Reati tributari, no alla confisca dell’immobile donato ai figli

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2022 di Laura Ambrosi

A meno che non è provato che si tratti di un trasferimento fittizio

Nei reati tributari, non è confiscabile il bene immobile donato ai figli se non esistono prove che si tratti di un trasferimento fittizio volto a sottrarre garanzie in danno all’erario. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4456 depositata ieri.

Il legale rappresentante di una società veniva condannato dalla Corte di appello per il reato di omesso versamento Iva ed era disposta la confisca per equivalente su alcuni beni immobili. La decisione veniva impugnata in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, la conferma della confisca da parte del giudice territoriale nonostante i relativi beni fossero stati donati ai figli dell’interessato. Più precisamente, gli immobili risultavano di proprietà dei figli già prima del sequestro in quanto donati dal padre in epoca precedente.

La Cassazione ha innanzitutto ricordato che per i reati tributari è sempre ordinata la confisca diretta del prezzo o del profitto o quando ciò non sia possibile, per equivalente. Essa non può riguardare beni di un terzo estraneo al reato o dei quali il condannato non ha la disponibilità.

I giudici di legittimità hanno anche precisato che la «disponibilità», non è la formale titolarità, ma la concreta relazione con il bene. La definizione ai fini penali, non coincide con quella civilistica di proprietà, ma con il possesso, includendo così tutte le situazioni nelle quali il bene è nella sfera degli interessi economici del reo. Tale condizione si verifica anche quando il potere dispositivo sia esercitato tramite terzi, ma in concreto è in capo al reo (Cassazione, sentenza 34602/2021).

Nella specie, secondo la Cassazione, il giudice di merito aveva confermato la misura cautelare nel presupposto di una donazione strumentale, volta cioè alla sottrazione di garanzie all’erario, escludendo la buona fede del donante e dei donatari. Tale conclusione, però, non era supportata da prove o da un’adeguata indagine, fondandosi solo sul rapporto di parentela tra coloro che avevano ricevuto gli immobili e il reo.

Tuttavia, per i giudici di legittimità, il padre poteva aver realmente trasferito il bene ai figli, senza mantenerne l’effettiva disponibilità. Nella specie, non vi erano indizi idonei a dimostrare del fatto l’effettuazione della donazione in danno del creditore erariale. Peraltro, ove, il trasferimento fosse stato fittizio e non reale, doveva essere contestato il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del decreto legislativo 74/2000). La decisione della Corte di appello era pertanto meramente assertiva e priva di affidabilità.

La pronuncia è interessante poiché pare rimarcare la necessità di un’accurata valutazione soprattutto nell’ipotesi in cui il bene da confiscare non sia di proprietà del condannato. Sebbene, infatti, sia possibile quando esista il possesso del bene a prescindere dalla titolarità, occorre pur sempre un’analisi sull’effettività dell’esercizio dei poteri dispositivi.

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Credit Suisse, in Svizzera più digitale e meno filiali

9 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 27/08/2019 di L.D.

Anche Credit Suisse, al pari di altri grandi colossi bancari europei, punta a cavalcare la sfida digitale tirando il freno sullo sviluppo della rete fisica. Il gruppo elvetico ha dichiarato ieri che entro la fine del 2021 intende investire centinaia di milioni di franchi svizzeri in servizi digitali nella sua divisione svizzera, che – nei piani dell’istituto – non ha bisogno di una rete di filiali maggiore di quella dei suoi concorrenti. «Il raggiungimento di un successo a lungo termine non dipenderà dall’avere la più grande rete di filiali in futuro», ha affermato Thomas Gottstein, capo della divisione Swiss Universal Bank (Sub) del gruppo elvetico. Piuttosto, ha detto Gottstein, «avere la migliore offerta digitale, in combinazione con l’accesso al supporto da qualsiasi luogo e la migliore qualità del servizio, sarà il fattore decisivo». Nessuna indicazione sull’eventuale riorganizzazione della rete in Svizzera. Va detto che la banca con sede a Zurigo sta creando una nuova area commerciale, chiamata Direct Banking, rivolta a clienti retail e commerciali,che partirà al 1 ° settembre: obiettivo circa un milione di clienti al dettaglio, 60.000 clienti commerciali e oltre 500 dipendenti.

