta sostitutiva come

nella fattispecie di cui all’articolo 18, comma 1, del Tuir, avvenga non «su richiesta del

beneficiario del reddito» ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente richiedere

l’imposizione ordinaria, l’imposta pagata all’estero dovrebbe considerarsi, in linea

generale, detraibile.

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Insolvenza transfrontaliera, criteri Ue per società con sedi fuori dall’Unione

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Leonardo Curatolo e Marcello Tarabusi

Nelle insolvenze transfrontaliere che riguardano società con sedi in Italia e in altri Paesi

extra Ue, l’individuazione del luogo dove aprire la procedura e il rapporto fra le

procedure avviate in Paesi diversi ha importanti ricadute sulla gestione dei beni

aziendali.

Nell’ambito dell’Unione europea la materia è disciplinata dal regolamento Ue 848/2015

ma se i Paesi interessati sono extra Ue si pone il problema di quali norme applicare.

Un’indicazione giurisprudenziale (in assenza di pronunce della Cassazione) arriva da

una sentenza del Tribunale di Bologna (relatore Atzori) che risale al 26 gennaio 2024 (è

la n.14) ma è ancora inedita.

Applicazione universale

Secondo i giudici di Bologna per accertare il luogo dove aprire la procedura, il criterio

da seguire è quello del centro principale degli interessi (Comi) previsto dalle norme Ue

anche per le società con sede legale in Paesi che non fanno parte dell’Unione.

Il tribunale italiano può inoltre aprire la liquidazione giudiziale anche se nel Paese

straniero è già stata avviata una procedura di insolvenza sulla base del diritto locale. E,

sempre secondo i giudici bolognesi, la procedura italiana non è secondaria o dipendente

da quella estera, bensì autonoma e universale, riguarda cioè tutti i beni del debitore (si

veda l’articolo online richiamato in alto).

Pur ritenendo che le norme che regolano la Brexit escludano l’applicazione diretta del

regolamento Ue 2015/848, il Tribunale ha ritenuto alcuni principi ivi previsti di

universale applicazione.

Il provvedimento del Tribunale di Bologna riguardava una vicenda in cui la regolazione

della crisi di una società italiana si intrecciava con quella di una società del medesimo

gruppo ubicata nel Regno Unito.

Nel 2023 la società italiana era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria. In

precedenza, il marchio e una serie di asset erano stati trasferiti a un’altra società del

gruppo, con sede legale a Londra che lo aveva dato in licenza alla società italiana (che

aveva la sede a Bologna con 76 dipendenti) la quale erogava anche servizi trasversali al

gruppo (tra cui Ced, marketing, e-commerce).

I creditori italiani avevano chiesto al Tribunale di Bologna di aprire la liquidazione

giudiziale. La società inglese aveva eccepito il difetto di giurisdizione, sostenendo che il

procedimento andava sospeso ai sensi della legge 218/95 (che regola il nostro diritto

internazionale privato), poiché pendeva un analogo ricorso avanti ad un giudice inglese,

la cui decisione sarebbe poi stata resa esecutiva in Italia sempre in base alla legge 218/95

.

Secondo il Tribunale, i criteri indicati nel considerando n. 30 del regolamento Ue

costituiscono, in base alla dottrina internazionalistica, patrimonio comune per

l’individuazione del centro principale degli interessi nelle insolvenze transfrontaliere,

indipendentemente dalla applicabilità della norma Ue. Il criterio del Comi fu infatti

introdotto negli anni ’90 dalla Commissione Onu per il diritto commerciale

 

internazionale (Uncitral), che ha il compito di armonizzare il diritto commerciale degli

Stati membri dell’Onu, nell’ambito del Modello di legge sull’insolvenza transfrontaliera

adottato il 15 dicembre 1997 con risoluzione n. 52/58 dell’Assemblea generale, poi

trasfuso anche nel regolamento Ce 1346/2000.

Il centro di interessi

Ha inoltre carattere universale il principio secondo cui è sempre possibile offrire la prova

contraria alle presunzioni di coincidenza tra centro principale degli interessi e sede

legale, stabilite dalla legge. E spetta al giudice valutare gli elementi che fanno ritenere

che il centro effettivo di gestione degli interessi sia situati in un altro stato.

Il Tribunale ha ritenuto che, nonostante la sede legale fosse a Londra, il Comi si trovasse

a Bologna, dove erano ubicati il portafoglio clienti e la rete commerciale e dove

avveniva la produzione, dalla creazione stilistica sino al confezionamento. E, da Bologna

i prodotti venivano direttamente spediti ai clienti. Tutto ciò indubbiamente ingenerava

nei terzi (tra cui clienti e dipendenti) la percezione che il luogo in cui il debitore

esercitava la gestione dei propri interessi in modo abituale era in Italia.

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