Decreto Legge 3 maggio 2024 nr 89 – Modifica delle disposizioni inerenti all’esonero dalla dichiarazione di cui all’art. 86 della Legge 16 12 2013 nr 166

9 Maggio 2024

Il Decreto Legge nr 89 sostituisce l’articolo 84 della Legge 166/2013 in tema di esonero dalla presentazione della dichiarazione dei redditi

A partire dal periodo d’imposta 2023 non sono tenuti a presentare la dichiarazione:

“(…) a) i soggetti che, essendo comunque obbligati alla dichiarazione del reddito, possiedano solo redditi esenti per un importo lordo complessivo non superiore a quello di cui alla pensione sociale nella misura prevista dall’articolo 45, primo comma della Legge 11 febbraio 1983 n. 15 e successive modifiche ovvero redditi soggetti a ritenute a titolo d’imposta ai sensi della presente legge;
b) i titolari di reddito di lavoro dipendente erogati da un solo datore di lavoro o di sola pensione che non possiedano altri redditi diversi da quelli indicati al precedente punto a) a condizione che trasmetta all’Ufficio Tributario il certificato di cui al successivo articolo 85.
L’esonero non compete nelle ipotesi in cui a formare il reddito complessivo del contribuente concorrano i redditi a lui imputati, a norma dell’articolo 12, comma 3 della presente legge.(…)”

L’importo corrispondente alla pensione sociale di cui all’art. 45 c1 L 155/1983 e succ modifiche è pari per l’anno d’imposta 2023 a € 7.536,23.

DL89-2024

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L’americano che vive in Italia e la sua pensione «privata»

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2024 di Fabrizio Cancelliere

Un cittadino statunitense, senza cittadinanza italiana, è residente in Italia. Attualmente, questo soggetto percepisce tre pensioni: una come ex militare Usa, una come ex dipendente civile dell’esercito Usa e una come “Social security”.

Le prime due pensioni sono “pubbliche” e scontano l’imposizione solo negli Stati Uniti, in base alla convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Usa del 25 agosto 1999. La terza e ultima pensione, invece, va dichiarata in Italia?

La risposta è positiva, in ragione della normativa convenzionale citata dal lettore. In particolare, l’articolo 19 della convenzione prevede l’imponibilità delle pensioni “pubbliche” nel solo Stato di erogazione delle stesse, dunque nello Stato della “fonte”, se il beneficiario non ha anche la nazionalità dello Stato di residenza, come nel caso in esame.

 

Invece, in base all’articolo 18, le pensioni “private”, quale la “Social security”, sono imponibili nel solo Stato di residenza.

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Antiriciclaggio, stretta europea su super ricchi e titolari effettivi

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 25 aprile 2024 di Alessandro Galimberti

Il Parlamento Ue ha adottato ieri in via definitiva la Sesta direttiva antiriciclaggio (513 voti a favore, 25 contrari e 33 astensioni), insieme al Regolamento «manuale unico» (479 voti a favore, 61 contrari e 32 astensioni) e alla creazione dell’Autorità antiriciclaggio (482 voti a favore, 47 contrari e 38 astensioni). Tra le novità spiccano le disposizioni di vigilanza rafforzate sulle persone fisiche con patrimonio superiore a 50 milioni di euro (escluso il valore della residenza principale) e il limite di 10 mila in tutta l’Ue per i pagamenti in contanti (esclusi i privati in transazioni non professionali).

Novità anche in tema di privacy, al centro dei ricorsi al Tar e Consiglio di Stato. Chi ha un interesse legittimo – compresi giornalisti, organizzazioni della società civile, autorità e organi di vigilanza – avrà accesso immediato, diretto e gratuito alle informazioni sulla proprietà effettiva nei registri nazionali e interconnessi a livello Ue. Registri che includeranno dati dell’ultimo quinquennio. Le Uif avranno maggiori poteri ispettivi e di analisi sulle movimentazioni di denaro, nonché il potere di sospendere le transazioni sospette.

