False fatture, concorso dei membri del cda solo se hanno avuto conoscenza del reato

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore 19 luglio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per la responsabilità dei manager mutuato l’indirizzo sulla bancarotta

Necessario provare anche la volontà di non attivarsi per scongiurare l’evento

La decisione.  Escluso l’automatismo

I membri del cda che non hanno sottoscritto la dichiarazione fraudolenta con false fatture, rispondono in concorso del reato con l’amministratore che l’ha firmata, solo se hanno avuto conoscenza dell’illecito e non si siano attivati per impedire l’indicazione dei falsi documenti o la sua presentazione. È questo, in sintesi, l’interessante principio che emerge dalla sentenza n.31017 della Corte di cassazione (sezione III penale) depositata ieri.

La pronuncia concerne una casistica molto diffusa (praticamente tutti i casi di dichiarazioni fraudolente ascrivibili a società dotate di consiglio di amministrazione) ma che registra rarissime sentenze di legittimità.

A una srl veniva contestato l’utilizzo in dichiarazione di fatture soggettivamente inesistenti. Nel procedimento penale venivano coinvolti per violazione dell’articolo 2 del Dlgs 74/2000, non solo l’amministratore che aveva sottoscritto la dichiarazione, ma anche gli altri due membri del cda dotati di poteri sociali disgiunti differenti.

Dopo la condanna nei gradi di merito, i due amministratori ricorrevano in Cassazione lamentando, tra l’altro, che la sentenza di condanna si era limitata a valorizzare solo il dato della loro carica, senza valutare la loro estraneità rispetto alle vicende e quindi alla sottoscrizione della dichiarazione.

La Suprema Corte, dopo aver rilevato la presenza di un solo precedente specifico in tema di reati tributari, ha ritenuto di mutuare l’orientamento (consolidato) espresso con riferimento ai reati di bancarotta. In sostanza, la responsabilità degli amministratori, privi di delega, per omesso impedimento dell’evento, è configurabile ove sia provata:

l’effettiva conoscenza dei fatti pregiudizievoli o quanto meno di segnali di allarme;

la volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento.

Di conseguenza, anche ai fini penali tributari, gli amministratori di una società, che non abbiano sottoscritto una dichiarazione fiscale fraudolenta, avendovi provveduto il consigliere all’uopo delegato, concorrono nel reato solo ove siano stati a conoscenza dell’inserimento di tali documenti mendaci in contabilità e, ciononostante, non si siano attivati per impedire la loro indicazione in dichiarazione o la presentazione della stessa.

Per la sussistenza di tali circostanze non è sufficiente evidenziare, genericamente, il coinvolgimento degli amministratori nelle scelte gestionali, o ancora l’entità delle operazioni (nella specie circa il 10% del volume di affari), soprattutto in un’ipotesi, come quella al vaglio dei giudici, di fatture soggettivamente inesistenti e quindi di operazioni effettivamente avvenute. Sarebbero stati necessari in altre parole elementi idonei a provare il coinvolgimento degli amministratori che non avevano sottoscritto la dichiarazione.

Appare evidente dalla sentenza che vada escluso «in automatico» il concorso dei membri del cda nei reati dichiarativi, e, soprattutto la necessità di prove della loro consapevolezza dell’illecito che, volontariamente, hanno deciso di non impedire.

Si ritiene che tali circostanze debbano essere poi valutate rispetto al caso concreto. Ad esempio, la conoscenza degli amministratori di «segnali di allarme» in presenza di fatture oggettivamente inesistenti per importi rilevanti (che presuppongono presso l’azienda magazzini, trasporti, personale, che magari non esistono) è ovviamente più agevole rispetto ad acquisti soggettivamente inesistenti, in cui difficilmente l’amministratore ha consapevolezza della non coincidenza tra l’emittente il documento fiscale e il reale cedente dei beni. In via generale, poi, l’effettiva e seria adozione del sistema preventivo (ex Dlgs 231/2001) potrebbe rappresentare un importante strumento difensivo per evidenziare la volontà degli amministratori di prevenire qualsivoglia forma di illecito.

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Geolocalizzazione dei lavoratori: si può ma il nodo è la privacy

8 Agosto 2023

Il Sole 24 Ore 31 luglio 2023 di Marisa Marraffino

PRIVACY E COMPLIANCE

i paletti. Ok ai Gps su veicoli in uso ai dipendenti se c’è intesa tra azienda e sindacati o l’autorizzazione dall’Ispettorato del lavoro. Tutele da garantire

Sono da poco stato assunto in un’azienda che mi ha messo a disposizione un’automobile sia per gli spostamenti di lavoro che per quelli personali. Sull’auto è installato un Gps, mi chiedo se il datore di lavoro possa vedere e quindi monitorare anche i miei viaggi privati.