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Ritenute sui dividendi, il certificato di residenza francese salva la holding

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 24 GIUGNO 2019 di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito

Una società holding non può fornire gli stessi indizi di operatività di una società commerciale ai fini della verifica del requisito del beneficiario effettivo, necessario per l’applicazione della direttiva “madre-figlia”. Lo ha affermato la Ctp Milano con la sentenza 2237/1/2019 (presidente Roggero, relatore Chiametti) che accoglie il ricorso di una società italiana, controllata di una società francese, contro l’atto impositivo con cui l’agenzia delle Entrate contestava l’esenzione da ritenuta applicata sui dividendi “in uscita” pagati alla controllante.

Ma andiamo con ordine. L’agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti di una società italiana facente parte di un gruppo multinazionale. Tra i vari rilievi, l’Agenzia contestava alla società l’omessa applicazione della ritenuta sui dividendi corrisposti nell’anno 2013 alla propria casa madre francese. A detta dell’ufficio, la non imponibilità in Italia dei dividendi “in uscita”, prevista dall’articolo 27-bis del Dpr 600/1973, attuativo dei princìpi la direttiva “madre-figlia”, non poteva essere applicata perché la società francese non rappresentava la beneficiaria effettiva delle somme, ma costituiva un soggetto meramente interposto nella catena partecipativa, che proseguiva, in realtà, fino alla capogruppo avente sede nelle isole Bermuda. In altri termini, per il Fisco la società francese costituiva solo una “costruzione di puro artificio” con lo scopo di dirottare fuori dall’Ue, sotto forma di interessi passivi, i dividendi erogati dalla società italiana, con evidente beneficio fiscale.

La società impugna l’avviso di accertamento, sia facendo valere principi di diritto, tra cui la libertà di stabilimento per le holding “pure” (cioè che svolgono attività di mera detenzione di partecipazioni), sia fornendo elementi concreti utili a provare la “sostanza economica” della società holding francese. In particolare, sotto il profilo fattuale, la società forniva elementi a conferma delle funzioni infragruppo svolte dalla controllante nonché della complessiva logica economico-imprenditoriale che alcuni anni prima aveva guidato la riorganizzazione del gruppo e l’elezione della società francese quale holding a capo di circa 40 società nell’area Emea.

La Ctp accoglie il ricorso della società ritenendo infondata la ricostruzione dell’ufficio principalmente sotto un profilo fattuale, rilevando, nel solco tracciato dalla Suprema corte, che la valutazione della sostanza economica di una società deve essere effettuata caso per caso, in funzione delle attività dalla stessa concretamente svolte. Nel caso in esame, partendo dall’assunto secondo cui ad una società holding non possono essere richiesti gli stessi indizi di operatività di una società commerciale, i giudici riconoscono la “sostanza economica” della holding francese e la bontà delle ragioni sottese al complesso progetto di riorganizzazione che aveva portato alla sua costituzione. Infatti, tale riorganizzazione ha consentito al gruppo di rafforzare la propria presenza nell’area Emea apportando crescita e innovazione in ogni settore di attività. Su queste basi, la Ctp qualifica la holding francese come “beneficiario effettivo” delle somme in contestazione e di conseguenza annulla l’avviso di accertamento e condanna l’ufficio al pagamento della spese di lite.

