Prot. AIF 241511-23/0192 del 10 Settembre 2024 – Registro sulla titolarità effettiva delle persone giuridiche di cui all’art. 23 quater della Legge n.92/2008 – precisazioni

12 Ottobre 2024

A seguito di un confronto con gli Ordini professionali, con Circolare del  10 settembre u.s. (che si allega in calce),  l’AIF ha sospeso l’obbligo di comunicazione della conferma annuale del titolare effettivo (delle persone giuridiche soggetti obbligati) da effettuarsi tra il 1°ottobre ed il 31 ottobre di ciascun anno.

Tale disposizione,  precedentemente  indicata con Circolare AIF del 29 luglio u.s., (si veda la precedente Newsletter di Agosto rif. Prot nr 241287+RegistroTEmanuale+ Circolare)

è stata  corretta in maniera tale da:

“a) eliminare il disposto di cui all’art. 7.5 (comunicazione di conferma), comportando così la sospensione (sino ad ulteriore nuova comunicazione da parte dell’Agenzia) dell’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 23 quater, comma 6, lett. c) della Legge n.92/2008; ed anche
b) sostituire ogni riferimento all’art. 3 del decreto delegato n.50/2024 con l’indicazione dell’art. 9 del decreto delegato n. 50/2024, intervenendo così sull’errore materiale occorso.

(…)  si specifica che è quindi sospeso l’obbligo di conferma imposto nell’arco temporale tra il 1° ottobre ed il 31 ottobre.
Come già indicato nella precedente nota, l’Agenzia ha previsto un indirizzo mail (regte@aif.sm) ai cui inviare quesiti circa gli adempimenti in parola e per ogni questione procedurale.”

Prot. 241511 -23/0192

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Il venditore porta a porta non è agente di commercio

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 4 Settembre 2024 di Massimo Romeo

Un rapporto di agenzia è caratterizzato da specifici vincoli o obblighi contrattuali di promuovere affari per conto della preponente e il collegamento a determinate zone.

In assenza di tali caratteristiche, il rapporto di mandato – conferito da una società per la vendita dei propri prodotti attraverso una struttura di multilevel marketing – equivale a una mera autorizzazione scritta per promuovere la raccolta di ordini dei prodotti della società (mandante) direttamente ai consumatori finali, oltre a incoraggiare e procacciare nuovi venditori in modo da venire ricompensati non solo per le vendite direttamente effettuate ma anche per quelle compiute da altri venditori da essi stessi reclutati.

In tale ipotesi, non si applica l’ordinario regime di tassazione degli agenti di commercio – quale reddito d’impresa – ma la ritenuta a titolo d’imposta sulle provvigioni, prevista dall’ordinamento per le vendite a domicilio («porta a porta»).

Così si è pronunciata la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ( sentenza 2295 del 29 agosto 2024, presidente Izzi, estensore Appignani).

La controversia concerneva un avviso di accertamento a titolo di Irpef e Irap emesso dalle Entrate a carico di un contribuente, venditore “porta a porta”. In particolare, l’Ufficio riqualificava l’attività svolta per una società da «incaricato delle vendite a domicilio» in «attività di agente di commercio», assoggettandolo al regime ordinario previsto per i redditi di impresa.

Il contribuente contestava la riqualificazione operata dall’Agenzia evidenziando: a) le provvigioni percepite in qualità di incaricato alle vendite a domicilio sono, per legge, escluse dall’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi; b) le stesse sono soggette a una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 23% sul 78% delle provvigioni (articolo 25-bis, comma 6, del Dpr 600/1973) e conseguentemente non formano oggetto di dichiarazione nel modello Unico dell’incaricato alle vendite a domicilio, ai fini del reddito d’impresa (in tal senso, la risoluzione ministeriale 180/E del 12 luglio 1995); c) sia per le vendite «dirette» che per quelle «indirette», l’incaricato alle vendite a domicilio matura il diritto alla provvigione, il cui regime tributario è comunque quello della ritenuta d’imposta definitiva, in quanto si tratta sempre di attività di raccolta ordini di vendita nei confronti del consumatore finale; d) per il particolare inquadramento fiscale, non è consentita la deduzione di spese e costi ai fini della base imponibile Irpef.

L’Ufficio difendeva in giudizio la liceità del proprio operato ribadendo come la posizione del contribuente era quella di un “anomalo” venditore a domicilio sia per l’esiguità degli incassi derivanti da vendite dirette, sia per l’ammontare delle provvigioni maturate sulle vendite procacciata da altri venditori per effetto della struttura basata sul cosiddetto multilevel marketing, sia per la qualifica di senior manager assunta dal contribuente nonché per le tipologie di bonus riconosciutigli oltre quello derivante dalle vendite personalmente promosse ai clienti.