I Gps installati sui veicoli in uso ai lavoratori sono legittimi se l’azienda ha stipulato il relativo accordo sindacale o ha ricevuto l’autorizzazione dall’ispettorato del lavoro. Fanno eccezione i casi in cui gli strumenti di geolocalizzazione servono a consentire la concreta ed effettiva attuazione della prestazione lavorativa ovvero l’installazione sia richiesta da specifiche normative di carattere legislativo o regolamentare, per esempio nei casi di Gps presenti sugli autobus di linea nonché sui portavalori di importo superiore a 1.500.000 euro. I dati estrapolati possono poi anche essere utilizzati per eventuali contestazioni disciplinari. Lo prevede l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori così come modificato dal Dlgs 151/2015, (Jobs Act). In genere la geolocalizzazione è lecita se effettuata per esigenze produttive, assicurative, di sicurezza e per la tutela del patrimonio aziendale ma a determinate condizioni. Ad esempio il lavoratore deve essere informato della presenza del Gps e deve poterlo spegnere nelle pause.

Se l’auto aziendale è a uso promiscuo ovvero utilizzata anche per finalità personali, il lavoratore deve poter disabilitare la geolocalizzazione negli orari extralavorativi. Il datore di lavoro, infatti, deve rispettare anche la normativa sulla protezione dei dati personali, Dlgs 196/2003 così come aggiornato dal Dlgs 101/2018 a seguito del Gdpr. I dati di tracciamento devono essere utilizzati per il tempo strettamente necessario e possono essere trattati soltanto dai soggetti espressamente autorizzati per le finalità precisate nell’informativa privacy che dovrà essere portata a conoscenza del lavoratore. Non è necessario il consenso del lavoratore per l’installazione del Gps. La base giuridica del trattamento in questi casi è infatti il legittimo interesse del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei propri dipendenti ma anche la tutela delle flotte aziendali. La finalità del trattamento non può essere quindi quella di monitorare costantemente il lavoratore ma dovrà essere valutata attentamente e consistere ad esempio in esigenze logistiche, consentendo ad esempio di impartire istruzioni al conducente del veicolo oggetto di localizzazione, consentire la manutenzione dei mezzi o determinare la retribuzione corretta dovuta.

Limite ai dati personali

C’è un limite anche al tipo di dati personali che il datore di lavoro può trattare. La regola base è il rispetto del noto principio della pertinenza e non eccedenza. Così possono essere trattati i dati sull’ubicazione del veicolo, la distanza percorsa, i tempi di percorrenza, il carburante consumato, la velocità media del veicolo, ma resta riservata alle competenti autorità la contestazione di eventuali violazioni dei limiti di velocità fissati dal codice della strada. Così come il monitoraggio dei dati non dovrà essere costante ma avvenire solo quando si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite.

Diversi sono anche i tempi di conservazione dei dati che saranno di cinque anni ad esempio per quelli necessari alla tenuta del libro unico del lavoro, quindi per pagare la retribuzione ed eventuali straordinari, mentre negli altri casi occorrerà valutare la finalità del trattamento e fissare il limite temporale in quello strettamente necessario. La stessa regola vale per i sistemi di geolocalizzazione attivati su tablet o smartphone in dotazione ai dipendenti ricadono sempre nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 comma 2 dello Statuto dei lavoratori. Se sono indispensabili per rendere la prestazione lavorativa, come nel caso di lavoratori adibiti a servizi sul campo di assistenza alla clientela, si potrà prescindere sia dall’accordo sindacale sia dal procedimento amministrativo, negli altri casi invece sarà necessario. L’azienda dovrà sempre comunicare ai lavoratori, anche a mezzo mail, l’informativa sull’utilizzo dei sistemi Gps, sia il codice disciplinare relativo ai controlli a distanza.

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Italia-Svizzera, pronte le nuove regole sui frontalieri: che cosa occorre sapere

8 Agosto 2023

ECONOMIA E POLITICA INTERNAZIONALE

Il Sole 24 Ore 11 luglio 2023 di Lino Terlizzi

Dal 1° luglio in vigore la nuova legge italiana sull’imposizione fiscale

La Svizzera entro un mese uscirà dalla lista nera italiana dei paradisi fiscali

Frontalieri. La Dogana tra Italia e Svizzera a Ponte Faloppia, vicino Chiasso adobestock

LUGANO

Dopo anni di attesa, ora sta iniziando una nuova epoca per i frontalieri e per le relazioni tra Svizzera e Italia sul terreno del mercato del lavoro. Frutto dell’accordo raggiunto tra i due Paesi dopo lunghi colloqui e negoziati, la legge sulla nuova imposizione fiscale dei lavoratori frontalieri, quelli che ogni giorno passano la frontiera in andata e ritorno, è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale italiana ed è in vigore dal 1° luglio scorso. Gli ultimi adempimenti burocratici che ancora mancano dovrebbero concretizzarsi in questi giorni, comunque le due parti considerano la cosa in sostanza fatta.