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La pensione non pubblica è tassata nel Paese estero

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore 17 settembre 2018 di Fabrizio Cancelliere

Fisco Internazionale

Un cittadino italiano residente in Romania, e iscritto all’anagrafe dei residenti all’estero (Aire), percepisce redditi di pensione (corrisposti in Romania) e redditi di partecipazione da società di persone in Italia. Dove dovrebbe fare la dichiarazione dei redditi (e pagare): in Italia o in Romania?
V.V.MESSINA
In linea generale, sulla base delle disposizioni previste nella convenzione contro le doppie imposizioni, le pensioni sono tassate nel luogo in cui è residente il soggetto che le percepisce; ovvero, se si tratta di pensioni “pubbliche”, nello Stato che le eroga (salvo eccezioni). Quindi, nel caso in esame, le pensioni andrebbero tassate solo in Romania.
I redditi di partecipazione in società di persone italiana sono invece tassati in Italia, anche se percepiti da un non residente, in virtù del criterio di territorialità individuato dall’articolo 23 del Tuir, Dpr 917/86 (criterio non derogato dalla convenzione). Non è tuttavia da escludere che il reddito debba essere tassato anche in Romania, sulla base della normativa interna, fatto salvo il diritto al credito per le imposte pagate in Italia.

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Il residente in Cina non paga per le plusvalenze in Italia

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore del 17 settembre 2018 di Fabrizio Cancelliere

Fisco Internazionale

Sono fiscalmente residente in Cina. Ho delle plusvalenze su titoli detenuti presso una banca italiana. La banca non applica la ritenuta del 26% (regime dichiarativo), in quanto sono residente estero, e afferma che dovrei dichiarare le plusvalenze e pagare la relativa tassa in Cina, in base alla tassazione locale. In Cina, tuttavia, i redditi prodotti fuori dal Paese non sono tassati. Significa che, nel mio caso, non dovrei pagare alcuna tassa sulle plusvalenze?
C.P.MILANO
La soluzione è corretta, visto che le plusvalenze su partecipazioni non qualificate realizzate nel 2018 da un soggetto residente in uno Stato “white list” qual è la Cina, non sono imponibili in Italia, in base all’articolo 5, comma 5, del Dlgs 461/97.

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Scambi intracomunitari con l’Iva del destinatario

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 26 Maggio 2018 di Benedetto Santacroce

Export. Approvate dalla Commissione Ue le misure tecniche

Dopo 25 anni di regime transitorio Iva degli scambi intracomunitari di beni, ieri la Commissione europea ha approvato le misure tecniche di dettaglio per un sistema definitivo con un’applicazione più semplice dell’imposta e più efficace nel contrasto delle frodi. Il nuovo sistema si basa su un principio di tassazione nello Stato di destinazione dei beni con assolvimento e responsabilità dell’imposta in capo al venditore. Con l’introduzione del nuovo sistema definitivo diremo anche addio, almeno sul piano fiscale, agli Intrastat.
Attualmente le cessioni intracomunitarie sono tassate ai fini Iva attraverso un meccanismo di inversione contabile o reverse charge che prevede una non imponibilità della cessione e un’imponibilità dell’acquisto intracomunitario. Pertanto se un operatore francese vende dei beni ad un operatore italiano trasferendo i beni dalla Francia all’Italia, il francese realizza una cessione non imponibile in Francia, mentre l’operatore italiano tassa l’acquisto intracomunitario in Italia integrando la fattura estera e liquidando l’imposta sia in vendita che in acquisto.
Questo sistema ha generato nel tempo complicazioni, pesanti oneri amministrativi e un elevato livello di evasione (stimato dalla Commissione Ue in 50 miliardi di euro).
Le nuove regole proposte cercano di superare le attuali problematiche attraverso una rivisitazione del sistema e il ricorso alle nuove tecnologie.
Sul piano del sistema, riprendendo l’esempio di prima, il francese effettuerà una operazione che verrà tassata sempre in Italia, ma in luogo di emettere una fattura senza imposta, lui diverrà il responsabile della riscossione dell’imposta. Pertanto il francese dovrà versare in Francia all’Italia l’imposta relativa all’acquisto fatto dall’operatore italiano con l’aliquota Iva vigente in Italia.
Per far ciò, sulla base della positiva esperienza del sistema One Shop Stop (Oss) adottato in via sperimentale per le transazioni relative ai servizi a distanza verso consumatori finali (B2C), l’Unione metterà a disposizione di tutti gli operatori unionali una piattaforma informatica con la quale sarà possibile procedere alla tassazione di tutte le transazioni B2B versando direttamente nello Stato di stabilimento l’imposta allo Stato di destinazione.
Il meccanismo sarà operativo anche per i soggetti residenti in Paesi extracomunitari che potranno, nominando un rappresentante in un solo Stato membro, tassare tutte le cessioni intraunionali.
Il sistema Oss sarà applicato in via generale su tutte le cessioni intraunionali, ad eccezione del caso in cui il soggetto acquirente sia considerato dalle amministrazioni fiscali degli Stati membri un soggetto affidabile. In effetti, in questo caso si continuerà ad applicare il meccanismo di tassazione attuale con esenzione della cessione e tassazione dell’acquisto direttamente a cura dell’acquirente. Questa eccezione comporta però che venga introdotto anche ai fini Iva un sistema di certificazione intraunionale che riconosca l’affidabilità Iva dei soggetti passivi d’imposta. Nasce così, come avevamo già evidenziato da queste stesse pagine nei mesi scorsi (si veda da ultimo Il Sole 24 Ore del 5 ottobre 2017), la figura del Certified taxable person (Ctp).
L’introduzione di questa forma di certificazione di affidabilità apre la strada ad ulteriori semplificazioni che nei piani della Commissione dovrebbero essere rapidamente attuati (quali ad esempio la gestione semplificata delle vendite a catena).

