Franchigia a 10mila euro per i frontalieri

11 Settembre 2023

Si fa presente che, la Legge 13 Giugno 2023, n. 83 della Repubblica Italiana ha aumentato, a decorrere dal  1° gennaio 2024, la franchigia applicabile ai lavoratori frontalieri dagli attuali € 7.500,00  (Legge 27 dicembre 2013 nr 147) a € 10.000,00.

Come specificato poi  dalla Circolare 25/E del 18 08 2023 dell’Agenzia delle Entrate al punto 2.4.4 “ (…) Tale innalzamento della franchigia trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori frontalieri, non solo quindi quelli che prestano l’attività lavorativa nelle zone di frontiera in Svizzera”.

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Iva, la breve sosta tecnica dei beni non modifica il regime della vendita

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 24 luglio 2023 di Giampaolo Giuliani

La risposta 365 sull’import da San Marino è estensibile agli scambi con altri Paesi

È ammesso il doppio documento di trasporto per motivi organizzativi

Con la risposta all’interpello 356 del 20 giugno 2023, l’agenzia delle Entrate ha affrontato il tema delle soste tecniche presso gli spedizionieri. Nel caso esaminato i beni sono importati da San Marino, ma questa particolarità non esclude che le importanti puntualizzazioni fornite nella risposta abbiano una valenza di carattere generale, il cui utilizzo può essere esteso anche agli scambi con altri Paesi Ue o alle operazioni interne al territorio dello Stato.

In sintesi, l’interpello è stato proposto da una società sammarinese, che per le vendite alla clientela italiana si avvale di spedizionieri con propri depositi in Italia. Secondo quanto indicato nell’istanza, ogni collo inviato al deposito in Italia sarebbe scortato da apposito documento di trasporto predisposto dalla società sammarinese e da cui risulterebbe il nominativo del cessionario.

Normalmente, i colli di un singolo cliente risultano accorpati in un unico pallet. Tuttavia, potrebbe accadere che i colli di un cliente siano trasportati dalla società nella sede dello spedizioniere anche in più pallet, insieme ai colli di altri clienti: in queste ipotesi lo spedizioniere, per evidenti motivi di razionalità ed economicità, smonterebbe e riassemblerebbe i pallet per consentire un trasporto unico di tutti i prodotti acquistati da un singolo cliente. In ogni caso i colli sosterebbero presso la sede dello spedizioniere solo per il tempo necessario per riassemblare i pallet e organizzare i trasporti.

Soste e documenti

In questo contesto la società sammarinese si è interrogata per sapere se le vendite devono essere considerate delle cessioni dirette da San Marino, oppure se devono essere considerate delle importazioni in Italia da parte della stessa società che determinano delle successive vendite interne. Inoltre, la società si è posta il problema della compilazione dei documenti di trasporto.

Per quanto riguarda il primo quesito, nell’interpello 356 l’agenzia delle Entrate evidenzia come sia di fondamentale importanza che il perfezionamento della vendita ad acquirenti italiani avvenga quando i beni sono ancora fisicamente in territorio sammarinese.

Infatti, nel caso si verifichi questa situazione, l’amministrazione finanziaria afferma che «la sosta dei beni nella sede dello spedizioniere, per il tempo necessario ad organizzare il trasporto, non interrompe l’originaria operazione di vendita già posta in essere (rispetto alle quali, per stessa ammissione dell’istante, “sono noti tutti i dati dell’operazione quali l’identità dell’acquirente e quantità e qualità dei prodotti acquistati”)».

Non solo, l’agenzia delle Entrate si sofferma anche sul tema della brevità delle soste tecniche, richiamando a questo scopo la datata (ma sempre valida) circolare n. 15 del 19 marzo 1980, relativa all’impiego delle bolle di accompagnamento.

L’Agenzia ricorda come «la sosta di beni presso vettori o spedizionieri ai fini del raggruppamento o smistamento dei beni stessi per la prosecuzione del loro trasporto verso il destinatario indicato nella bolla di accompagnamento non fa venir meno la validità del documento regolarmente emesso dal mittente, a condizione che la sosta sia limitata al tempo strettamente necessario per le suddette operazioni e che nella sosta non sia configurabile l’esecuzione di un distinto rapporto di deposito».

Laddove si verificassero queste condizioni, a parere delle Entrate nulla osta che le operazioni di vendita in Italia, realizzate dalla società sammarinese, siano considerate delle vendite dirette: pertanto, la circostanza che per motivi organizzativi siano utilizzati due documenti di trasporto, anziché uno, è irrilevante.

Trattandosi di acquisti presso operatori sammarinesi, merita di essere rilevato quanto indicato dall’interpellante in tema di eseguibilità dell’operazione, ma stranamente non ripreso dall’agenzia delle Entrate nella risposta. Secondo quando disposto dal comma 5, articolo 1, del decreto del 21 giugno 2021, che regola i rapporti di interscambio tra Italia e San Marino, le cessioni si considerano effettuate soltanto alla partenza della merce o dei beni da San Marino e non quando viene importato il bene nel territorio dello Stato.