È stato appunto un accordo non facile da raggiungere, basti pensare che il protocollo per la modifica del quadro legale precedente, risalente agli anni Settanta, è stato firmato nel 2015. Dopo cinque anni, un’intesa nel 2020 e poi altri passi che hanno richiesto altri tre anni. A un certo punto la Svizzera aveva ratificato tutto, ma l’Italia aveva bisogno di altri passaggi.

La complessità del capitolo è data anche dalla necessità di trovare un compromesso tra interessi che sono oggettivamente diversi. Il punto centrale di questo compromesso è una maggiore imposizione fiscale per i nuovi frontalieri, mentre per quelli già esistenti l’assetto non cambia.

La Svizzera ha da sempre bisogno di manodopera estera e il frontalierato è una delle sue risorse. Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica, nel primo trimestre di quest’anno il totale dei frontalieri era 386mila, con queste nazionalità principali: francesi 56%, italiani 23%, tedeschi 16%, ciascuna naturalmente attiva nei cantoni di frontiera più vicini. Il solo Ticino alla stessa data aveva 78mila frontalieri; i posti di lavoro nel cantone sono 241mila, si tratta quindi di circa il 30% della manodopera sul mercato locale.

Il numero dei frontalieri negli ultimi anni è pareccchio aumentato in tutta la Svizzera ed anche in Ticino, dove erano meno di 60mila nel 2013.

Tornando all’accordo tra Italia e Svizzera, questo prevede che la Confederazione trattenga l’80% delle imposte che riguardano i redditi dei nuovi frontalieri e che il fisco italiano a sua volta li tassi sulla base delle sue aliquote Irpef. Essendo queste ultime in genere più onerose rispetto a quelle dei cantoni elvetici, ci sarà per loro un’imposizione fiscale maggiore rispetto a quella sin qui in vigore. Ai nuovi frontalieri verrà detratta la somma già trattenuta dal fisco svizzero e, per alleggerire il maggior onere, verranno applicate una franchigia di 10mila euro e alcune detrazioni e deduzioni legate alle spese.

L’obiettivo dell’Italia era ribilanciare a suo favore l’onere fiscale dei frontalieri e avere in prospettiva più entrate; l’obiettivo è raggiunto, alcune stime indicano che a regime il fisco italiano avrà 220 milioni di euro in più. C’è poi anche da considerare che le province italiane di confine, a cominciare da Como e Varese, intendono cercare di trattenere forza lavoro.

L’obiettivo della Svizzera era rendere un po’ meno attrattivo il frontalierato, di cui continua ad avere bisogno ma di cui vuole limitare l’espansione, anche per rassicurare i residenti; pure sul versante elvetico l’obiettivo di fondo sembra raggiunto. Insieme ai due Stati, ne escono bene i vecchi frontalieri, che continueranno a usufruire di un vantaggio fiscale che si somma a quello di stipendi in genere più alti che in Italia ed a quello di un franco svizzero che rimane molto forte.

I nuovi frontalieri, che risiedono entro 20 chilometri dalla frontiera, avranno ancora i vantaggi sui salari e sulla valuta, ma vedranno diminuire non poco il vantaggio fiscale. Se loro sono in un certo senso gli sconfitti, altrettanto si può dire per quella parte delle imprese svizzere che puntano su una molto ampia presenza di frontalieri. L’accusa rivolta spesso a queste aziende è che i salari per i frontalieri sono in genere più bassi rispetto a quelli dei residenti; la risposta è spesso che il punto principale è avere la forza lavoro necessaria e che per i salari ci sono in ogni caso contratti e controlli. Comunque sia, ora il frontalierato rimarrà importante ma avrà qualche punto in meno di attrattività per i lavoratori italiani.

Resta aperto il capitolo del telelavoro dei frontalieri, su cui si è in attesa di un nuovo accordo italo-svizzero.

Sta invece per concludersi l’annosa questione della presenza della Svizzera nella lista nera italiana delle persone fisiche, quella cosiddetta dei paradisi fiscali, che risale al 1999.

Il 20 aprile scorso Roma e Berna hanno sottoscritto una dichiarazione per lo stralcio della Svizzera da questa blacklist. L’accordo ormai è effettivo e il decreto relativo dovrebbe essere adottato a breve in Italia.

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I vantaggi di San Marino: separazione patrimoniale netta e registro ad hoc

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 15 giugno 2023 di Paolo Gaeta

Garantita una stabilità del rapporto fiscale elevata con aliquota al 13,6%

Trust sammarinese quale valida alternativa per chi intende gestire il proprio patrimonio. Diverse le ragioni che assegnano una peculiarità al sistema legale di San Marino nel caso in cui la segregazione patrimoniale veda quali principali destinatari soggetti con disabilità temporanee o gravi, o affetti da patologie che potrebbero evolvere in futuro.