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Triangolazione Iva, non imponibilità a maglie più larghe

11 Maggio 2018

Il Sole 24 Ore 20 Aprile 2018 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Corte Ue. La tassazione degli scambi interni
Si resta nell’ambito di una triangolazione comunitaria qualora il primo cessionario risieda e sia identificato ai fini Iva nello Stato membro dal quale i beni siano spediti o trasportati ma utilizzi, ai fini dell’acquisto intraUe, un numero di identificazione Iva di un altro Stato membro. Inoltre, non può venir meno la non imponibilità dell’acquisto intraUe realizzato ai fini di una successiva cessione verso un altro Stato membro, per una presentazione non tempestiva dell’Intrastat.
La pronuncia di ieri della Corte di giustizia Ue (sentenza 19 aprile 2018, causa C-580/16), ripassando all’esame la corretta tassazione degli scambi interni all’Unione, è il sintomo di come tale disciplina non sia stata ancora interiorizzata appieno dagli ordinamenti degli Stati membri.
Al riguardo, è fuori discussione che se, ad esempio, un operatore italiano acquista beni da un soggetto passivo residente in Olanda, dando incarico a quest’ultimo di consegnarli direttamente al proprio cliente residente in Grecia, l’italiano rispetto al fornitore olandese pone in essere un acquisto intraUe non imponibile Iva, in quanto i beni acquisiti sono oggetto di una cessione intraUe. Il salto della tassazione in capo al soggetto intermedio (primo cessionario/secondo cedente) è quindi ammesso a condizione che il secondo (e ultimo) cessionario abbia l’obbligo di tassare nel proprio territorio l’operazione.
Ma cosa succede se il primo e il secondo cedente coincidono? Ovvero, cosa succede se l’operazione non coinvolge tre diversi soggetti registrati ai fini Iva in tre diversi Stati membri, ma due partite Iva della stessa società ed un terzo? Può parlarsi ancora di triangolare comunitaria con gli effetti sopra menzionati?
È esattamente questo il caso posto all’attenzione dei giudici europei, che hanno colto l’occasione per sottolineare come spesse volte occorre andare oltre la lettera della norma ed analizzarla nell’intero complesso e secondo gli scopi perseguiti dal diritto dell’Unione.
Se così non fosse, la semplice lettura dell’articolo 141, lettera c) della direttiva Iva impedirebbe la detassazione della prima operazione della triangolare descritta, in quanto la norma richiede che i beni oggetto dell’acquisto intraUe siano trasportati a partire da un Stato membro diverso da quello in cui il soggetto passivo è identificato, a destinazione del soggetto nei cui confronti questi effettui la cessione successiva.
Al contrario – conclude la Corte – attraverso un’interpretazione sistematica ed in linea con lo scopo di semplificazione delle disposizioni sul tema, la non imponibilità in capo al primo acquirente non può essere negata, senza generare disparità di trattamento e limitazioni all’esercizio delle attività economiche, per il solo motivo che tale soggetto sia identificato anche nello stato di partenza del trasferimento intraUe.