Se i tempi si allungano l’operazione si «spezza» e viene gestita in due fasi

All’importazione o acquisto intracomunitario segue una cessione interna

L’interpello 356 del 20 giugno 2023 dà un utile spunto per ricordare quando le soste tecniche non sono riconosciute tali: ad esempio, perché i beni consegnati allo spedizioniere non sono già stati venduti, oppure non si è ancora perfezionato il contratto di cessione o, ancora, i termini di giacenza sono tali da ravvisare un contratto di deposito presso lo spedizioniere.

In queste situazioni, se si tratta di beni importati da San Marino o da altri Paesi terzi, oppure acquistati da altri Paesi membri Ue, è necessario che il cedente nomini un proprio rappresentante fiscale, oppure si identifichi in Italia, nel caso in cui sia operatore di altri Stati membri Ue.

Di fatto, la vendita non è più diretta, ma viene virtualmente “spezzata”, e di conseguenza l’operazione ai fini Iva non è più unica, ma viene gestita distinguendo due fasi. Nella prima fase viene realizzata un’importazione o un acquisto intracomunitario da parte del cedente; nella seconda viene realizzata una cessione interna. Ovviamente, in base alle situazioni e ai soggetti coinvolti, ci saranno adempimenti con differenze anche rilevanti.

I diversi obblighi

In generale, è previsto che nelle importazioni da San Marino il rappresentante fiscale della società sammarinese debba assolvere l’imposta sul valore aggiunto in Italia limitandosi ad attribuire una doppia numerazione alla fattura ricevuta connessa all’annotazione nel registro delle fatture emesse e degli acquisti. Infatti, poiché il rappresentante fiscale non è un soggetto stabilito, ma solo identificato, non è tenuto all’adempimento dell’esterometro. Ciò vale anche per gli acquisti intracomunitari che procedono la successiva vendita interna; tuttavia, in questo caso potrebbe essere necessario predisporre il modello Intra.

Per le importazioni, invece, il rappresentante fiscale provvede ad assolvere i dazi e l’Iva in dogana e in seguito ad annotare il documento doganale nel registro degli acquisti: adempimento che consente di detrarre l’imposta indicata nel documento. Nella successiva cessione, in base a quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 17 del Dpr 633/1972, il rappresentante fiscale non interviene sempre, ma solo nel caso in cui il cliente sia un privato o sia un soggetto passivo ad esso assimilato non stabilito in Italia.

Al contrario, se l’acquirente è un operatore economico stabilito in Italia, è quest’ultimo che deve assolvere l’imposta mediante il meccanismo dell’inversione contabile.

Vale la pena ricordare come, trattandosi di un’operazione interna realizzata da operatori esteri in veste di cedenti, l’acquirente deve attendere la fattura dal cedente se è comunitario: mentre deve emetttere autofattura negli altri casi. Ciò vale anche per le cessioni da parte di operatori sammarinesi.

GLI ESEMPI

Un operatore Ue riceve un acconto per beni che verranno consegnati al proprio cliente italiano previa una breve sosta tecnica in Italia presso lo spedizioniere.

L’operazione costituisce una cessione diretta, quindi per il cliente italiano è un acquisto intracomunitario: gli acconti rilevano ai fini Iva solo se il cedente operatore Ue ha emesso una fattura. Si tratta di una possibilità, come previsto dall’articolo 39 del Dl 331/93, che non impone alcun obbligo di emettere la fattura per le somme ricevute a titolo di anticipati pagamenti.

Nel caso la fattura sia emessa, l’acquirente dovrà assolvere l’imposta con il meccanismo dell’inversione contabile.

Un operatore sammarinese riceve un acconto per la vendita di un bene che viene consegnato al cliente italiano da un deposito in Italia.

Trattandosi di un’operazione interna, l’acquirente deve assolvere l’imposta mediante autofattura e doppia registrazione, diversamente da quanto accadrebbe per una cessione diretta di beni provenienti da San Marino, dove gli acconti non rilevano, in quanto il presupposto impositivo sorge solo quando il bene viene importato

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«Prestare» i conti correnti non è concorso ma riciclaggio

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore 18 luglio 2023 di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco

Per la Corte il money mule agevola l’occultamento del profitto già conseguito

Tempi duri per i money mule (i «muli del denaro»): per la Seconda sezione penale della Cassazione integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, senza aver concorso nel delitto presupposto, metta a disposizione il proprio conto corrente per ostacolare l’identificazione della provenienza del denaro provento del reato di frode informatica, consentendone il trasferimento tramite bonifici bancari.