In primo luogo, assume rilievo il fatto che la legge regolatrice è in lingua italiana. Tale elemento garantisce ai professionisti che intendono consigliare ai propri clienti il trust sammarinese di avere norme chiare e facilmente interpretabili garantendo, peraltro, la possibilità di interagire con i Tribunali di San Marino se domiciliati presso colleghi locali. Accanto a ciò, però, non può non tenersi conto di alcune accortezze pensate dall’ordinamento sammarinese che offrono un bilanciamento degli interessi delle parti coinvolte non riscontrabile altrove.

La separazione patrimoniale del trust sammarinese assicura una totale separazione tra i beni personali del trustee e i beni in trust. In questo caso il trustee è responsabile solo fino alla concorrenza del fondo, senza che possa essere messo a rischio il proprio patrimonio personale come accade altrove. Il trust di San Marino, inoltre, permette di creare vincoli di destinazione sui beni in trust, garantendo che vengano utilizzati secondo le volontà del disponente attraverso la previsione di termini e adempimenti da rispettare, in grado di assicurare stabilità e realizzazione dei desiderata del disponente.

A ciò si aggiunga la presenza di una Corte specializzata per il trust che offre supporto e assistenza ai trustee durante tutta la vita del veicolo. Un elemento, questo, non presente in Italia e che consente di avere maggiori garanzie se si considera anche la presenza della Banca di San Marino. Il trust sammarinese rispetta i principi di trasparenza e monitoraggio con il supporto di quest’ultima a cui viene dato il compito di custodire il Registro dei trust ed emettere un certificato che contiene i principali elementi del trust, tra cui i soggetti coinvolti e i titolari effettivi. Infine, ma non ultimo, il regime di tassazione. In quanto soggetto autonomo fiscalmente, che rientra nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, il trust sammarinese offre una stabilità del rapporto fiscale molto elevata. L’aliquota ordinaria per i redditi dei trust residenti è del 13,6% e grazie al regime opzionale può scendere addirittura al 1,7%. In tal caso, la previsione dell’aliquota ordinaria non rende applicabile la normativa italiana prevista per i trust residenti in paesi a fiscalità privilegiata con la conseguenza che i beneficiari residenti in Italia hanno la possibilità di ricevere il reddito del trust sammarinese senza doverlo assoggettare a tassazione.

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Società cooperative, è il presidente il titolare effettivo

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 17 giugno 2023 di Gianni Allegretti

Con l’approvazione delle specifiche tecniche del formato elettronico da utilizzare per la comunicazione dei titolari effettivi delle società di capitali e altri enti dotati di personalità giuridica, ha avuto inizio l’iter per addivenire alla iscrizione nel Registro delle imprese.

In attesa dei provvedimenti attuativi ancora mancanti, appare opportuno fare chiarezza per le società cooperative per le quali non trovano applicazione le regole generali previste per gli altri tipi societari.

Trattandosi, infatti di società, solitamente, a capitale diffuso ma, soprattutto, caratterizzate dal diritto di voto capitario (articolo 2538, comma 1, del Codice Civile) che prescinde dalla entità della partecipazione al capitale, come precisato anche dal Consiglio nazionale del notariato (si veda Commissione Antiriciclaggio – Studio 1_2023B), hanno regime autonomo e diverso da quello delle società di persone e di capitali che rende problematica l’individuazione della ratio normativa.

In buona sostanza, infatti, non appaiono applicabili le condizioni sulla base delle quali è individuato il responsabile effettivo delle società di capitali per le quali il riferimento è alla titolarità minima del 25% del capitale ovvero, in alternativa, al soggetto cui è attribuibile il controllo della società intendendo per tale il titolare di diritti che consentono l’esercizio di una influenza dominante.

Secondo il Notariato, quindi, non trattandosi di società di capitali, per le cooperative dovrà farsi riferimento, in primo luogo, all’articolo 20, comma 3, del decreto legislativo 231/2007 (cosiddetto decreto Antiriciclaggio) secondo il quale assume rilievo il controllo dei voti maggioritario o tale da influenzare le decisioni ovvero la presenza di vincoli contrattuali tali da esercitare una influenza dominante e, ove tali criteri non siano verificati, dovrà farsi riferimento al comma 5 e, quindi, al soggetto dotato dei poteri di rappresentanza o di amministrazione.

Ne consegue che nelle società cooperative, non essendo possibile procedere alla individuazione del titolare effettivo sulla base di parametri oggettivi, la qualifica non potrà che venire attribuita alla persona titolare dei poteri di amministrazione e direzione della società e, pertanto, al presidente della stessa.

Ricordiamo, infine, il possibile caso particolare dei soci finanziatori, categoria alla quale possono essere attribuiti più voti, sino ad un massimo di un terzo in ciascuna assemblea (articolo 2526 del Codice Civile), superando, quindi il limite del 25% che, ove attribuiti all’eventuale unico finanziatore iscritto, dovrebbe anch’esso venire considerato titolare effettivo.