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Società di calcio e procuratori nella rete dell’antiriciclaggio

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 27 aprile 2024 di Alessandro Galimberti

MILANO

Sul pianeta calcio sta per abbattersi il ciclone antiriciclaggio. Uno dei settori più competitivi dell’entertainment targato Ue – le cinque maggiori leghe abitano nel Vecchio continente, le competizioni Uefa sono le più seguite al mondo – finisce infatti dentro il regolamento Antiriciclaggio, approvato martedì scorso come risoluzione legislativa dalla Plenaria di Strasburgo.

Si tratta di un braccio normativo – autonomo, obbligatorio per tutti i 27 Paesi membri e autoapplicativo entro i prossimi 36 mesi – della sesta direttiva Aml (anti money laundering, ndr), votata contestualmente dal Parlamento Ue, e che, come questa, attende il vaglio del Consiglio, prima della pubblicazione sulla Gazzetta europea.

Entrambi i provvedimenti nascono con lo scopo di chiudere i (numerosi) varchi ancora aperti sui flussi internazionali di denaro sporco; ma è il regolamento a focalizzare, in modo più diretto, i nuovi target. Il football professionistico è il principale di questi perché, scrive il legislatore nelle premesse, ci sono motivi di urgenza per farlo «quali la popolarità mondiale del calcio, gli importi considerevoli, i flussi di cassa e gli interessi finanziari coinvolti, la prevalenza di operazioni transfrontaliere e, talvolta, gli assetti proprietari opachi».

Nel mirino delle autorità antririciclaggio – dalle Financial intelligence unit alla nuova authority Amla fino alla Procura europea Eppo – finiscono tutte le operazioni che hanno per oggetto la compravendita di calciatori, i finanziamenti delle società calcistiche professionistiche, le sponsorizzazioni che queste ricevono e tutte le operazioni con agenti calcistici o altri intermediari.

Lo schema di intervento è quello classico dell’antiriciclaggio, vale a dire un controllo all’origine dei flussi finanziari, messo per legge in capo ai «soggetti obbligati» tenuti a monitorare, verificare e, nei casi sospetti, astenersi dall’operazione e segnalare alle autorità Aml.

Nell’elenco dei soggetti obbligati debuttano così gli «agenti calcistici» e le «società calcistiche professionistiche», che diventano i guardiani dell’integrità finanziaria del sistema calcio e i “segnalatori” dei tentativi di riciclaggio via pallone. L’obbligo di tracciare le operazioni con gli investitori, con gli sponsor, con gli agenti calcistici o gli altri intermediari, e i trasferimento di calciatori, riguarderà tutte le società professionistiche con licenza di partecipazione ai campionati, a eccezione di quelle con fatturato inferiore a 5 milioni di euro (ma con la possibilità, per gli Stati membri, di alzare la guardia, anche in situazioni minori ma borderline).

Finanziatori, azionisti, sponsor, e gli stessi agenti delle ricchissime società del pallone, dovranno passare per le forche caudine dell’adeguata verifica della clientela, che comporta non solo la “banale” verifica dell’identità personale del contraente (nel calcio è accaduto anche questo, tra prestanome e veri e propri fantasmi), ma soprattutto la ricerca del titolare effettivo, per «comprendere l’assetto proprietario e di controllo del cliente». Con l’ulteriore complicazione dei tempi moderni, caratterizzati dalle sanzioni internazionali contro Paesi ostili e oligarchi vari, che dovranno essere vagliate, con attenzione, dai nuovi soggetti obbligati.

Se l’“adeguata verifica” fallisce, scatta l’obbligo per agenti e/o presidenti di astenersi dall’affare – qualunque esso sia, dall’avvento di un fondo all’acquisto di un giocatore – e, soprattutto, quello di segnalare il tentativo di operazione sospetta. In caso di dubbi, società e agenti potranno rivolgersi alle Fiu (in Italia la Uif), tenute a rispondere entro tre giorni.

Le sanzioni per i “distratti”? Da stabilire a cura degli Stati purché «effettive, proporzionate e dissuasive».

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Legge italiana inapplicabile per le imprese che trasferiscono la sede in un altro Stato Ue

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 27 aprile 2024 di Maria Castellaneta

L’applicazione della legge italiana nel caso di trasferimento di società in un altro Stato membro ostacola la libertà di stabilimento nello spazio Ue. È la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata il 25 aprile (causa C-276/22), a stabilirlo, chiarendo che, in forza del diritto alla libertà di stabilimento, gli atti di gestione di una società che si sia trasferita da uno Stato membro (Italia) a un altro (Lussemburgo) non possono essere regolati dalla legge italiana. E questo anche nei casi in cui l’attività sia svolta, in via principale, nel primo Stato.