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Giganti del web, tassa al 3% del fatturato

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore 22 Marzo 2018 di Beda Romano

La proposta della Commissione: l’aliquota sarà applicata nei Paesi europei a livello nazionale

Bruxelles
A dispetto delle critiche degli uni e dello scetticismo di altri, la Commissione europea ha presentato ieri qui a Bruxelles nuove soluzioni per affrontare la questione della tassazione dell’industria digitale. Il pacchetto di proposte prevede tra le altre cose la controversa tassazione del fatturato delle imprese digitali a livello nazionale. La strada del provvedimento è tutta in salita. La stessa Business Europe è critica dell’iniziativa, così come alcuni stati membri.
«Le regole attuali non permettono ai Paesi membri di tassare correttamente le imprese digitali in Europa quando queste non hanno presenze fisiche – ha spiegato il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici –. Questa situazione rappresenta un buco nero per gli stati membri, buco nero che aumenta sempre più poiché si riduce la base imponibile. Ecco il motivo per cui oggi proponiamo una nuova norma giuridica e una tassa provvisoria applicabile a tutte le attività digitali».
Due quindi le proposte, come anticipato dalle informazioni circolate nei giorni scorsi qui a Bruxelles (si veda Il Sole 24 Ore del 16 marzo). La prima struttuale di lungo termine. La seconda di breve termine e temporanea, in attesa di una intesa internazionale. Cominciamo dalla prima. Per decenni, la tassazione societaria è avvenuta sulla base dei profitti generati in un dato paese per via della presenza fisica dell’azienda in quello Stato. Per sua natura, l’industria digitale non ha frontiere.
Di conseguenza, la Commissione propone tre criteri in alternativa l’uno all’altro per giudicare la presenza fisica di una azienda digitale: almeno sette milioni di euro di fatturato annuale in un paese membro; almeno 100mila utilizzatori in un paese membro durante un dato esercizio fiscale; almeno 3.000 contratti commerciali sempre in un dato paese membro. «Le nuove regole modificherebbero il modo in cui i profitti aziendali sono attribuiti ai paesi membri», spiega la Commissione.
In attesa che questo paradigma sia accettato a livello globale, Bruxelles propone fin da ora di tassare nell’Unione il fatturato nazionale delle singole imprese digitali, generato dalla vendita pubblicitaria, dalle attività di intermediazione, dalla vendita di dati personali. Tassate sarebbero le imprese con un fatturato di 750 milioni di euro o più a livello mondiale e di 50 milioni di euro o più a livello europeo. Il commissario Moscovici ha smentito che la nuova tassa sia diretta contro i giganti Internet americani.
Fredda Emma Marcegaglia, presidente di Business Europe: «È importante avere un accordo internazionale sulla tassazione delle imprese digitali, l’Europa non può procedere su questo da sola (…) Noi non vogliamo difendere nessuno in particolare, ma se stiamo (…) alle pratiche internazionali, a essere tassati sono i profitti non il fatturato. È questa regola che dobbiamo difendere». Viceversa il gruppo parlamentare dei Verdi a Strasburgo ha detto di «sostenere gli sforzi» di Bruxelles.
Secondo l’esecutivo comunitario, la nuova imposta – con una aliquota del 3% – potrebbe generare fino a cinque miliardi di euro di gettito fiscale. Bruxelles spiega che la proposta non viola regole sulla doppia tassazione e permette di evitare la segmentazione del mercato unico attraverso l’emergere di iniziative unilaterali (come in Italia, in Slovacchia e in Ungheria). Attualmente, in Europa, le imprese digitali vengono tassate con una aliquota media del 9,5%, rispetto al 23,2% di una società tradizionale.
In Europa, il tema fiscale è spesso fonte di tensioni. I progetti legislativi in questo campo richiedono l’unanimità dei Ventotto. «In mancanza di un consenso globale (…) dobbiamo avanzare a livello europeo, trovando un accordo su un approccio coordinato per garantire l’integrità del mercato unico», hanno scritto in un comunicato Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito. Altri paesi, come l’Irlanda, sono contrari. Si fa già strada l’idea di una cooperazione rafforzata; con quanto successo non è chiaro.