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La diffusione del programma Tv salva il marchio dalla decadenza

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 26 giugno 2023 di Gianluca De Cristofaro e Matteo Di Lernia

Per la Cassazione non basta la trasmissione in chiaro su tutto il territorio nazionale

È necessario che frequenza e durata della messa in onda siano incisive sul mercato

La trasmissione in chiaro sull’intero territorio nazionale di un programma televisivo non determina di per sé che vi sia un uso “effettivo” del marchio che contraddistingua tale programma e che impedisca la decadenza dei diritti sul marchio a causa del mancato uso dello stesso.

Nel mercato televisivo, per conservare i diritti di esclusiva sul marchio, occorre sempre verificare in concreto – a prescindere dalla diffusione nazionale in chiaro del programma – se la trasmissione che veicola il marchio abbia avuto un’effettiva incidenza in tale mercato o se, invece, abbia avuto un impatto meramente simbolico. E, a questo proposito, occorre considerare tra le altre circostanze rilevanti la frequenza e la durata della messa in onda del programma televisivo contraddistinto dal marchio.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione (con la decisione n. 2398 depositata il 6 giugno scorso) che è intervenuta sulla decadenza per non uso del marchio “Passaparola”.

L’uso non simbolico

L’articolo 24, comma 1, del Codice di proprietà industriale prevede che un marchio debba essere “effettivamente” usato entro cinque anni dalla registrazione, e che quest’uso non possa essere interrotto per più di cinque anni, a pena di decadenza. Il terzo comma dello stesso articolo prevede che non possa dichiararsi la decadenza se l’uso effettivo del marchio ha avuto inizio o sia stato ripreso.

Il caso portato all’attenzione della Corte di cassazione riguardava la contestata decadenza per non uso del marchio “Passaparola”. A partire dal 2008, infatti, la programmazione dell’omonimo show era stata interrotta – così come ogni altro uso di tale segno come marchio –, ad eccezione della diffusione di alcune repliche del programma andate in onda sul canale “Mediaset Extra” nel periodo dicembre 2013 / febbraio 2014.

La Cassazione si è trovata a dover valutare se la messa in onda delle repliche del programma – dopo anni d’interruzione – tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 fosse rilevante ai fini della riabilitazione del marchio in questione.

Nel precedente grado di giudizio, la Corte di Appello di Torino aveva attribuito un rilievo determinante alla mera circostanza per cui «lo sfruttamento del marchio “Passaparola” era avvenuto con una trasmissione in chiaro, su di un canale nazionale e per numerose volte».

La Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio per cui nel verificare «l’uso effettivo» di un marchio occorre prendere in considerazione tutti i fatti e le circostanze che possono provare la realtà del suo sfruttamento commerciale (che deve essere teso a mantenere o trovare quote di mercato). In tal senso, devono esser esclusi tutti gli usi «simbolici».

Il confronto con il mercato

Con riferimento in particolare al mercato televisivo, la Cassazione ha escluso – contrariamente a quanto statuito dalla Corte di appello di Torino – che rilevi “di per sé” la circostanza per cui lo sfruttamento del marchio abbinato a uno show Tv sia attuato attraverso un’emittente che trasmette in chiaro sull’intero territorio nazionale. Occorre, invece, correlare la messa in onda del programma tv al mercato televisivo, per verificare se la trasmissione che veicola il marchio abbia (avuto) effettiva incidenza sul detto mercato, in modo tale da escludere che possa considerarsi “simbolica”.

La Cassazione ha quindi espresso il principio sulla base del quale non è di per sé decisivo che il programma Tv sia diffuso da un’emittente il cui segnale raggiunga ogni potenziale utente televisivo; occorre, invece, indagare in concreto – anche considerando la frequenza e la durata della messa in onda del programma – se la programmazione sia tale da escludere che l’uso del marchio sia, con riferimento al mercato televisivo, simbolico.

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Rimpatrio degli utili black list: affrancamento anche parziale

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 27 giugno 2023 di Michela Folli e Marco Piazza
Opzione nel modello Redditi ma il versamento deve essere anticipato
Arriva il decreto attuativo e la risoluzione Entrate con i codici tributo

Arriva l’attuazione dell’opzione per l’affrancamento degli utili di società estere a fiscalità privilegiata (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 22 giugno). Sono stati pubblicati ieri sia il decreto dell’Economia sia la risoluzione 34/E/2023 (che ha dovuto attendere proprio l’uscita del Dm) con i codici tributo per le imposte sostitutive: «1723» per l’aliquota ordinaria; «1724» per l’aliquota ridotta; «1725» per la differenza, con maggiorazione e relativi interessi, tra l’imposta sostitutiva ordinaria e l’imposta sostitutiva ridotta.