I giudici di secondo grado, hanno riformato la sentenza di primo grado, ricordando la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, ordinanze 17920/2018, 16565/2020, 30852/2021, 530/2024) in cui è stato affermato che caratteri distintivi del contratto di agenzia sono «la continuità e la stabilità dell’attività dell’agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente nell’ambito di una determinata sfera territoriale», realizzando in tal modo, con quest’ultimo, una non episodica collaborazione professionale autonoma, con risultato a proprio rischio e con l’obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente medesimo. Nel caso particolare il contratto tra il contribuente e la società (mandante), non prevedeva alcuna «esclusiva di zona e vincoli di durata della prestazione» né tantomeno alcun «obbligo vincolante di svolgere attività promozionale», ma solo una «semplice autorizzazione scritta», così rendendo l’attività estranea al rapporto di agenzia.

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Criptoattività tracciate, sanzioni Ue più pesanti

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 17 Settembre 2024 di Valerio Vallefuoco

Le cripto attività in Italia si adeguano al regolamento Ue Mica. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.215 del 13 settembre del Dlgs 129/2024 anche l’Italia come Paese membro Ue si dota di uno strumento completo ed avanzato di attuazione della normativa europea in tema di cripto asset. Il provvedimento è entrato in vigore dal 14 settembre. Tuttavia sono previste delle disposizioni transitorie (articolo 45 del decreto ) in forza delle quali dopo l’entrata in vigore di Micar possono continuare a operare fino al 30 giugno 2025 – in base al Dlgs 141 del 2010 e disposizioni attuative – i soli soggetti regolarmente iscritti nel registro Oam al 27 dicembre 2024. Se questi presenteranno istanza di autorizzazione, in Italia o in un altro Stato membro, entro il 30 giugno 2025, sarà consentito loro di continuare a operare nelle more dello svolgimento del procedimento di autorizzazione, fino al rilascio o rifiuto della medesima e comunque non oltre il 30 dicembre 2025. Il nostro legislatore ha scelto di ridurre al minimo consentito dai regolamenti Ue il periodo transitorio di tolleranza in ossequio alle raccomandazioni della agenzia europea di riferimento ( Esma).

Sempre il decreto prevede un rigoroso sistema sanzionatorio caratterizzato da sanzioni penali e amministrative rilevanti. In particolare, il doppio binario sanzionatorio limita le sanzioni penali alle sole violazioni più gravi. Si tratta dell’abusivismo finanziario, che le nuove norme puniscono con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 a 10.329 euro. Certamente più ampio è lo spettro delle sanzioni di natura amministrativa, che copre una vasta gamma di condotte, con la possibilità di inasprimento della sanzione nei casi in cui il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione in conseguenza della violazione stessa sia superiore ai limiti massimi indicati. In questi casi, infatti, la sanzione amministrativa pecuniaria è elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto. Viene inoltre riconosciuta alla Banca d’Italia e alla Consob, in relazione alle rispettive competenze, la possibilità di disporre, in aggiunta alla sanzione amministrativa, una dichiarazione pubblica indicante la persona fisica o giuridica responsabile e la natura della violazione e/o in un’ingiunzione diretta alla persona fisica o giuridica di porre termine al comportamento e di astenersi da ripeterlo. Particolarmente afflittive sono le sanzioni previste per chiunque violi il divieto di abuso di informazioni privilegiate, di comunicazione illecita di informazioni privilegiate o di manipolazione del mercato. In questi casi, la sanzione applicabile va da 5mila fino a cinque milioni di euro. Le nuove norme quantificano poi le sanzioni amministrative pecuniarie applicabili all’ente individuandone i presupposti per l’applicazione. Quanto al procedimento, la potestà sanzionatoria è in capo alla Banca d’Italia e alla Consob, secondo le rispettive competenze, fermo restando che per le sanzioni amministrative previste in materia di emissione, offerte al pubblico e richiesta di ammissione alla negoziazione di token di moneta elettronica sono sempre applicate dalla Banca d’Italia secondo la procedura sanzionatoria prevista dall’articolo 145 del Tub. Nella relazione illustrativa al decreto si chiarisce che non solo la disciplina del procedimento sanzionatorio amministrativo ma anche le regole speciali sull’impugnazione in Corte d’Appello sono le stesse previste nel Tub. Infine, è rimesso a Banca d’Italia e a Consob il compito di effettuare la segnalazione all’Abe e all’Aesfem prevista dalla Micar delle sanzioni e delle misure amministrative applicate.