Il fenomeno del money muling, ancora oggi soprattutto per le frodi informatiche e con le nuove tecnologie, è uno dei metodi più utilizzati dai riciclatori e consiste nel reclutare soggetti più o meno consapevoli che mettono a disposizione i conti a fronte una retrocessione percentuale per far transitare somme anche piccole e ostacolarne la tracciabilità. La Cassazione con la sentenza 29346/23 del 6 giugno scorso ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati, cui il Gip di Torino aveva applicato la pena patteggiata per riciclaggio. Gli imputati avevano eccepito l’erronea qualificazione del fatto, osservando che la condotta ascritta consisteva nell’aver messo a disposizione il proprio conto corrente per farvi confluire il denaro proveniente da una truffa informatica. Tale condotta sarebbe elemento costitutivo della frode informatica, in quanto strumentale al conseguimento dell’ingiusto profitto e non invece autonoma condotta di riciclaggio, così come sostenuto dal Gip. Di qui l’eccezione di mancata riqualificazione del fatto come frode informatica. Per l’articolo 640-ter c.p. commette il reato chi, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Nel caso di specie, la truffa era stata perpetrata con il sistema del man in the middle. È una tipologia di attacco con cui l’hacker si frappone tra due soggetti (per lo più di un rapporto commerciale), assumendo l’identità di uno per indurre l’altro a dare informazioni riservate o a farsi versare denaro. Le modalità di realizzazione sono alla base dell’analisi della Corte che si sofferma su un dato non contestato: gli autori della frode informatica avevano già conseguito il profitto con la percezione fraudolenta delle somme di denaro corrisposte dalle vittime. L’azione delittuosa dei ricorrenti era, invece, consistita nel mettere a disposizione il proprio conto corrente senza concorrere in alcun modo nella truffa.Quindi, ad avviso della Corte, è riciclaggio, che (articolo 648 bis del codice) ha ambito applicativo circoscritto alle ipotesi di mancato concorso nel reato presupposto. La clausola di riserva, contenuta nella norma esclude, infatti, dal novero dei soggetti attivi il concorrente nel reato presupposto, la cui condotta, intesa ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, costituisce un post factum non punibile. In altri termini, presupposto del riciclaggio è la precedente commissione di un altro reato, risultante dagli atti del processo, il cui compimento si sia esaurito nel momento di inizio della condotta di riciclaggio.

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Casa in Italia e niente iscrizione Aire: resta possibile la residenza all’estero

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 17 luglio 2023 di Nicola Borzomì e Fabrizio Cancelliere

La Cgt Treviso applica i criteri della Convenzione Ocse per risolvere i casi dubbi

L’abitazione permanente è oltreconfine dove lavora e ha famiglia il contribuente

Non può essere considerata fiscalmente residente in Italia la persona fisica che nello Stato estero dispone di una «abitazione permanente», di un permesso di soggiorno, svolge lì la propria attività lavorativa documentata dalle certificazioni fiscali rilasciate dai datori di lavoro, da cui risulta la tassazione nel Paese estero dei compensi percepiti e il relativo pagamento dei contributi previdenziali. Ancora, costituiscono elementi a favore del contribuente il fatto che lo stesso abbia nel Paese estero il centro degli interessi vitali (coniuge avente nazionalità dello Stato estero, figlia nata e frequentante le scuole dell’obbligo nel Paese estero). Di contro, non rileva la circostanza che la persona fisica abbia disponibilità di una abitazione in Italia (“casa avita”) utilizzata durante le brevi permanenze in Italia, né il fatto che lo stesso non sia iscritto all’Aire.

Sono questi gli elementi fattuali valorizzati dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Treviso con la sentenza n. 44/2/2023, depositata in data 1° febbraio 2023 (presidente Cicero, relatore Celotto).

La questione riguardava, appunto, il caso di una persona fisica ritenuta dall’agenzia delle Entrate fiscalmente residente in Italia sulla base del fatto che lo stesso, da un lato, risultava iscritto nelle liste anagrafiche di un Comune italiano, né, dall’altro, fosse iscritto all’Aire.

Il controllo traeva origine delle comunicazioni acquisite nell’ambito della cooperazione amministrativa nel settore fiscale, prevista dalla direttiva 2011/16/Ue del Consiglio del 15 febbraio 2011.

La Corte di giustizia, nel valorizzare gli elementi di fatto prodotti dal contribuente, risolve la controversia sulla base di quanto previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e (nel caso in esame) la Romania, la quale, conformemente a quanto previsto dall’articolo 4 del modello di Convenzione Ocse (tie breaker rules),dispone che:

1 in caso di conflitto tra Stati circa la residenza fiscale di una persona fisica il potere impositivo spetti preliminarmente allo Stato ove il soggetto abbia una abitazione permanente;

2 oppure a quello in cui abbia il proprio centro di interessi vitali;

3 e ancora, in subordine, a quello in cui esso abbia una dimora abituale;

4 come ultimo criterio (fourth rule), il modello Ocse individua la nazionalità.