L’opzione – prevista dai commi da 87 a 95 dell’articolo 1 della legge 197 del 2022 – si perfezionerà con la compilazione del quadro RQ, Sezione XXV della dichiarazione dei redditi, ma il versamento dell’imposta sostitutiva deve essere fatto entro il termine di scadenza del saldo per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2022; quindi nella normalità dei casi, entro il 30 giugno. Si deve, però, ritenere applicabile la possibilità di effettuare il versamento dal 1° luglio al 31 luglio (il 30 luglio, infatti, cade di domenica) con la maggiorazione dello 0,40% per effetto dell’articolo 17, comma 2, del Dpr 435/2001.

Il decreto e la relazione contengono precisazioni importanti confermando molte delle conclusioni contenute nella circolare Assonime 5 del 2023.

La discrezionalità di esercitare l’opzione distintamente per ciascun soggetto estero e con riferimento anche a una sola parte degli utili esteri è coerente con il principio (illustrato nella relazione) che l’opzione non ha come conseguenza quella di considerare la partecipata estera come «entità a fiscalità privilegiata», ma solo di permettere al contribuente di superare le difficoltà connesse con la verifica della provenienza degli utili stratificatisi nel tempo (sotto diversi regimi fiscali). L’imposta sostitutiva si applica a un dato ammontare di utili o riserve indipendentemente dalla circostanza che questi provengano o meno da Paesi a fiscalità privilegiata. La relazione però precisa che il contribuente deve tenere traccia delle scelte effettuate in relazione agli utili e ai relativi importi oggetto di affrancamento.

Nel confermare che l’affrancamento riguarda gli utili della partecipazioni detenute nell’esercizio d’impresa, viene chiarito che, se l’affrancamento è fatto da una Snc o Sas, l’imposta sostitutiva dovuta è quella relativa alle persone fisiche (30% o 27% in caso di rimpatrio degli utili) a prescindere dal fatto che i soci siano persone fisiche o giuridiche.

Il decreto – risolvendo, in senso favorevole al contribuente, un disallineamento prodotto dalla normativa – stabilisce che gli utili risultanti dal bilancio dell’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2022 distribuiti nel 2022, ma non ancora percepiti il 1° gennaio 2023 sono affrancabili.

L’articolo 8 del decreto illustra in dettaglio gli effetti dell’affrancamento. Le riserve di utili affrancate non sono del tutto tassabili ai fini delle imposte sui redditi in capo ai soci in caso di distribuzione. L’esclusione non opera per l’Irap.

La relazione mette in evidenza che il regime di esclusione opera solo per gli utili che, se provenienti da società a fiscalità ordinaria, sarebbero assoggettati al regime dei dividendi tenendo anche conto della presunzione di prioritaria distribuzione degli utili di cui all’articolo 47, comma 1, del Tuir; non per quelli che ad esempio sarebbero considerati “interessi” perché dedotti dal reddito della società che li distribuisce.

Gli utili distribuiti dall’entità estera si considerano in primo luogo formati con i redditi già tassati per trasparenza in applicazione della disciplina Cfc e poi con quelli assoggettati ad imposta sostitutiva. Questa presunzione, favorevole, opera anche per le distribuzioni a soggetti esteri intermedi.

L’articolo 6 contiene dettagliate disposizioni sulla gestione dell’apposita riserva a cui devono essere imputati gli utili rimpatriati fruendo dell’imposta sostitutiva ridotta di 3 punti percentuali.

L’affrancamento rileva anche ai fini del calcolo della tassazione virtuale interna dei soggetti intermedi lungo la catena di controllo. Si considerano quindi utili a tassazione ordinaria.

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Il sospetto di un illecito non giustifica il controllo illimitato dell’email

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 27 giugno 2023 di Giuseppe Bulgarini d’Elci
È necessario comunque rispettare le disposizioni in materia di privacy

Le prove raccolte dal datore di lavoro attraverso un controllo illimitato della posta elettronica aziendale in uso al dirigente, ovverosia realizzato indistintamente su tutte le comunicazioni presenti nell’indirizzo di posta elettronica e senza limitazioni di tempo, costituiscono una ingiustificata violazione dei basilari diritti di dignità e corrispondenza presidiati (anche) dalla disciplina sul trattamento dei dati personali.

Il controllo tecnologico ex post richiede, anzitutto, una plausibile motivazione che lo giustifichi e il datore di lavoro può offrire questa prova, ad esempio, in presenza di un ragionevole sospetto circa il compimento di un illecito contro il patrimonio aziendale.

Non è, tuttavia, sufficiente che si realizzi questa condizione, che costituisce unicamente il presupposto minimo dei controlli difensivi in senso stretto, cui il datore è legittimato senza dover assolvere ai più penetranti vincoli disposti dell’articolo 4, comma 1, dello Statuto dei lavoratori. Il tracciamento retrospettivo della posta elettronica in dotazione ai dipendenti richiede, infatti, che siano osservate le disposizioni in materia di privacy, a cominciare dall’obbligo di informazione preventiva, che costituiscono un insostituibile baluardo a garanzia della dignità e della riservatezza dei lavoratori.