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I dati del pedaggio possono legittimare il licenziamento

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 23 Settembre 2024 di Marcello Floris

Il Telepass montato su vettura aziendale non è uno strumento di controllo della prestazione lavorativa a distanza vietato dallo Statuto dei lavoratori, bensì un apparecchio di controllo organizzativo interno, peraltro noto al dipendente. Il base a questa valutazione la Corte di cassazione, con l’ordinanza 17008 pubblicata il 20 giugno 2024 ha confermato la validità del licenziamento di un dipendente, avendo constatato la gravità del comportamento addebitato, sostanzialmente ingiustificato, e la proporzionalità della sanzione espulsiva.

Il datore di lavoro aveva rilevato, infatti, la sosta dell’auto aziendale affidata per servizio al lavoratore e a un suo collega in coincidenza con il turno lavorativo: l’auto era rimasta ferma sul piazzale del posto di manutenzione, mentre nel rapporto di servizio era stato registrato un intervento di rimozione di un ostacolo, in un orario incoerente con i dati del Telepass installato sull’auto. Questo intervento non era stato neanche segnalato alla sala radio, in violazione delle disposizioni di servizio aziendali. Secondo la Corte, il mancato pattugliamento derivante dalla sosta del mezzo, costituisce una violazione insanabile del vincolo fiduciario poiché tali mansioni rientravano nelle attività proprie del lavoratore quale ausiliario alla viabilità, secondo il contratto collettivo applicabile.

Il lavoratore aveva eccepito la mancata prova della giusta causa di licenziamento, non essendo utilizzabili, a suo avviso, a fini disciplinari i dati del Telepass, che costituirebbero controllo a distanza vietato dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.

La Corte invece, ha ribadito che l’imprenditore conserva il potere di controllo dell’adempimento della prestazione lavorativa direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo e che è conosciuta dai dipendenti, anche in presenza dell’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori. Esprimendo un orientamento diverso rispetto ad altre pronunce, la Corte ha stabilito poi che il divieto stabilito dall’articolo 4 della legge 300/1970 non è applicabile al caso specifico, perché si riferisce esclusivamente alle apparecchiature per il controllo a distanza, e di conseguenza non si può trasporre per analogia al telepedaggio. Quest’ultimo – precisa la Cassazione nell’ordinanza 17008 del 20 giugno 2024 – è un sistema radioelettronico per il pagamento automatico del pedaggio autostradale e non è quindi uno strumento di controllo a distanza vietato, ma un apparecchio che ha la finalità di controllo organizzativo interno, nota al dipendente.

L’articolo 3 dello Statuto spiega infatti che i nominativi e le mansioni del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa devono essere comunicati ai lavoratori. L’articolo 4 stabilisce invece che gli strumenti con i quali si possa anche controllare a distanza l’attività del lavoratore possono essere impiegati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio e possono essere installati solo previo accordo con le rappresentanze sindacali unitarie o con l’autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, salvo il caso in cui detti strumenti siano utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa. Da qui si comprende appunto l’attenzione della Cassazione sulla natura dello strumento: se si ritiene appunto che non sia un mezzo di controllo della prestazione, ma semplicemente un apparecchio di verifica amministrativa e organizzativa, il divieto previsto dall’articolo 4 non opera e i dati rilevati possono essere liberamente utilizzati a fini disciplinari.

Sempre in tema di controlli sui dipendenti si è espressa la Cassazione con un’altra ordinanza del 20 giugno 2024. I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa devono essere comunicati ai lavoratori interessati. Tale controllo però deve avvenire direttamente da parte dell’imprenditore o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo. In ogni altro caso, il controllo di terzi non può riguardare l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore, ma deve limitarsi agli atti illeciti dal lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale (si veda anche la sentenza della Cassazione 9167 del 2023, che cita precedenti più risalenti)

LE PRONUNCE

Telepedaggio inutilizzabile per controlli disciplinari

La legittimità dei cosiddetti difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Ne consegue che spetta al datore l’onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l’hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il predetto sospetto consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex articolo 5 della legge 604/1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento. La Cassazione ha confermato la sentenza che, nel pronunciare l’illegittimità di un licenziamento disciplinare, aveva ritenuto inutilizzabili, ai fini probatori, i dati acquisiti dalla società ricorrente attraverso l’apparecchio telepass installato sull’automezzo del lavoratore, non avendo la stessa allegato e provato che l’installazione rientrava tra i cosiddetti controlli difensivi, nei termini esposti, né le specifiche circostanze che l’avevano indotta ad attivare quel tipo controllo tecnologico.

Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 15391 del 3 giugno 2024

Informativa privacy anche per il Telepass

In relazione ai riscontri dei pedaggi autostradali forniti dal sistema di telepedaggio installato sul mezzo affidato al dipendente per svolgere la propria attività lavorativa, ai fini disciplinari, occorre che il datore di lavoro abbia rispettato la disposizione prevista dall’articolo 4, comma 3 della legge 300/1970, che impone – fra gli altri adempimenti – di informare il dipendente anche in materia di privacy. Dunque, in assenza di adeguate informazioni sulle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, risultano inutilizzabili i dati acquisiti dal datore di lavoro in seguito all’utilizzo del Telepass da parte del dipendente, con la conseguenza che non possono avere alcun rilievo, a fini disciplinari, i fatti contestati e ricavati da tali dati. Inoltre, in considerazione della portata della norma, non può sostenersi che l’informazione già fornita al lavoratore per uno degli strumenti consegnati sia sufficiente per tutti quelli ulteriori affidati allo stesso dipendente.

Corte d’appello di Ancona, sezione lavoro, sentenza 121 del 4 maggio 2021

Stop all’uso del rilevatore per ragioni non lavorative

È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che, in qualità di capo zona, abbia ripetutamente omesso i controlli di propria competenza presso i punti vendita della società e usato il telepedaggio aziendale per ragioni extralavorative. Si tratta di un comportamento lesivo del vincolo fiduciario, anche con riguardo al ruolo rivestito dal dipendente e alle modalità, autonome e non soggette a controllo, di svolgimento della prestazione lavorativa.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 10540 del 3 giugno 2020

Controlli difensivi legittimi se c’è un fondato sospetto

La legittimità dei cosiddetti controlli difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Ne consegue che spetta al datore l’onere di allegare e di provare le circostanze che l’hanno indotto al controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il sospetto citato consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione

diretta dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, sia perché incombe sul datore, ex articolo 5 della legge 604/1966, la dimostrazione degli elementi che giustificano il licenziamento.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 18168 del 26 giugno 2023

Sì alla raccolta dei dati solo dopo il fondato sospetto

In tema di sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori a opera del Dlgs 151/2015, i controlli anche tecnologici messi in atto dal datore di lavoro che siano finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali (correlate alla libertà di iniziativa economica), e il rispetto della tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore, e sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 34092 del12 novembre 2021

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Etichette, regole del Paese in cui il prodotto è venduto

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 2 Ottobre 2024 di Marina Castellaneta

Un prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro e che vende prodotti cosmetici in un altro Paese Ue è tenuto a rispettare le regole europee in materia di etichettatura, che impongono l’uso della lingua del Paese in cui il prodotto sarà venduto. Di conseguenza, il prestatore di servizi non può invocare il principio dello Stato di origine e limitarsi a rispettare le regole del Paese in cui è stabilito, anche perché, come chiarito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 19 settembre (causa C-88/23) le norme sull’etichettatura non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/31 sul commercio elettronico.

Sono stati i giudici svedesi a chiedere l’intervento della Corte Ue per un chiarimento sulla direttiva. Al centro della vicenda nazionale vi era una controversia tra una società tedesca, che attraverso il proprio sito web vendeva prodotti cosmetici per il mercato svedese, e una società del Paese scandinavo che si occupa della commercializzazione di prodotti. Quest’ultima aveva citato in giudizio l’azienda tedesca dinanzi al Tribunale della proprietà intellettuale e del commercio svedese per vietare la commercializzazione di prodotti cosmetici che non avevano l’etichetta in lingua svedese. L’azienda tedesca riteneva che tale requisito fosse contrario alla direttiva 2000/31, ma il Tribunale aveva accolto l’istanza dell’azienda svedese e vietato alla società tedesca di commercializzare i prodotti cosmetici senza l’etichetta svedese. La Corte di appello di Stoccolma, prima di pronunciarsi, ha chiamato in aiuto gli eurogiudici.

La direttiva – osserva la Corte – punta a rafforzare la libertà di fornire servizi della società di informazione facendo salva, però, la tutela della salute e dei consumatori. Nel chiarire la nozione di “ambito regolamentato” dalla direttiva, l’articolo 2 precisa che si tratta delle prescrizioni che il prestatore deve soddisfare per l’accesso all’attività e il suo comportamento, nonché la qualità o i contenuti del servizio, escludendo le merci in quanto tali, la consegna e i servizi non prestati per via elettronica. L’articolo 2 non precisa se nella nozione di ambito regolamentato possano essere incluse le prescrizioni sull’etichettatura di prodotti promossi e venduti sul sito Internet. Tuttavia, la Corte, con questa sentenza, ha chiarito che l’etichettatura è un requisito applicabile ai beni in quanto tali e, quindi, gli obblighi ad essa collegati sono esclusi dalla direttiva. Di conseguenza, il prestatore dei servizi sarà sottoposto alle regole della direttiva 2000/31 per talune questioni come i requisiti relativi alla pubblicità online e al commercio elettronico ma, per altri aspetti, come gli obblighi in materia di etichettatura, sarà vincolato da altre disposizioni del diritto dell’Unione, proprio per garantire la tutela del consumatore. Pertanto, conclude la Corte, anche ai prestatori di servizi che operano online vanno applicate le disposizioni del regolamento n. 1223/2009 sui prodotti cosmetici che impongono di fornire informazioni in una lingua comprensibile agli utilizzatori finali.