La vicenda

La vicenda riguarda una società italiana, impegnata nella gestione di un immobile di pregio, che aveva cambiato denominazione e trasferito la sede sociale in Lussemburgo, trasformandosi in una società lussemburghese. In base al diritto di quel Paese era stata nominata un’amministratrice unica che, a sua volta, aveva designato un mandatario generale con il compito di svolgere tutti gli atti e le operazioni necessarie. La proprietà dell’immobile era stata ceduta e poi trasferita a una società italiana.

La società lussemburghese aveva chiesto al Tribunale di Roma l’annullamento del trasferimento ritenendo che l’attribuzione dei poteri al mandatario fosse illegittima in base al diritto italiano. L’istanza era stata respinta, ma la Corte di appello l’aveva accolta e così la società che aveva acquistato l’immobile si era rivolta in Cassazione che, prima di decidere, ha chiesto l’intervento degli eurogiudici in particolare per accertare se sia possibile applicare il diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Paese Ue, ma che svolge l’attività in Italia.

La sentenza

Chiarita l’applicazione dell’articolo 49 del Trattato, che assicura la libertà di stabilimento e dell’articolo 54, la Corte ha precisato che la costituzione e la gestione di una società sono definite dalla legislazione dello Stato membro di stabilimento anche quando svolgano la propria attività in un altro Stato Ue. In questi casi, il collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato è fornito dalla localizzazione della sede sociale, dell’amministrazione centrale o del centro di attività principale e, di conseguenza, gli atti di gestione rientrano nell’ambito della libertà di stabilimento. Pertanto, l’articolo 25 della legge 218/1995 che porta ad applicare la legge italiana agli atti di gestione della società trasferitasi in altro Stato membro per il solo fatto che una parte principale dell’attività è svolta in Italia è incompatibile con il Trattato Ue perché incide negativamente sulla libertà di stabilimento e rende «meno attrattivo l’esercizio» di questa libertà fondamentale.

La Corte, inoltre, non ritiene che le autorità italiane abbiano dimostrato l’esistenza di motivi imperativi di interesse generale che possano giustificare tale restrizione. È vero che sono ammissibili, in via eccezionale, limitazioni per tutelare gli interessi dei creditori, dei soci di minoranza e dei lavoratori nei casi in cui la parte principale delle attività sia svolta nel territorio nazionale, ma la restrizione non deve andare al di là di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo.

L’applicazione della legge italiana – precisa la Corte – era dovuta unicamente al fatto che l’attività si svolgeva in Italia, ma non è stata fornita alcuna prova sull’eventuale rischio di creditori o lavoratori. Bocciata anche la tesi basata sulla necessità di reprimere frode ed evasione fiscale perché il solo trasferimento di sede non è di per sé prova di un abuso, anche se l’attività della società viene svolta nel primo Stato membro.

Non conta mantenere l’attività in Italia

Il Sole 24 Ore  27 Aprile 2024 di Marco Piazza

Anche se la vicenda oggetto della sentenza C-276/2022 (si veda l’articolo sopra) risale al 2010, il giudizio della Corte Ue è ancora attuale perché riguarda una disposizione – l’articolo 25, commi 1 e 2, della legge 218/1995 – ancora vigente nonostante la riforma del regime civilistico delle operazioni societarie internazionali (Dlgs 19/2023 di recepimento della direttiva 2019/2121/UE). La direttiva ha armonizzato la materia, dato che la Corte Ue è stata più volte chiamata a giudicare sulla conformità del diritto privato internazionale di diversi Stati membri con il principio di libertà di stabilimento.