5 Infine, qualora nessuno dei predetti criteri possa trovare concreta applicazione, la norma rinvia alla procedura amichevole tra gli Stati coinvolti.

La decisione si pone in continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cassazione 18009/2022) ed è conforme alla normativa interna (articolo 117, Costituzione e articolo 75, Dpr 600/73) che stabilisce, appunto, la prevalenza della disciplina convenzionale sulla normativa interna (in tal senso, Cassazione 14240 e 15207/2021).

Si ricorda, infine, che nel disegno di legge delega fiscale è prevista – all’articolo 3) lettera c) – una revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche, delle società e degli enti diversi dalle società, al fine di renderla coerente con la migliore prassi internazionale e con le convenzioni sottoscritte dall’Italia per evitare le doppie imposizioni.

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False fatture, concorso dei membri del cda solo se hanno avuto conoscenza del reato

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore 19 luglio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per la responsabilità dei manager mutuato l’indirizzo sulla bancarotta

Necessario provare anche la volontà di non attivarsi per scongiurare l’evento

La decisione.  Escluso l’automatismo

I membri del cda che non hanno sottoscritto la dichiarazione fraudolenta con false fatture, rispondono in concorso del reato con l’amministratore che l’ha firmata, solo se hanno avuto conoscenza dell’illecito e non si siano attivati per impedire l’indicazione dei falsi documenti o la sua presentazione. È questo, in sintesi, l’interessante principio che emerge dalla sentenza n.31017 della Corte di cassazione (sezione III penale) depositata ieri.

La pronuncia concerne una casistica molto diffusa (praticamente tutti i casi di dichiarazioni fraudolente ascrivibili a società dotate di consiglio di amministrazione) ma che registra rarissime sentenze di legittimità.

A una srl veniva contestato l’utilizzo in dichiarazione di fatture soggettivamente inesistenti. Nel procedimento penale venivano coinvolti per violazione dell’articolo 2 del Dlgs 74/2000, non solo l’amministratore che aveva sottoscritto la dichiarazione, ma anche gli altri due membri del cda dotati di poteri sociali disgiunti differenti.

Dopo la condanna nei gradi di merito, i due amministratori ricorrevano in Cassazione lamentando, tra l’altro, che la sentenza di condanna si era limitata a valorizzare solo il dato della loro carica, senza valutare la loro estraneità rispetto alle vicende e quindi alla sottoscrizione della dichiarazione.

La Suprema Corte, dopo aver rilevato la presenza di un solo precedente specifico in tema di reati tributari, ha ritenuto di mutuare l’orientamento (consolidato) espresso con riferimento ai reati di bancarotta. In sostanza, la responsabilità degli amministratori, privi di delega, per omesso impedimento dell’evento, è configurabile ove sia provata:

l’effettiva conoscenza dei fatti pregiudizievoli o quanto meno di segnali di allarme;

la volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento.

Di conseguenza, anche ai fini penali tributari, gli amministratori di una società, che non abbiano sottoscritto una dichiarazione fiscale fraudolenta, avendovi provveduto il consigliere all’uopo delegato, concorrono nel reato solo ove siano stati a conoscenza dell’inserimento di tali documenti mendaci in contabilità e, ciononostante, non si siano attivati per impedire la loro indicazione in dichiarazione o la presentazione della stessa.

Per la sussistenza di tali circostanze non è sufficiente evidenziare, genericamente, il coinvolgimento degli amministratori nelle scelte gestionali, o ancora l’entità delle operazioni (nella specie circa il 10% del volume di affari), soprattutto in un’ipotesi, come quella al vaglio dei giudici, di fatture soggettivamente inesistenti e quindi di operazioni effettivamente avvenute. Sarebbero stati necessari in altre parole elementi idonei a provare il coinvolgimento degli amministratori che non avevano sottoscritto la dichiarazione.

Appare evidente dalla sentenza che vada escluso «in automatico» il concorso dei membri del cda nei reati dichiarativi, e, soprattutto la necessità di prove della loro consapevolezza dell’illecito che, volontariamente, hanno deciso di non impedire.

Si ritiene che tali circostanze debbano essere poi valutate rispetto al caso concreto. Ad esempio, la conoscenza degli amministratori di «segnali di allarme» in presenza di fatture oggettivamente inesistenti per importi rilevanti (che presuppongono presso l’azienda magazzini, trasporti, personale, che magari non esistono) è ovviamente più agevole rispetto ad acquisti soggettivamente inesistenti, in cui difficilmente l’amministratore ha consapevolezza della non coincidenza tra l’emittente il documento fiscale e il reale cedente dei beni. In via generale, poi, l’effettiva e seria adozione del sistema preventivo (ex Dlgs 231/2001) potrebbe rappresentare un importante strumento difensivo per evidenziare la volontà degli amministratori di prevenire qualsivoglia forma di illecito.