LE VENDITE SUL WEB

Il prestatore stabilito

Il prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro che vende prodotti cosmetici in un altro Paese Ue deve rispettare le regole europee sull’etichettatura, che impongono l’uso della lingua del Paese in cui il prodotto sarà venduto

Lo stato di origine

non è possibile invocare il principio dello Stato di origine e limitarsi a rispettare le regole del Paese in cui ci si stabilisce. La Corte Ue con la sentenza del 19 settembre (causa C-88/23) ha, infatti, chiarito che le norme sull’etichettatura non rientrano nel raggio d’azione della direttiva 2000/31 sul commercio elettronico.

 

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Cessione di opere d’arte al test dell’intento speculativo

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 3 Ottobre 2024 di Antonio Fiorentino Martino Paolo Scarion

La Cassazione è tornata sulla tassazione dei collezionisti di opere d’arte con una sentenza (19363/2024) relativa alla cessione di un Monet, effettuata da un privato a distanza di sette anni dall’acquisto. La plusvalenza generata, oltre cinque milioni, era stata qualificata dalle Entrate come reddito derivante da attività commerciale occasionale, dunque imponibile ai fini Irpef ex articolo 67, comma 1, lettera i), del Tuir. Dalle sentenze di merito emerge che il contribuente si era difeso sostenendo di essere un «mero collezionista privato», e di avere ceduto l’opera con l’intendimento di acquistarne poi un’altra; tuttavia, mentre le sue doglianze erano state accolte in primo grado, i giudici di appello avevano condiviso l’opposta prospettazione delle Entrate.

La Cassazione si è posta nel solco dell’orientamento inaugurato con l’ordinanza 6874/2023. Richiamando la tripartizione ivi introdotta – e ribadita nelle ordinanze 1603 e 1610/2024 –, i giudici di legittimità hanno distinto ancora una volta tra 1) mercante d’arte, 2) collezionista «puro», e 3) collezionista «speculatore occasionale»; quest’ultimo acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle «allo scopo di conseguire un utile» (e dunque agisce con intento speculativo), realizzando redditi riconducibili all’articolo 67, comma 1, lettera i).

Non si tratta di un principio nuovo: già la risposta all’interrogazione parlamentare 5-01718 del 21 marzo 2019 era giunta ad un’analoga conclusione; tuttavia, la sentenza Monet permette di meglio comprendere i presupposti della tassazione. La Cassazione ha ritenuto sussistente l’intento speculativo perché il collezionista aveva incaricato della vendita una casa d’aste, aveva in passato concesso l’opera in esposizione a musei, attività che tradirebbe la volontà di “valorizzarla” in vista della vendita, massimizzando il profitto, aveva realizzato una plusvalenza di ammontare molto elevato, infine aveva compiuto operazioni similari «in periodi antecedenti e successivi» (nonostante l’alienazione dell’opera fosse stata l’unica vendita effettuata nell’annualità accertata).

Le considerazioni della Corte possono in effetti prestarsi a talune obiezioni: ad esempio, l’intermediazione di una casa d’aste, anziché sottintendere un intento speculativo, può essere giustificata dalla mera esigenza di rivolgersi a un operatore esperto e qualificato per la gestione della compravendita. Né appare di per sé significativa l’esposizione dell’opera in mostre o musei.Peraltro, la ricerca delle reali intenzioni del collezionista, siccome non può di certo tradursi in un’indagine di natura psicologica, postula inevitabilmente che l’accertamento sia fondato – come riconosce la sentenza Monet – su presunzioni semplici; ed esse, pur dovendo essere gravi, precise e concordanti, restano sempre liberamente apprezzabili dal giudice. L’analisi in questione, dunque, va svolta caso per caso: ciò genera un contesto caratterizzato da forte incertezza e aleatorietà, tanto più pericoloso se si considera che, al superamento di determinate soglie, gli illeciti fiscali possono anche integrare un reato .

Non può, quindi, più attendere l’attuazione della delega per la riforma fiscale (legge 111/2023. Il nuovo paradigma normativo – per come emerge dal testo della delega (articolo 5, comma 1, lettera h, n. 3) e dalla relazione illustrativa – si discosta dalla complicatissima indagine dell’elemento soggettivo in capo al cedente, ed è invece incentrato su parametri oggettivi: vengono, infatti, predeterminate per legge le fattispecie «in cui è assente l’intento speculativo», e nelle quali, dunque, la plusvalenza non è mai imponibile. Si tratta a) della vendita di beni acquisiti per successione o donazione, oppure b) della permuta di opere, o ancora c) della cessione la cui plusvalenza venga reinvestita entro un certo termine per acquistare nuovi oggetti d’arte (che era proprio quanto aveva sostenuto il contribuente della vicenda Monet nelle proprie difese). In tutte le predette ipotesi l’assenza di una finalità lucrativa, e l’esclusione da tassazione, vengono stabilite per presunzione legale. Nella riforma non sembra, invece, esservi spazio per l’introduzione di un holding period, superato il quale la cessione divenga non imponibile.