Le principali sentenze sugli effetti dei trasferimenti di sede sono quelle nei casi Cartesio (causa C-210/06); Vale (causa C-378/10) e Polbud (causa C-106/16) i cui esiti sono sintetizzati nella circolare Assonime 16/2023, nel senso che:

il trasferimento di sede legale è il mezzo per cambiare legge applicabile in continuità giuridica, anche senza il trasferimento della sede effettiva né di alcuna attività economica; sotto questo aspetto, il nuovo articolo articolo 2510-bis del Codice civile stabilisce che il trasferimento della sede statutaria implica il mutamento di legge applicabile;

è anche possibile trasferire la sede (effettiva) senza mutamento della lex societatis. Le società, cioè, possono trasferire la loro sede in un altro Stato, mantenendo la legge regolatrice dello Stato di partenza; il trasferimento di sede senza mutamento della legge regolatrice non è però realizzabile quando lo Stato di partenza adotta il criterio della sede effettiva o reale; ne consegue che lo Stato di costituzione non può impedire il trasferimento della sede effettiva di una società, ma può prevedere che tale trasferimento determini la perdita della nazionalità della società.

In questo contesto, i commi 1 e 2 dell’articolo 25 del Dlgs 218/1995 presentano aspetti di criticità in quanto prevedono che, se la società ha la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale in Italia resta assoggettata alla legge italiana. Nel caso in cui, quindi, una società italiana intenda trasferire la sede legale all’estero, assoggettandosi alla legge dello Stato di destinazione, ma mantenendo in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto dell’attività, il trasferimento non è impedito dalla legge italiana, ma la società resta soggetta sia alla legge dello Stato di destinazione sia alla legge italiana. Una norma che pare in contrasto soprattutto con la sentenza Polbud che è esplicita nel senso che il diritto di mutare ordinamento giuridico in continuità giuridico-soggettiva, è protetto dalla libertà di stabilimento anche laddove la società trasferisca la sola sede legale, ma non la sede effettiva. La Cassazione (ordinanza 11600/2022) ha quindi sollevato la questione pregiudiziale presso la Corte di giustizia che ha dato origine alla sentenza in commento. La Corte Ue dichiara la norma nazionale illegittima nella misura in cui eccede – parrebbe per la sua genericità – quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di tutela degli interessi dei creditori, dei lavoratori e dei soci di minoranza che figurano tra i motivi imperativi d’interesse generale che potrebbero giustificare una restrizione della libertà di stabilimento.

 

 

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Stretta dei controlli su lusso e nuovi ricchi: gioielli, auto, yacht e aerei

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 27 aprile 2024 di Alessandro Galimberti

FOCUS SULLE TRANSAZIONI

Immobili – in vendita, o in affitto, purché top class -, pietre, orologi e metalli preziosi, auto fuoriserie, aerei e barche, “rotoli” di contanti, nuovi ricchi.

Il regolamento Antiriciclaggio, approvato martedì scorso dal Parlamento di Strasburgo e destinato a diventare legge in tutta la Ue (si veda l’articolo a lato), cerca di chiudere i mille rivoli del reimpiego di denaro sporco, intervenendo sulle “prassi” più in voga.

Nel raggio delle verifiche preventive, e come soggetti obbligati, entrano così in tutta l’area unionale gli agenti immobiliari e gli «altri professionisti» del settore quando agiscono come intermediari nelle compravendite di real estate; ma anche nei contratti di affitto, se il canone mensile è pari o superiore a 10mila euro, qualunque sia il mezzo di pagamento.

L’obbligo di adeguata verifica scatta a livello Ue anche per chi commercia pietre e metalli preziosi, o per chi comunque tratta «beni di valore elevato». Che cosa intenda il legislatore europeo per «lusso» è chiarito direttamente dalle norme: articoli di gioielleria, di oreficeria o di orologeria dai 10mila euro in su, mentre l’elenco dei metalli preziosi consta di «oro, argento, platino, iridio, osmio, palladio, rodio, rutenio», e le pietre rilevanti per l’antririciclaggio saranno «diamanti, rubini e zaffiri».

Ancor più interessanti – e inediti – i limiti di valore che obbligano a segnalare le operazioni di acquisto di mezzi di trasporto, sempre che non siano transazioni su mezzi strumentali (per esercizio di impresa): si tratta di automobili e moto («veicoli a motore») comprate ad almeno 250mila euro, barche e yacht («natanti») acquistate a un prezzo di «almeno 7.500.000 euro»; stessa valutazione “critica” per gli aerei da diletto.