Le risultanze di «matrice tecnologica» raccolte violando non solo le condizioni minime a presidio dei controlli difensivi, ma anche le norme sul trattamento dei dati personali non possono essere utilizzate al fine di corroborare la validità di un licenziamento disciplinare, che risulta per ciò stesso illegittimo e comporta la condanna del datore al versamento dell’indennità di preavviso e al risarcimento dei danni al dirigente.

La Cassazione (18168/2023) ha confermato in questi termini la sentenza della Corte d’appello di Milano, che aveva respinto il ricorso di una banca contro la decisione (assunta in primo grado) di ritenere inutilizzabili le prove raccolte attraverso il controllo massiccio e indiscriminato della posta elettronica in dotazione al dirigente.

La Suprema corte rimarca che il bilanciamento tra le esigenze di protezione dei beni aziendali a cui è finalizzato il controllo difensivo e il rispetto della riservatezza e dignità del lavoratore non può prescindere dal pieno rispetto della disciplina generale «prevista per la protezione di qualsiasi cittadino dal Codice della privacy», a significare che, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro, il presidio delle regole sul trattamento dei dati costituisce un limite insuperabile.

In adempimento delle regole scolpite nel regolamento europeo, la legittimità del tracciamento retrospettivo della posta elettronica presuppone, quindi, che il datore abbia effettuato la valutazione d’impatto «nei confronti della sfera personale dei lavoratori», che abbia reso ai lavoratori l’informazione preventiva sul trattamento (strumenti utilizzati, finalità, periodo di conservazione, diritti dell’interessato…) ed effettui un trattamento in linea con i principi di liceità e correttezza.

Muovendosi su questa direttrice, la Cassazione enfatizza che il trattamento dei dati attraverso le investigazioni difensive deve rispettare i principi di minimizzazione e di proporzionalità, nonché di pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite con il controllo della posta elettronica.

In questo quadro, un controllo illimitato sulla posta dei dipendenti, quand’anche sorretto da un ragionevole sospetto di illeciti, si pone in violazione delle regole sul trattamento dei dati.

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I proventi della Sci francese prossima alla liquidazione

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 26 giugno 2023 di Fabrizio Cancelliere

Fiscalità internazionale

Nel 2011 un residente in Italia riceve, per successione, il 33% delle quote di una Sci (Société civile immobilière) francese, costituita nel 2006 dalla sua famiglia francese, residente fiscalmente in Francia, con tre immobili in possesso storico e utilizzati a scopo abitativo personale. Egli indica tali quote nel quadro RW come partecipazione al capitale di società non residente.

Nel 2021 la Sci vende a terzi uno dei tre immobili e il Fisco francese applica un’imposta alla fonte sulla plusvalenza immobiliare. Il netto è su un conto della Sci, creato appositamente. Non ricevendo i frutti di tale vendita, il contribuente non dichiara le plusvalenze e riporta nel modello Redditi il medesimo quadro RW degli anni precedenti.

Nell’ottica della prossima liquidazione della Sci, al fine di evitare una doppia imposizione fiscale Italia-Francia, si chiede se sia più conveniente procedere alla vendita degli altri due immobili, bonificando mano a mano i profitti per poi fare la liquidazione della Sci, oppure tenere tutti gli importi (anche quello derivante dalla vendita già fatta) nel conto della Sci fino alla sua liquidazione, per poi distribuire il corrispettivo spettante, tassandolo come “dividendo da liquidazione” al netto delle quote sociali detenute, e portando in detrazione le imposte pagate in Francia.

In premessa, va evidenziato che, secondo l’agenzia delle Entrate, le Sci – strutture societarie previste dalla normativa francese e monegasca – possono essere fiscalmente riqualificate come soggetti “esterovestiti” assimilabili alle società semplici italiane, qualora il “gérant” della Sci (che potrebbe essere anche uno dei soci, se riveste di fatto e/o di diritto tale ruolo), o comunque il soggetto da cui provengono gli impulsi volitivi per la gestione della società, sia residente ai fini fiscali in Italia (circolare 27/E/2015, risposta 2.10). Ciò, peraltro, fermo restando il diverso scenario – più “patologico” in quanto abusivo – in cui la struttura estera risulti fittiziamente interposta (in quanto priva di una effettiva gestione) nella mera detenzione degli immobili esteri.

Al di fuori di queste ipotesi (la cui eventuale integrazione nel caso di specie presupporrebbe una verifica fattuale specifica), il contribuente è in effetti tenuto a compilare il quadro RW tramite indicazione della sola partecipazione nella struttura estera, senza variazione del relativo valore (in ragione degli utili realizzati dalla vendita) e senza assolvimento di Ivie (imposta sul valore degli immobili situati all’estero), come invece sarebbe nel caso di società riqualificata come interposta o esterovestita, e Ivafe (imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero), in quanto la partecipazione non integra un prodotto finanziario.