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Pensionati frontalieri: sentenza favorevole al ricorso, la rendita si tassa solo a San Marino

11 Ottobre 2024

Dalla Redazione di San Marino RTV 2 Ottobre 2024

Csir: “Soddisfatti per una prima vittoria, altrimenti rischio accanimento verso nonni di famiglia”

Una prima vittoria del Comitato sindacale interregionale sulla questione della doppia tassazione delle pensioni degli ex lavoratori frontalieri residenti in Italia. È la sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado a segnare la svolta. Un punto di chiarezza che si aspettava da tempo e che stabilisce che le rendite sono tassabili solo a San Marino e non anche Italia.

È questo l’esito dei ricorsi, per i quali arriva una prima risposta. In ultima istanza, il procedimento potrebbe arrivare alla Corte di Cassazione, affinché si esprima in via definitiva per i “casi” sammarinesi.

“Stiamo parlando di soggetti che hanno una certa età e sono padri e nonni di famiglia e si trovano queste cartelle esattoriali e non sanno come comportarsi. Se non è accanimento, questo allora cosa è?” si chiede Daniele Tomasetti, presidente CSIR.  Intanto si attende l’esito di altri 3 ricorsi ma si stima che siamo circa 40 le persone che hanno ricevuto la cartella che contesta i redditi dal 2019 in poi nonostante la Convenzione bilaterale sulle doppie imposizioni che – secondo lo CSIR – servirebbe proprio a “evitare questa dinamica”.

Un clima di incertezza che genera effetti negativi. “Alla luce tutta questa querelle che si è generata intorno ai redditi da pensione noi riceviamo molte segnalazioni e molti lavoratori qualificati di cui il sistema ha bisogno che scelgono di non venire a San Marino proprio per questo motivo”.

Dallo Csir arriva anche un appello alle istituzioni sammarinesi ed italiane affinchè non si strumentalizzi la questione e si risolva invece con un confronto definitivo.

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Stop alle consulenze giuridiche per società o enti stabiliti in Russia

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 3 Ottobre 2024 di Marina Castellaneta

Le misure restrittive nei confronti della Russia e di persone giuridiche stabilite in quel Paese travolgono anche i servizi di consulenza giuridica, se non collegati a un procedimento giudiziario. Di conseguenza, gli avvocati o altri professionisti che svolgono attività di consulenza non possono continuare quest’attività a vantaggio della Russia o di persone giuridiche ed enti stabiliti in Russia.

Lo ha affermato il Tribunale Ue con la sentenza depositata ieri (T-797/22) con la quale è stato respinto il ricorso di alcuni Ordini professionali di Bruxelles e di Parigi che avevano chiesto l’annullamento del Regolamento Ue 2022/1904 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (nonché del regolamento 2023/427) che, tra le altre misure, vieta i servizi di consulenza giuridica. Alcuni Ordini professionali sostenevano che l’inclusione del divieto della consulenza giuridica violava alcuni diritti fondamentali e, in particolare, l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che assicura il diritto a un ricorso effettivo. Per i ricorrenti il divieto di fornire servizi avrebbe compromesso il diritto di difesa e di agire in giudizio che deve essere assicurato a ogni persona fisica e giuridica. Il Tribunale Ue ha respinto il ricorso affermando una nozione più ristretta del diritto di avere accesso a un avvocato e di beneficiare della sua consulenza. Per gli eurogiudici, infatti, l’articolo 47 della Carta deve essere riconosciuto «solo se esiste un collegamento con un procedimento giurisdizionale», indipendentemente dal fatto che il procedimento sia stato già avviato o che possa essere anticipato, «nella fase di valutazione, da parte dell’avvocato». L’attività di consulenza, in materia non contenziosa, nei casi in cui si sia in un «contesto privo di un collegamento con un procedimento giurisdizionale», è così al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto a un ricorso effettivo. Inoltre, per il Tribunale, le misure restrittive imposte dall’Unione non hanno violato il principio di proporzionalità: gli obiettivi stabiliti dai regolamenti ossia la protezione dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina sono fondamentali per la sicurezza internazionale e sono conformi – scrive il Tribunale – agli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione, ammissibili anche se vi sono alcune conseguenze negative per gli operatori. Il divieto di consulenza giuridica – proseguono i giudici – è limitato perché circoscritto unicamente ai servizi giuridici forniti al governo russo o a persone giuridiche, entità ed organismi stabiliti in Russia e non nei confronti di persone fisiche. Il Tribunale ha escluso, inoltre, una violazione del principio dell’indipendenza dell’avvocato anche perché gli ordini professionali ricorrenti non hanno dimost+rato la violazione del principio e perché, in ogni caso, l’eventuale ingerenza nell’indipendenza degli avvocati «sarebbe giustificata e proporzionata».