Se l’acquisto passa da un intermediario creditizio, o dagli enti finanziari che offrono servizi in relazione all’acquisto o al trasferimento di proprietà, sarà cura di questi segnalare alle financial unit dell’antiriciclaggio le operazioni effettuate per i propri clienti.

Quanto all’uso del contante «le persone che commerciano beni o forniscono servizi possono accettare o effettuare un pagamento in contanti fino a un importo di 10.000 euro, indipendentemente dal fatto che la transazione sia effettuata con un’operazione unica o con diverse operazioni che appaiono collegate».

Interessante anche la definizione implicita di nuovi e sospetti ricchi, cioè di coloro che «in un rapporto d’affari individuato come ad alto rischio» vogliono gestire beni per almeno 5 milioni di euro: si tratta di un cliente «che complessivamente detiene beni con un valore di almeno 50milioni di euro in attività finanziarie, investibili o immobiliari, o una loro combinazione, ad esclusione della sua residenza privata».

Per clienti di questo tipo la verifica richiesta al soggetto obbligato è una sorta di terzo grado.

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Per contestare l’esterovestizione va verificato l’effettivo trasferimento

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 29 aprile 2024 di Maria Lucia Di Tanna e Davide Greco

L’intento elusivo non costituisce presupposto necessario per la contestazione di cosiddetta esterovestizione. Quest’ultima va, invece, ricondotta alla disciplina giuridica della residenza fiscale ex articolo 73, comma 3, del Tuir. Sono queste le conclusioni raggiunte dai giudici di merito della Cgt Toscana nella sentenza n. 178/5/2024 (presidente Turco, relatore Iannone) i quali, conformandosi ai recenti pronunciamenti della giurisprudenza di legittimità, avrebbero ricordato come in materia di esterovestizione non sia «necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma, invece, (…) verificare se il trasferimento» vi sia effettivamente stato o meno.

La sentenza è di notevole interesse per due motivi. Innanzitutto poiché ribadisce l’irrilevanza dell’elemento elusivo ai fini di una contestazione di esterovestizione, prendendo così le distanze da quel filone della giurisprudenza di legittimità che in passato – anche attraverso richiami a precedenti giurisprudenziali della Corte di giustizia dell’Unione europea (in particolare, si veda, la sentenza dei giudici Lussemburghesi nella causa C-196/04, Cadbury Schweppes) – aveva inquadrato il fenomeno di cui si discute all’interno delle fattispecie di abuso del diritto.

In secondo luogo poiché va letta tenendo conto dei nuovi criteri della residenza fiscale delle società e di come questi si integrino con il fenomeno dell’esterovestizione. Infatti, dal 2024 i criteri di determinazione della residenza fiscale delle società sono mutati. Il nuovo articolo 73, comma 3, del Tuir presenta, infatti, oltre al “preesistente” criterio della sede legale i nuovi criteri della sede di direzione effettiva e della gestione ordinaria in via principale.

Il primo – che dovrebbe assicurare un concreto ed effettivo allineamento con il criterio di derivazione pattizia, del place of effective management – è stato definito come il luogo in cui, in via coordinata e continua, si assumono le «decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso». Questo criterio, dunque, dovrebbe (auspicabilmente) valorizzare solo ed esclusivamente il luogo da cui promanano gli impulsi gestori della cosiddetta alta amministrazione.

Il secondo criterio, invece, è da ritenere debba coincidere, invece, con il luogo del cosiddetto day to day management. In estrema sintesi, si tratta del luogo in cui si svolgono le principali attività di gestione operativa dell’ente nel suo complesso (formulazione questa molto chiara anche per distinguere le ipotesi di presenza di una stabile organizzazione configurabile invece, ad esempio, nel caso di presenza in Italia di un ramo d’azienda).

I nuovi criteri di collegamento della residenza fiscale delle società, così come definiti nel nuovo articolo 73, comma 3, del Tuir dovrebbero impedire tutte quelle interpretazioni estensive del concetto di residenza fiscale, consentendo quindi di perseguire solo ed esclusivamente i reali fittizi trasferimenti di residenza all’estero.