Dal punto di vista reddituale, invece, il contribuente è tenuto ad assoggettare a imposta del 26% gli utili distribuiti dalla Sci, al netto dell’eventuale imposta prelevata in Francia e tassata “per trasparenza” in capo ai soci (circolare 9/E/2015). Sotto questo profilo, dunque, le due alternative indicate nel quesito sono a livello di principio equivalenti, sebbene una differenza possa registrarsi – a favore della seconda ipotesi – qualora il costo fiscale della partecipazione, cosi come risultante dalla dichiarazione di successione, sia di importo superiore al capitale (e alle altre poste distribuibili) già esistenti prima di quanto emerso a titolo di utile derivante dalla vendita degli immobili.

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Le criptovalute su pc o tablet vanno indicate nel quadro RW

7 Luglio 2023

Il Sole 24 Ore 16 giugno 2023 di Michela Folli e Marco Piazza

Nel modello Redditi non va inserito il codice del Paese estero

Circolare delle Entrate in consultazione pubblica fino al 30 giugno

Il 1° gennaio 2023 segna il confine fra vecchio e nuovo regime fiscale delle cripto-attività. La bozza di circolare messa in consultazione sul proprio sito dall’agenzia delle Entrate fino al 30 giugno (i contributi potranno essere inviati all’indirizzo e-mail: dc.pflaenc.settoreconsulenza@agenziaentrate.it) mette in chiara evidenza le importanti variazioni intervenute.

Regime fino al 31 dicembre 2022

Con riferimento alla posizione dei titolari privati, quindi, l’Agenzia conferma che fino al 31 dicembre 2022 le cessioni a pronti e a termine e i prelievi di criptovalute sono equiparati a quelli di valute tradizionali tassabili in base all’articolo 67, comma 1, lettera c-ter e commi 1-bis e 1-ter del Testo unico (risoluzione n. 72/E del 2016 e risposta 788 del 2022).

I contratti differenziali in criptovalute sono tassati come gli omologhi in valute tradizionali (articolo 67, comma 1, lettera c-quater, del Tuir). Lo stesso regime si applica agli «utility token» (si veda il paragrafo 2.3.3 della circolare in bozza). Confermata anche la tassabilità dei proventi derivanti dall’attività di staking nell’ambito dei redditi di capitale (risposta 437 del 2022).

Confermato, infine, l’obbligo di compilazione del quadro RW anche nel caso in cui le cripto-valute siano detenute su chiavetta Usb, sul telefonino o sul pc. In tal caso nella colonna 3 («Codice individuazione bene») deve essere indicato il codice 14 («Altre attività estere di natura finanziaria»), senza compilare la colonna 4 («Codice Paese estero») e l’esclusione dall’obbligo di corrispondere l’Ivafe e l’imposta di bollo.

Regime dal 1° gennaio 2023

Con il nuovo articolo 67, comma 1, lettera c-sexies), tutte le rappresentazioni digitali di valore o di diritti che non sono suscettibili di rientrare in una definizione civilistica di strumento finanziario rientrano nella definizione di cripto-attività e sono suscettibili di generare una unica nuova categoria di reddito diverso.

In particolare, sono comprese in questa categoria reddituale, oltre ai proventi e le plusvalenze derivanti dalle operazioni criptovalute, dagli utility token e dallo staking, assumeranno rilevanza anche le operazioni aventi per oggetto i non financial token (Nft), in quanto si tratta comunque di rappresentazioni digitali di valori.

Non rientrano, invece, nel nuovo regime i redditi derivanti dagli investment token (o security token) che corrispondano ad uno strumento finanziario previsto dalla Mifid II, in quanto tali token devono essere considerati a tutti gli effetti strumenti finanziari, indipendentemente dalla circostanza che siano rappresentati digitalmente. Ai redditi degli strumenti finanziari digitali di cui all’articolo 2 del Dl 25 del 2023 non si applicano le disposizioni per le cripto-attività, ma quelle sui redditi di capitale e sui redditi diversi applicabili agli strumenti finanziari rappresentati.

Vengono illustrate le modalità di opzione per il regime amministrato o gestito presso i service provider residenti in Italia.

Vengono anche illustrati i regimi speciali di rideterminazione del costo delle cripto-attività al 31 dicembre 2022 e di regolarizzazione delle violazioni commesse fino al 31 dicembre 2021 (redditi e RW).

La bozza di circolare contiene anche utili indicazioni per individuare i presupposti di territorialità dei redditi conseguenti ad operazioni in cripto-attività.

La regola applicabile ai redditi di cui all’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies è quella ordinariamente prevista dall’articolo 23, comma 1, lettera f; quindi, nei confronti dei soggetti non residenti si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi diversi derivanti dalle cripto-attività che si trovano in Italia.

Più nello specifico è chiarito che sono imponibili in Italia, non solo i redditi derivanti da cripto-attività archiviate su supporti informatici detenuti in Italia, ma anche i redditi derivanti da operazioni poste in essere attraverso i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale e i prestatori di servizi di portafoglio digitale purché residenti in Italia.

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