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Soglia «mondiale» per chi opera in Svizzera

11 Aprile 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 19 Marzo 2018 di Davide Cagnoni e Angelo D’Ugo

La novità. Dal 1° gennaio 2018 le imprese estere sono soggetti passivi se il fatturato globale supera i 100mila franchi

A partire dal 1° gennaio 2018 tutte le imprese estere, comprese quindi anche le italiane, che svolgono attività in Svizzera sono ivi considerate soggetti passivi Iva se il loro fatturato annuo, inteso come fatturato realizzato sia in Svizzera sia nel resto del mondo supera i 100.000 franchi (circa 85.500 euro).
Non rileva più, quindi, come accadeva fino al 31 dicembre 2017, il volume d’affari realizzato sul territorio elvetico, ma quello prodotto a livello mondiale, con l’evidente conseguenza che saranno molto più numerose le imprese tenute a identificarsi come contribuenti e versare l’Iva in Svizzera mediante la nomina di un rappresentante fiscale.
L’obbligo riguarda sia le prestazioni eseguite in Svizzera tramite contratti d’appalto sia le fattispecie nelle quali, al di fuori di un contratto d’appalto, il fornitore consegni il bene solo dopo la lavorazione sul territorio svizzero (ad esempio consegna, dopo il montaggio, di macchinari, finestre o di impianti di areazione o, più in generale, consegna di beni importati con montaggio sul territorio svizzero in occasione di lavori di manutenzione di edifici).
La partita Iva in Svizzera si ottiene con la nomina, mediante procura scritta, di un rappresentante fiscale (persona fisica o giuridica) con domicilio o sede in Svizzera.

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Fuori dall’Unione doganale Londra rischia barriere Ue

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore  06 Febbraio 2018 di Beda Romano