È verosimile ritenere che le future contestazioni di esterovestizione si baseranno sul criterio della direzione effettiva lasciando al criterio della «gestione ordinaria in via principale» un ruolo marginale invocabile, come chiarito (anche) nella relazione illustrativa, «nei casi in cui vi è un effettivo radicamento della persona giuridica sul territorio, ma sorgono incertezze interpretative in merito al luogo di direzione effettiva».

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Consiglieri senza deleghe sanzionati per l’inerzia nell’attendere le risposte

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 23 aprile 2024 di Giovanni Negri

Non è legittimo un atteggiamento «inerte» del consigliere di amministrazione, anche nel caso di semplice Srl. Non importa che l’amministratore sia privo di deleghe e che le informazioni richieste e ottenute dal management esecutivo siano insufficienti. Lo afferma la Cassazione con l’ordinanza 10739 della prima sezione civile depositata ieri. La Corte ha così confermato la condanna in appello (in primo grado erano stati assolti) a pagare circa 700mila euro al fallimento di una Srl a carico di tre componenti del Cda di una Srl. Responsabilità riconosciuta per non avere vigilato sulla condotta dell’amministratore delegato e sulle sue operazioni illecite e di dissipazione.

Per la Cassazione, il dovere di agire in modo informato e il corrispondente diritto individuale di chiedere informazioni escludono, «che i componenti del consiglio di amministrazione siano autorizzati ad assumere un atteggiamento, per così dire, “inerte” e possano, dunque, limitarsi semplicemente ad attendere la trasmissione delle informazioni gestorie da parte degli organi delegati e a verificare il relativo contenuto solo se e nella misura in cui tali informazioni siano state effettivamente fornite»

Hanno piuttosto l’obbligo (da esercitare, a seconda dei casi e delle reazioni, sia in forma individuale, sia in forma collegiale) di sindacare la tempestività delle informazioni eventualmente ricevute e di verificarne la completezza e l’attendibilità. Nei casi più seri ai consiglieri di amministrazione tocca il compito di adottare o proporre rimedi giuridici incisivi e comunque adeguati alla situazione. In particolare, tra gli strumenti possibili, la revoca della delega di gestione o dell’amministratore delegato stesso, l’avocazione al consiglio delle operazioni che rientrano nella delega, l’attivazione nei confronti dell’ad di iniziative giudiziali, anche in via cautelare, e, in generale, di tutti gli strumenti per ripristinare un quadro informativo aggiornato.

L’amministratore privo di deleghe, allora, quando ha rilevato (o avrebbe dovuto diligentemente rilevare) l’insufficienza, l’incompletezza o l’inaffidabilità delle relazioni informative che gli amministratori delegati hanno il dovere di trasmettergli e, più in generale, quando ha percepito (o avrebbe dovuto diligentemente percepire) l’esistenza di circostanze “sospette”, indizi di un fatto illecito già compiuto o in corso (i cosiddetti «segnali di allarme», valorizzati dalla disciplina sulla crisi d’impresa), ha il potere (e, quindi, il dovere) di attivarsi per chiedere agli amministratori delegati di fornire le informazioni dovute. Senza potere invocare a propria discolpa il fatto che le informazioni fornite sono state carenti o insufficienti o addirittura omesse del tutto. In questo caso infatti, sottolinea ancora l’ordinanza, emerge una responsabilità solidale con l’amministratore delegato.

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DDT, quale causale va usata per beni destinati a cantieri

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2024 di Simona Ficola

Un’azienda costruttrice stipula contratti per la realizzazione di piscine.

Attualmente, quando si inizia un lavoro, vengono emessi documenti di trasporto (Ddt) intestati al cliente ogniqualvolta è necessario portare materiale nel cantiere del committente. Tali Ddt hanno causale di trasporto “vendita”, e a essi segue regolare fatturazione differita secondo le modalità di legge, elencando tutti i Ddt.Si chiede se è possibile emettere Ddt con causale “materiale in conto cantiere”, anziché “vendita”, e indicando il contratto, senza, quindi, l’obbligo di emettere fattura differita, e anche per evitare di fatturare importi il cui incasso non segue le modalità previste nel contratto. In altre parole, si domanda se sia corretta la procedura di fatturazione differita al momento dell’incasso reale, riportando nel corpo della fattura l’elenco dei Ddt, con numero e data, emessi con la causale sopra indicata.