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Neo residenti, la sfida è attrarre nuovi investitori

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 21 Settembre 2024 di Carlo Angelo Pittatore

La normativa sui neo residenti ha lo scopo di attrarre cittadini benestanti residenti all’estero dai quali in ogni caso non saremmo in grado, nè avremmo motivo, di avere alcun incasso tributario in quanto i redditi sono prodotti al di fuori dell’Italia. La copertura fiscale riguarda esclusivamente redditi e patrimoni esteri e fino allo scorso 10 agosto permetteva al fisco italiano di incassare forfettariamente 100 mila euro all’anno, ora raddoppiata a 200 mila euro. La flat tax ha il suo principale effetto sui redditi finanziari prodotti all’estero, in quanto i redditi generati da immobili in assenza della flat tax godono usualmente di normative/trattati che evitano la doppia imposizione e quelli prodotti da lavoro al di fuori dall’Italia sono incoerenti con il cambio di residenza e soggetti a tassazione nel paese in cui sono generati. La flat tax evita la tassazione sui patrimoni finanziari esteri (Ivafe) e sugli immobili detenuti all’estero (Ivie). Il vantaggio per l’Italia oltre ai nuovi incassi fiscali è attrarre residenti ad elevato tenore di vita che consumeranno beni e servizi. La scelta dell’Italia per i nuovi residenti è motivata dalla qualità di vita superiore ad altri paesi a parità di efficacia fiscale: consumatori d’eccellenza attratti dai settori in cui ci distinguiamo quali turismo, enogastronomia, cultura, lusso, moda. La misura ha avuto successo in termini numerici e talvolta si è trasformata in investimenti in immobili di pregio in Italia. I valori immobiliari delle nostre città sono appetibili rispetto ad altre di analoghe dimensioni all’estero e abbiamo constatato acquisti per valori importanti. Le conseguenze per la nostra economia di questi investimenti sono imposte pagate (ipotecarie, catastali e registro), lavori di ristrutturazione e spesa negli ambiti in cui l’offerta italiana primeggia, dando molte occasioni di lavoro. Tuttavia la normativa, limitando forfettariamente la tassazione sui beni e redditi rimasti all’estero, non incide sul come spingerli a trasferire il loro patrimonio e ad investire in Italia.

Che patrimonio minimo possiamo immaginare perché fosse conveniente pagare 100 mila euro di flat tax? Per esempio un residente a Londra o Parigi che intenda risiedere in Italia, e sia proprietario di una casa del valore di tre milioni di euro, risparmierebbe 30 mila euro (Ivie), e avrebbe un break even di 70 mila euro per i redditi finanziari. Immaginando un rendimento costante del 5%, e l’attuale aliquota del 26%, il patrimonio di break even tra flat tax e tassazione ordinaria Italiana sarebbe 5,384 milioni. Gli otto e passa milioni ipotizzati erano lo zoccolo minimo per recuperare il pagamento della flat tax. Il raddoppio della tassazione richiede quindi un patrimonio estero, tra finanziario e immobiliare, superiore ai 16 milioni.

La dimensione dei patrimoni non ha una distribuzione lineare, bensi piramidale, più cresce il patrimonio più che proporzionalmente diminuiscono le teste. Aumentando la flat tax si perde una fascia di cittadini assai più numerosa rispetto a chi ha patrimoni superiori ai 16 milioni. Il raddoppio della tassazione probabilmente più che dimezzerà i flussi senza incrementare gli incassi per l’erario, ma con un crollo del nuovo consumo in Italia. Avremmo la metà di nuove persone nei ristoranti, nelle vie dello shopping, nel turismo di lusso, la metà di case di lusso affittate e comprate, la metà di auto di acquistate.

Immaginiamo soluzioni coerenti agli obiettivi di maggiori imposte e di maggiore ricchezza per l’Italia in alternativa al raddoppio della tassa. Per esempio utilizzare i 100 mila euro aggiuntivi come credito di imposta per coprire imposte generate dalla presenza in Italia: da investimenti immobiliari, con scomputo dell’Imu e delle cedolari secche pagate, da redditi finanziari sugli investimenti detenuti in Italia piuttosto che il bollo. Oppure ispiriamoci ai meccanismi di obbligo di investimento utilizzati per concedere l’investor visa a cittadini extra Ue. Si potrebbe esentare dal raddoppio chi compri un certo ammontare di titoli italiani: azioni, partecipazioni, obbligazioni o titoli di stato.