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Geolocalizzazione dei lavoratori: si può ma il nodo è la privacy

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore 31 luglio 2023 di Marisa Marraffino

PRIVACY E COMPLIANCE

i paletti. Ok ai Gps su veicoli in uso ai dipendenti se c’è intesa tra azienda e sindacati o l’autorizzazione dall’Ispettorato del lavoro. Tutele da garantire

Sono da poco stato assunto in un’azienda che mi ha messo a disposizione un’automobile sia per gli spostamenti di lavoro che per quelli personali. Sull’auto è installato un Gps, mi chiedo se il datore di lavoro possa vedere e quindi monitorare anche i miei viaggi privati.

I Gps installati sui veicoli in uso ai lavoratori sono legittimi se l’azienda ha stipulato il relativo accordo sindacale o ha ricevuto l’autorizzazione dall’ispettorato del lavoro. Fanno eccezione i casi in cui gli strumenti di geolocalizzazione servono a consentire la concreta ed effettiva attuazione della prestazione lavorativa ovvero l’installazione sia richiesta da specifiche normative di carattere legislativo o regolamentare, per esempio nei casi di Gps presenti sugli autobus di linea nonché sui portavalori di importo superiore a 1.500.000 euro. I dati estrapolati possono poi anche essere utilizzati per eventuali contestazioni disciplinari. Lo prevede l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori così come modificato dal Dlgs 151/2015, (Jobs Act). In genere la geolocalizzazione è lecita se effettuata per esigenze produttive, assicurative, di sicurezza e per la tutela del patrimonio aziendale ma a determinate condizioni. Ad esempio il lavoratore deve essere informato della presenza del Gps e deve poterlo spegnere nelle pause.

Se l’auto aziendale è a uso promiscuo ovvero utilizzata anche per finalità personali, il lavoratore deve poter disabilitare la geolocalizzazione negli orari extralavorativi. Il datore di lavoro, infatti, deve rispettare anche la normativa sulla protezione dei dati personali, Dlgs 196/2003 così come aggiornato dal Dlgs 101/2018 a seguito del Gdpr. I dati di tracciamento devono essere utilizzati per il tempo strettamente necessario e possono essere trattati soltanto dai soggetti espressamente autorizzati per le finalità precisate nell’informativa privacy che dovrà essere portata a conoscenza del lavoratore. Non è necessario il consenso del lavoratore per l’installazione del Gps. La base giuridica del trattamento in questi casi è infatti il legittimo interesse del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei propri dipendenti ma anche la tutela delle flotte aziendali. La finalità del trattamento non può essere quindi quella di monitorare costantemente il lavoratore ma dovrà essere valutata attentamente e consistere ad esempio in esigenze logistiche, consentendo ad esempio di impartire istruzioni al conducente del veicolo oggetto di localizzazione, consentire la manutenzione dei mezzi o determinare la retribuzione corretta dovuta.

Limite ai dati personali

C’è un limite anche al tipo di dati personali che il datore di lavoro può trattare. La regola base è il rispetto del noto principio della pertinenza e non eccedenza. Così possono essere trattati i dati sull’ubicazione del veicolo, la distanza percorsa, i tempi di percorrenza, il carburante consumato, la velocità media del veicolo, ma resta riservata alle competenti autorità la contestazione di eventuali violazioni dei limiti di velocità fissati dal codice della strada. Così come il monitoraggio dei dati non dovrà essere costante ma avvenire solo quando si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite.

Diversi sono anche i tempi di conservazione dei dati che saranno di cinque anni ad esempio per quelli necessari alla tenuta del libro unico del lavoro, quindi per pagare la retribuzione ed eventuali straordinari, mentre negli altri casi occorrerà valutare la finalità del trattamento e fissare il limite temporale in quello strettamente necessario. La stessa regola vale per i sistemi di geolocalizzazione attivati su tablet o smartphone in dotazione ai dipendenti ricadono sempre nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 comma 2 dello Statuto dei lavoratori. Se sono indispensabili per rendere la prestazione lavorativa, come nel caso di lavoratori adibiti a servizi sul campo di assistenza alla clientela, si potrà prescindere sia dall’accordo sindacale sia dal procedimento amministrativo, negli altri casi invece sarà necessario. L’azienda dovrà sempre comunicare ai lavoratori, anche a mezzo mail, l’informativa sull’utilizzo dei sistemi Gps, sia il codice disciplinare relativo ai controlli a distanza.