Il Ddt è idoneo a superare le presunzioni di cui al Dpr 441/1997 in caso di consegna dei beni a titolo non traslativo della proprietà (lavorazione, deposito, comodato, in dipendenza di contratti estimatori o d’opera, di appalto, trasporto, mandato o commissione eccetera), purché sia riportata sul documento la causale non traslativa del trasporto e purché il documento sia conservato a norma dell’articolo 39 del Dpr 633/1972.

Qualora i beni trasportati al cantiere restino di proprietà della società, e gli effetti del contratto si producano solo a seguito dei diversi stato avanzamento lavori (Sal), si ritiene corretta la soluzione prospettata dal lettore. Al contrario, se i beni trasferiti al cantiere sono ceduti al cliente, sarà necessario procedere alla fatturazione, anche differita.

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Sindaci, responsabilità parametrata ai compensi

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 10 aprile 2024 di Federica Micardi

Buone notizie per i collegi sindacali. Ieri la Commissione giustizia alla Camera ha approvato la proposta di legge che ne limita la responsabilità. Ora il testo passa all’aula di Montecitorio.

La proposta di legge (C 1276) a prima firma della deputata di FdI Marta Schifone punta a modificare l’articolo 2407 del Codice civile, introducendo un limite alla responsabilità parametrato al compenso.

Il tema della responsabilità civile dei sindaci, solidale senza limiti con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, costituisce un punto critico della governance delle società di capitali. I sindaci hanno un compito di controllo ma non possono intervenire sulla gestione, che è di competenza degli amministratori. A ciò va aggiunto che gli emolumenti degli amministratori sono di gran lunga superiori a quelli dei sindaci, eppure la legge prevede un vincolo di solidarietà senza limiti tra i due ruoli, vincolo che in questi anni ha penalizzato proprio i sindaci; l’obbligo di assicurazione previsto per i professionisti li ha di fatto resi un facile bersaglio per cercare di recuperare quanto possibile. Come ha scritto l’onorevole Schifone nel presentare la propria proposta «l’attività di sindaco è quella che le polizze definiscono a maggiore rischiosità, anche per la sproporzione presente tra l’atto commesso e la responsabilità imputata».

La norma approvata ieri in Commissione giustizia prevede che, al di fuori delle ipotesi in cui i sindaci hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata dal collegio sindacale, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10mila euro 15 volte il compenso; per i compensi da 10mila a 50mila euro 12 volte il compenso; per i compensi maggiori di 50mila euro dieci volte il compenso. La limitazione al risarcimento, seppur con parametri differenti, non è una novità nel panorama europeo, è infatti prevista da diverse giurisdizioni come la Germania, la Grecia e il Regno Unito.

La proposta di legge interviene anche sui tempi di prescrizione e prevede che l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescriva in cinque anni – invece degli attuali dieci – dal deposito della relazione relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno; in questo modo viene allineata ai termini previsti per i revisori (ruolo spesso ricoperto proprio dai sindaci).

Secondo la capogruppo in Commissione giustizia di Fratelli d’Italia e relatrice del testo di legge Carolina Varchi con questa approvazione «si compie un primo, importante passo per rendere più equilibrata e più chiara la normativa, evitando penalizzazioni spropositate ed evidenti storture».

Soddisfatto il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti Elbano de Nuccio: «Con il via libera della Commissione giustizia della Camera sulla proposta di legge che punta a modificare l’articolo 2407 del Codice civile, in materia di responsabilità dei componenti del collegio sindacale, ci avviciniamo sempre più a un traguardo storico per la nostra professione e, direi, per l’intero sistema dei controlli societari del nostro Paese. Siamo fiduciosi che l’iter parlamentare della norma possa ora essere rapido». de Nuccio ricorda che la perimetrazione della responsabilità civile dei componenti dell’organo di controllo è un obiettivo per il quale il Consiglio nazionale si è sempre battuto sin dal suo insediamento «e ora – conclude de Nuccio – grazie all’intensa attività di interlocuzione portata avanti con le istituzioni in questi ultimi anni, sembra essere finalmente a portata di mano».

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