Una manovra che mira al raddoppio della cassa, improbabile in quanto riduce il target potenziale non è logica, meglio incentivare investimenti facoltosi in Italia. Finora abbiamo attratto nuovi residenti ad alto reddito per i loro consumi ma non li abbiamo incentivati ad investire, anzi li abbiamo penalizzati nel caso decidano di trasferire le loro finanze. Raddoppiando l’imposizione mettiamo solo un freno a nuovi arrivi.

Vice presidente Finnat Fiduciaria

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La cancellazione della società equivale alla morte del reo: estinto l’illecito

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 16 Settembre 2024 di Sandro Guerra

La cancellazione di una società dal Registro delle imprese è equiparabile alla morte del reo ed estingue l’illecito. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 25648, depositata il 1° luglio 2024 che è tornata ad occuparsi di un tema su cui la giurisprudenza si è divisa. Negli ultimi tempi si stava consolidando l’orientamento negativo che ora però questa pronuncia rimette in discussione, acuendo un contrasto che molto probabilmente richiederà l’intervento delle Sezioni unite.

Non si tratta infatti solo di una questione di principio perché l’equiparazione alla morte dell’imputato comporta l’estinzione dell’illecito e quindi l’improcedibilità dell’azione nei confronti dell’ente non più esistente.

Il sì all’equiparazione

Secondo la sentenza n. 25648 le formalità della cancellazione dal registro delle imprese comportano il venir meno della persona giuridica, con l’inevitabile conclusione che le si estendano le norme previste per l’imputato dal Codice di procedura penale, ai sensi dell’articolo 35 Dlgs 231/2001 («All’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili»), con conseguente impraticabilità di quelle sanzioni relative e connesse alla sua attività.

Questo perché con la riforma delle società di capitali e cooperativa attuata dal Dlgs 17 gennaio 2003, n. 6, la cancellazione ha assunto effetti costitutivi dell’estinzione irreversibile della società (articolo 2495, secondo comma, del Codice civile), anche in presenza di debiti rimasti insoddisfatti e rapporti non definiti.

La pronuncia ribadisce quindi le conclusioni cui era già approdata una parte della giurisprudenza di legittimità, sia pure con la precisazione che è solo l’estinzione fisiologica e non fraudolenta dell’ente che darebbe luogo ad un evento assimilabile a quello della morte dell’imputato (Cassazione penale, Sezione II, 7 ottobre 2019, n. 41082; Cassazione penale, Sezione V, 5 luglio 2021, n. 25492).

Il no all’equiparazione

In decisioni pù recenti, la questione era stata però risolta in termini diversi, sia in Cassazione che in Tribunale. Nel 2022 la Cassazione (in dichiarato dissenso rispetto alla sentenza 41082/2019) ha sostenuto che «le cause estintive dei reati sono notoriamente un numerus clausus, non estensibile», tanto più che quando il legislatore della responsabilità delle persone giuridiche ha inteso riferirsi a cause estintive degli illeciti «lo ha fatto espressamente», come all’articolo 8, secondo comma, Dlgs 231/2001 «allorché ha disciplinato l’amnistia», o all’articolo 67, «ove ha previsto l’adozione di sentenza di non doversi procedere in soli due casi: quando il reato dal quale dipende l’illecito amministrativo è prescritto; e quando la sanzione è estinta per prescrizione» (Cassazione penale, IV Sezione, 17 marzo 2022, n. 9006).

In una seconda e più recente sentenza, la Corte ha poi osservato che «la cancellazione potrebbe costituire un c ommodus discessus per sottrarsi alle conseguenze di una pronuncia giudiziaria» e, se è vero che essa potrebbe «certamente porre un problema di soddisfacimento del relativo credito», non vi sarebbe invece «un problema di accertamento della responsabilità dell’ente per fatti anteriori, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere elisa per effetto della cancellazione dell’ente stesso» (Cassazione penale, II Sezione, 14 settembre 2023, n. 37655). Un solco, quest’ultimo, già tracciato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con la sentenza 2993 del 15 novembre 2022 (si veda Il Sole 24 Ore del 2 gennaio 2023), secondo la quale l’esigenza «di impedire che successive iniziative dei soggetti interessati sortiscano l’effetto di paralizzare la risposta dell’ordinamento all’illecito dell’ente» condurrebbe a ritenere irrilevante la cancellazione, in vista di «una fase esecutiva inevitabilmente fondata sulla fictio iuris della persistenza in vita del soggetto giuridico», ossia fingendo che l’ente sia ancora esistente.

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