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Italia-Svizzera, pronte le nuove regole sui frontalieri: che cosa occorre sapere

8 Agosto 2023

ECONOMIA E POLITICA INTERNAZIONALE

Il Sole 24 Ore 11 luglio 2023 di Lino Terlizzi

Dal 1° luglio in vigore la nuova legge italiana sull’imposizione fiscale

La Svizzera entro un mese uscirà dalla lista nera italiana dei paradisi fiscali

Frontalieri. La Dogana tra Italia e Svizzera a Ponte Faloppia, vicino Chiasso adobestock

LUGANO

Dopo anni di attesa, ora sta iniziando una nuova epoca per i frontalieri e per le relazioni tra Svizzera e Italia sul terreno del mercato del lavoro. Frutto dell’accordo raggiunto tra i due Paesi dopo lunghi colloqui e negoziati, la legge sulla nuova imposizione fiscale dei lavoratori frontalieri, quelli che ogni giorno passano la frontiera in andata e ritorno, è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale italiana ed è in vigore dal 1° luglio scorso. Gli ultimi adempimenti burocratici che ancora mancano dovrebbero concretizzarsi in questi giorni, comunque le due parti considerano la cosa in sostanza fatta.

È stato appunto un accordo non facile da raggiungere, basti pensare che il protocollo per la modifica del quadro legale precedente, risalente agli anni Settanta, è stato firmato nel 2015. Dopo cinque anni, un’intesa nel 2020 e poi altri passi che hanno richiesto altri tre anni. A un certo punto la Svizzera aveva ratificato tutto, ma l’Italia aveva bisogno di altri passaggi.

La complessità del capitolo è data anche dalla necessità di trovare un compromesso tra interessi che sono oggettivamente diversi. Il punto centrale di questo compromesso è una maggiore imposizione fiscale per i nuovi frontalieri, mentre per quelli già esistenti l’assetto non cambia.

La Svizzera ha da sempre bisogno di manodopera estera e il frontalierato è una delle sue risorse. Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica, nel primo trimestre di quest’anno il totale dei frontalieri era 386mila, con queste nazionalità principali: francesi 56%, italiani 23%, tedeschi 16%, ciascuna naturalmente attiva nei cantoni di frontiera più vicini. Il solo Ticino alla stessa data aveva 78mila frontalieri; i posti di lavoro nel cantone sono 241mila, si tratta quindi di circa il 30% della manodopera sul mercato locale.

Il numero dei frontalieri negli ultimi anni è pareccchio aumentato in tutta la Svizzera ed anche in Ticino, dove erano meno di 60mila nel 2013.

Tornando all’accordo tra Italia e Svizzera, questo prevede che la Confederazione trattenga l’80% delle imposte che riguardano i redditi dei nuovi frontalieri e che il fisco italiano a sua volta li tassi sulla base delle sue aliquote Irpef. Essendo queste ultime in genere più onerose rispetto a quelle dei cantoni elvetici, ci sarà per loro un’imposizione fiscale maggiore rispetto a quella sin qui in vigore. Ai nuovi frontalieri verrà detratta la somma già trattenuta dal fisco svizzero e, per alleggerire il maggior onere, verranno applicate una franchigia di 10mila euro e alcune detrazioni e deduzioni legate alle spese.

L’obiettivo dell’Italia era ribilanciare a suo favore l’onere fiscale dei frontalieri e avere in prospettiva più entrate; l’obiettivo è raggiunto, alcune stime indicano che a regime il fisco italiano avrà 220 milioni di euro in più. C’è poi anche da considerare che le province italiane di confine, a cominciare da Como e Varese, intendono cercare di trattenere forza lavoro.

L’obiettivo della Svizzera era rendere un po’ meno attrattivo il frontalierato, di cui continua ad avere bisogno ma di cui vuole limitare l’espansione, anche per rassicurare i residenti; pure sul versante elvetico l’obiettivo di fondo sembra raggiunto. Insieme ai due Stati, ne escono bene i vecchi frontalieri, che continueranno a usufruire di un vantaggio fiscale che si somma a quello di stipendi in genere più alti che in Italia ed a quello di un franco svizzero che rimane molto forte.

I nuovi frontalieri, che risiedono entro 20 chilometri dalla frontiera, avranno ancora i vantaggi sui salari e sulla valuta, ma vedranno diminuire non poco il vantaggio fiscale. Se loro sono in un certo senso gli sconfitti, altrettanto si può dire per quella parte delle imprese svizzere che puntano su una molto ampia presenza di frontalieri. L’accusa rivolta spesso a queste aziende è che i salari per i frontalieri sono in genere più bassi rispetto a quelli dei residenti; la risposta è spesso che il punto principale è avere la forza lavoro necessaria e che per i salari ci sono in ogni caso contratti e controlli. Comunque sia, ora il frontalierato rimarrà importante ma avrà qualche punto in meno di attrattività per i lavoratori italiani.

Resta aperto il capitolo del telelavoro dei frontalieri, su cui si è in attesa di un nuovo accordo italo-svizzero.

Sta invece per concludersi l’annosa questione della presenza della Svizzera nella lista nera italiana delle persone fisiche, quella cosiddetta dei paradisi fiscali, che risale al 1999.