BREXIT. ?DA OGGI A VENERDÌ NUOVA TORNATA NEGOZIALE TRA LE PARTI A BRUXELLES

Dopo una lunga pausa, la Commissione europea e il governo britannico terranno qui a Bruxelles da oggi a venerdì una nuova tornata negoziale tutta dedicata a Brexit, preceduta ieri da una visita del capo negoziatore Ue, Michel Barnier, a Londra. Le parti discuteranno di aspetti tecnici del divorzio del Regno Unito dall’Unione; del futuro della frontiera tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda; e del periodo di transizione tra il marzo 2019 e il dicembre 2020, in attesa dell’entrata in vigore di un agognato accordo di partenariato.
La finalizzazione del divorzio
Nei fatti, le trattative tra le parti si stanno svolgendo attualmente su tre fronti diversi. Le questioni si intrecciano mentre il governo britannico appare sempre più diviso e debole. La premier Theresa May è nella scomoda posizione di voler accontentare alcuni suoi alleati, senza però scontentarne altri. «L’incertezza politica a Londra è una minaccia per il futuro delle trattative. Viviamo nel perenne dubbio della prossima caduta del governo May», ammetteva ieri un diplomatico europeo.
Il primo aspetto in discussione è quello del divorzio. In dicembre, Londra e Bruxelles hanno trovato un accordo preliminare sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, che scatterà alla mezzanotte del 29 marzo del 2019. L’intesa deve essere finalizzata, e non sarà facile. Porta su tre capitoli: i diritti dei cittadini inglesi in Europa ed europei nel Regno Unito; il dialogo tra Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda; e gli impegni finanziari di Londra nei confronti dei suoi partner.
Mentre sui diritti dei cittadini e sugli impegni finanziari il terreno appare relativamente solido, il nodo relativo all’Irlanda è tutto da sciogliere. Il «pieno allineamento regolamentare» tra Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, previsto dall’intesa di dicembre, è ancora da mettere nero su bianco. L’obiettivo dei Ventisette è di stilare un progetto di trattato di divorzio entro fine marzo. «In assenza di accordi con Londra saremo in una situazione di “prendere o lasciare”», dice un negoziatore europeo.
La transizione incerta
Nel frattempo, le parti hanno iniziato a discutere anche della fase di transizione che deve coprire il periodo tra l’uscita del Regno Unito dall’Unione e l’entrata in vigore di un nuovo accordo di partenariato (marzo 2019-dicembre 2020). I Ventisette hanno approvato in gennaio le loro linee-guida negoziali e a breve dovrebbero inviare a Londra una bozza di accordo (si veda Il Sole 24 Ore del 30 gennaio). La posizione europea è molto restrittiva e ha già suscitato reazioni negative oltre-Manica.
In linea di principio, Bruxelles vuole che nella fase di transizione la Gran Bretagna rispetti pienamente l’acquis communautaire, ma senza poter partecipare alle riunioni ministeriali a livello europeo. Londra ha già rumoreggiato. C’è di più: la signora May ha lasciato intendere che i cittadini europei presenti in Gran Bretagna non verrebbero trattati come ora. La minaccia è stata accolta negativamente dai negoziatori comunitari, perché contraria alle loro attese.
Inoltre, mentre Londra vorrebbe che la fase di transizione durasse 24 mesi, i Ventisette sono pronti a concedere al Regno Unito solo 21 mesi, per ora. Da risolvere è anche il ruolo della Corte europea di Giustizia, una autorità che il Regno Unito non vuole riconoscere dopo Brexit. Le intese sul divorzio e sulla transizione devono essere finalizzate entro ottobre, secondo il capo-negoziatore europeo Michel Barnier, in modo da consentire una loro approvazione parlamentare entro il 29 marzo 2019.
Fuori dall’unione doganale?
Infine, è iniziato anche il negoziato sul futuro accordo di partenariato. Da alcune settimane, la Commissione sta pubblicando documenti negoziali in cui precisa la sua posizione in vista di linee-guida da far approvare in marzo dai Ventisette. La partita è resa complicata dalla mancanza di una richiesta precisa da parte di Londra. Il Regno Unito ha posizioni contradditorie: vuole uscire dall’unione doganale e dal mercato unico, ma comunque avendo pieno accesso al mercato europeo. Lo stesso Barnier ha chiarito ieri alla premier Theresa May e al ministro della Brexit David Davis che ciò non sarà possibile e che in caso di uscita dall’Unione doganale per Londra potranno prospettarsi barriere commerciali.
L’ipotesi che si fa strada è quella di un accordo commerciale come quello siglato con il Canada. Il problema è che il Ceta riguarda principalmente le merci, non i servizi, mentre il Regno Unito vorrebbe che le proprie banche avessero accesso al mercato unico. Inaccettabile per Bruxelles, salvo a particolari condizioni. Entrambe le parti hanno bisogno di una intesa post-Brexit, tanto stretti sono i legami tra Bruxelles e Londra. In questo senso, un compromesso rimane dopotutto l’esito più probabile del negoziato.

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