Il 20 aprile scorso Roma e Berna hanno sottoscritto una dichiarazione per lo stralcio della Svizzera da questa blacklist. L’accordo ormai è effettivo e il decreto relativo dovrebbe essere adottato a breve in Italia.

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I vantaggi di San Marino: separazione patrimoniale netta e registro ad hoc

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 15 giugno 2023 di Paolo Gaeta

Garantita una stabilità del rapporto fiscale elevata con aliquota al 13,6%

Trust sammarinese quale valida alternativa per chi intende gestire il proprio patrimonio. Diverse le ragioni che assegnano una peculiarità al sistema legale di San Marino nel caso in cui la segregazione patrimoniale veda quali principali destinatari soggetti con disabilità temporanee o gravi, o affetti da patologie che potrebbero evolvere in futuro.

In primo luogo, assume rilievo il fatto che la legge regolatrice è in lingua italiana. Tale elemento garantisce ai professionisti che intendono consigliare ai propri clienti il trust sammarinese di avere norme chiare e facilmente interpretabili garantendo, peraltro, la possibilità di interagire con i Tribunali di San Marino se domiciliati presso colleghi locali. Accanto a ciò, però, non può non tenersi conto di alcune accortezze pensate dall’ordinamento sammarinese che offrono un bilanciamento degli interessi delle parti coinvolte non riscontrabile altrove.

La separazione patrimoniale del trust sammarinese assicura una totale separazione tra i beni personali del trustee e i beni in trust. In questo caso il trustee è responsabile solo fino alla concorrenza del fondo, senza che possa essere messo a rischio il proprio patrimonio personale come accade altrove. Il trust di San Marino, inoltre, permette di creare vincoli di destinazione sui beni in trust, garantendo che vengano utilizzati secondo le volontà del disponente attraverso la previsione di termini e adempimenti da rispettare, in grado di assicurare stabilità e realizzazione dei desiderata del disponente.

A ciò si aggiunga la presenza di una Corte specializzata per il trust che offre supporto e assistenza ai trustee durante tutta la vita del veicolo. Un elemento, questo, non presente in Italia e che consente di avere maggiori garanzie se si considera anche la presenza della Banca di San Marino. Il trust sammarinese rispetta i principi di trasparenza e monitoraggio con il supporto di quest’ultima a cui viene dato il compito di custodire il Registro dei trust ed emettere un certificato che contiene i principali elementi del trust, tra cui i soggetti coinvolti e i titolari effettivi. Infine, ma non ultimo, il regime di tassazione. In quanto soggetto autonomo fiscalmente, che rientra nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, il trust sammarinese offre una stabilità del rapporto fiscale molto elevata. L’aliquota ordinaria per i redditi dei trust residenti è del 13,6% e grazie al regime opzionale può scendere addirittura al 1,7%. In tal caso, la previsione dell’aliquota ordinaria non rende applicabile la normativa italiana prevista per i trust residenti in paesi a fiscalità privilegiata con la conseguenza che i beneficiari residenti in Italia hanno la possibilità di ricevere il reddito del trust sammarinese senza doverlo assoggettare a tassazione.

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Società cooperative, è il presidente il titolare effettivo

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 17 giugno 2023 di Gianni Allegretti

Con l’approvazione delle specifiche tecniche del formato elettronico da utilizzare per la comunicazione dei titolari effettivi delle società di capitali e altri enti dotati di personalità giuridica, ha avuto inizio l’iter per addivenire alla iscrizione nel Registro delle imprese.

In attesa dei provvedimenti attuativi ancora mancanti, appare opportuno fare chiarezza per le società cooperative per le quali non trovano applicazione le regole generali previste per gli altri tipi societari.

Trattandosi, infatti di società, solitamente, a capitale diffuso ma, soprattutto, caratterizzate dal diritto di voto capitario (articolo 2538, comma 1, del Codice Civile) che prescinde dalla entità della partecipazione al capitale, come precisato anche dal Consiglio nazionale del notariato (si veda Commissione Antiriciclaggio – Studio 1_2023B), hanno regime autonomo e diverso da quello delle società di persone e di capitali che rende problematica l’individuazione della ratio normativa.

In buona sostanza, infatti, non appaiono applicabili le condizioni sulla base delle quali è individuato il responsabile effettivo delle società di capitali per le quali il riferimento è alla titolarità minima del 25% del capitale ovvero, in alternativa, al soggetto cui è attribuibile il controllo della società intendendo per tale il titolare di diritti che consentono l’esercizio di una influenza dominante.

Secondo il Notariato, quindi, non trattandosi di società di capitali, per le cooperative dovrà farsi riferimento, in primo luogo, all’articolo 20, comma 3, del decreto legislativo 231/2007 (cosiddetto decreto Antiriciclaggio) secondo il quale assume rilievo il controllo dei voti maggioritario o tale da influenzare le decisioni ovvero la presenza di vincoli contrattuali tali da esercitare una influenza dominante e, ove tali criteri non siano verificati, dovrà farsi riferimento al comma 5 e, quindi, al soggetto dotato dei poteri di rappresentanza o di amministrazione.

Ne consegue che nelle società cooperative, non essendo possibile procedere alla individuazione del titolare effettivo sulla base di parametri oggettivi, la qualifica non potrà che venire attribuita alla persona titolare dei poteri di amministrazione e direzione della società e, pertanto, al presidente della stessa.

Ricordiamo, infine, il possibile caso particolare dei soci finanziatori, categoria alla quale possono essere attribuiti più voti, sino ad un massimo di un terzo in ciascuna assemblea (articolo 2526 del Codice Civile), superando, quindi il limite del 25% che, ove attribuiti all’eventuale unico finanziatore iscritto, dovrebbe anch’esso venire considerato titolare effettivo.

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La diffusione del programma Tv salva il marchio dalla decadenza

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 26 giugno 2023 di Gianluca De Cristofaro e Matteo Di Lernia

Per la Cassazione non basta la trasmissione in chiaro su tutto il territorio nazionale

È necessario che frequenza e durata della messa in onda siano incisive sul mercato

La trasmissione in chiaro sull’intero territorio nazionale di un programma televisivo non determina di per sé che vi sia un uso “effettivo” del marchio che contraddistingua tale programma e che impedisca la decadenza dei diritti sul marchio a causa del mancato uso dello stesso.

Nel mercato televisivo, per conservare i diritti di esclusiva sul marchio, occorre sempre verificare in concreto – a prescindere dalla diffusione nazionale in chiaro del programma – se la trasmissione che veicola il marchio abbia avuto un’effettiva incidenza in tale mercato o se, invece, abbia avuto un impatto meramente simbolico. E, a questo proposito, occorre considerare tra le altre circostanze rilevanti la frequenza e la durata della messa in onda del programma televisivo contraddistinto dal marchio.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione (con la decisione n. 2398 depositata il 6 giugno scorso) che è intervenuta sulla decadenza per non uso del marchio “Passaparola”.

L’uso non simbolico

L’articolo 24, comma 1, del Codice di proprietà industriale prevede che un marchio debba essere “effettivamente” usato entro cinque anni dalla registrazione, e che quest’uso non possa essere interrotto per più di cinque anni, a pena di decadenza. Il terzo comma dello stesso articolo prevede che non possa dichiararsi la decadenza se l’uso effettivo del marchio ha avuto inizio o sia stato ripreso.

Il caso portato all’attenzione della Corte di cassazione riguardava la contestata decadenza per non uso del marchio “Passaparola”. A partire dal 2008, infatti, la programmazione dell’omonimo show era stata interrotta – così come ogni altro uso di tale segno come marchio –, ad eccezione della diffusione di alcune repliche del programma andate in onda sul canale “Mediaset Extra” nel periodo dicembre 2013 / febbraio 2014.

La Cassazione si è trovata a dover valutare se la messa in onda delle repliche del programma – dopo anni d’interruzione – tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 fosse rilevante ai fini della riabilitazione del marchio in questione.

Nel precedente grado di giudizio, la Corte di Appello di Torino aveva attribuito un rilievo determinante alla mera circostanza per cui «lo sfruttamento del marchio “Passaparola” era avvenuto con una trasmissione in chiaro, su di un canale nazionale e per numerose volte».

La Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio per cui nel verificare «l’uso effettivo» di un marchio occorre prendere in considerazione tutti i fatti e le circostanze che possono provare la realtà del suo sfruttamento commerciale (che deve essere teso a mantenere o trovare quote di mercato). In tal senso, devono esser esclusi tutti gli usi «simbolici».

Il confronto con il mercato

Con riferimento in particolare al mercato televisivo, la Cassazione ha escluso – contrariamente a quanto statuito dalla Corte di appello di Torino – che rilevi “di per sé” la circostanza per cui lo sfruttamento del marchio abbinato a uno show Tv sia attuato attraverso un’emittente che trasmette in chiaro sull’intero territorio nazionale. Occorre, invece, correlare la messa in onda del programma tv al mercato televisivo, per verificare se la trasmissione che veicola il marchio abbia (avuto) effettiva incidenza sul detto mercato, in modo tale da escludere che possa considerarsi “simbolica”.

La Cassazione ha quindi espresso il principio sulla base del quale non è di per sé decisivo che il programma Tv sia diffuso da un’emittente il cui segnale raggiunga ogni potenziale utente televisivo; occorre, invece, indagare in concreto – anche considerando la frequenza e la durata della messa in onda del programma – se la programmazione sia tale da escludere che l’uso del marchio sia, con riferimento al mercato televisivo, simbolico.

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