Verso un regolamento Ue sulle criptovalute

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 27 maggio 2021 di Alessandro Galimberti

La risposta del ministero dell’Economia in commissione Finanze

Per le criptovalute serve una legislazione tributaria chiara, omogenea ma che soprattutto parta dal presupposto che si tratta – vedasi i recenti rally di Bitcoin – non di moneta digitale bensì di «criptoattività di natura altamente speculativa e senza alcun sottostante a sostegno del suo valore» come segnalato recentemente da Banca d’Italia e Consob.

È questa in sintesi la posizione del Mef sull’interrogazione a risposta scritta presentata in Commissione finanze da un gruppo di parlamentari M5S, preoccupati dall’assenza di normative di riferimento che si traducono in chance perse per gli imprenditori delle nuove attività (mining, staking, yeld-farming e NFT) e per gli investitori internazionali.

Oltre a ribadire l’inquadramento fiscale per le operazioni in criptovalute – articolo 67.1 c-ter del Testo unico delle imposte sul reddito, e cioè “redditi diversi”, plusvalenze comprese – il ministro sottolinea che a livello internazionale ferve un dibattito molto acceso per definire l’ambito fiscale dei nuovi cripto-asset e il relativo inquadramento giuridico. In particolare, nel settembre dello scorso anno è stata presentata in sede Ue la proposta di Regolamento MicaMarket in crypto assets per «l’elaborazione di un quadro giuridico solido e omogeneo in ambito Ue» volto, tra gli altri scopi, a «tutelare i cittadini e la stabilità del sistema finanziario». Tale proposta di Regolamento è attualmente «oggetto di negoziato in sede di Consiglio Ue». e, una volta approvata, sarebbe automaticamente self-executive all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, ricorda il Mef.

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Primo set ad Amazon: legittimo l’accordo con il Lussemburgo

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 13 maggio 2021 di Alessandro Germani

TRIBUNALE UE

No a vantaggi illegittimi La replica di Vestager: riflettiamo su mosse

Sentenze di tenore opposto del Tribunale Ue su contestazioni della Commissione europea ad Amazon e Engie.

Lo sfruttamento dei marchi di Amazon è avvenuto attraverso due società lussemburghesi e la royalty era basata su un ruling determinato con l’applicazione del Tnmm (transactional net margin method). Nel 2017 la Commissione europea ha stabilito che questo ruling costituiva un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno. Essendo, infatti, la royalty troppo elevata, la società che la corrispondeva (LuxOpco) aveva beneficiato di una riduzione di base imponibile.

Il Lussemburgo e il gruppo Amazon hanno contestato la decisione, trovando accoglimento presso il Tribunale Ue. In primis in questi casi occorre confrontare l’onere fiscale con quello di una società che opera in condizioni di mercato e solo in presenza di errori che viziano il prezzo intercompany con riduzione dell’utile la Commissione potrebbe agire. Il Tribunale contesta l’analisi funzionale (rischi-benefici) svolta sulla società che ha dato in licenza il marchio (LuxSCS), anche perché la sua prestazione non poteva essere considerata tra quelle «a basso valore aggiunto». In ogni caso per il Tribunale la Commissione non ha dimostrato la sottostima della base imponibile di LuxOpco. Dunque nessun vantaggio selettivo per la filiale lussemburghese. E, come si poteva immaginare, la sentenza ha suscitato subito una serie di reazioni. Alla soddisfazione dell’azienda e del Granducato, fa da contraltare la replica della vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager: «Analizzeremo attentamente la sentenza» e «rifletteremo su possibili mosse successive».

Ma, come anticipato, il Tribunale Ue si è pronunciato anche sulla vicenda di Engie. Il caso esaminato riguarda dei ruling su finanziamenti infragruppo relativi a entità lussemburghesi, a fronte di complesse strutture con emissione di azioni e prestiti obbligazionari convertibili fra una holding, una subsidiary e un intermediario, con la sola seconda che è tassata in base a ruling. Tutto ciò è stato contestato dalla Commissione e ha trovato accoglimento presso il Tribunale Ue. In questi casi, infatti, occorre andare oltre la formalistica rappresentazione dei singoli fatti per comprendere la realtà economica e fiscale della struttura. Nel constatare un vantaggio fiscale il Tribunale sottolinea che il trattamento fiscale preferenziale è prevalentemente il risultato della non applicazione di una misura nazionale relativa all’abuso del diritto

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Sulla diffusione di colloqui registrati gli altolà di privacy e Codice penale

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 17 maggio 2021 di Marisa Marraffino

RESPONSABILITÀ

Chi diffonde una telefonata senza un interesse legittimo può violare la riservatezza

È reato divulgare comunicazioni acquisite fraudolentemente

Bastano uno smartphone o una chiavetta usb per registrare conversazioni dal vivo o telefoniche e raccogliere informazioni, per poi utilizzarle e renderle pubbliche per le ragioni più diverse. Lo ha fatto di recente Fedez, nella diatriba con la Rai. Ma si tratta di una pratica che, per quanto diffusa, non sempre è lecita.

Il crinale dell’illecito civile

In generale è possibile registrare dialoghi se si è presenti alla conversazione, anche all’insaputa dei partecipanti. Così come è sempre legittimo registrare le telefonate a noi dirette. I contenuti delle registrazioni potrebbero servire, ad esempio, per difendersi in giudizio o per finalità di studio (Cassazione a Sezioni Unite, 36747 del 28 maggio 2003).

Diffondere una telefonata a noi diretta potrebbe però integrare una violazione della legge in materia di privacy (decreto legislativo 101/2018 che ha recepito il regolamento Ue Gdpr, 679/2016) in quanto la voce è un dato personale. Ma se esiste un legittimo interesse alla diffusione del video o della registrazione, come può essere quello di cronaca, non occorre il consenso degli interessati.

Per la Cassazione è anche legittimo mettere in vivavoce una conversazione telefonica senza avvertire l’interlocutore, perché chi intrattiene la telefonata accetta il rischio che il suo contenuto possa anche essere diffuso a terzi. Ma la condotta potrebbe – in certi casi – rappresentare un illecito civile o deontologico (Cassazione, 15003 del 27 febbraio 2013).

È possibile anche registrare le videoconferenze alle quali si partecipa per finalità private (di studio, di ricerca). Non è consentito, invece, divulgarle senza il consenso degli interessati, perché, nella maggior parte dei casi, è difficile sostenere il legittimo interesse alla divulgazione.

Un caso particolare è quello delle conversazioni tra il lavoratore e il suo datore di lavoro: per la giurisprudenza il lavoratore può sempre registrarle al fine di produrle in giudizio. Le registrazioni sono infatti riproduzioni meccaniche in base all’articolo 2712 del Codice civile e possono essere ammesse come prova nel processo civile. Le registrazioni quindi non integrano né un illecito civile né disciplinare (Corte d’appello di Milano, 369 del 20 febbraio 2019).

Quando si commette un reato

Non è invece consentito divulgare le conversazioni acquisite fraudolentemente senza il consenso degli interessati, a meno che la divulgazione non serva per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca, in base all’articolo 617-septies del Codice penale (Cassazione, 24288 del 10 giugno 2016). Per integrare il reato le registrazioni devono essere compiute «fraudolentemente», ad esempio da parte di persone che non erano presenti alla conversazione e con mezzi idonei a eludere la percezione di essere registrati.

Così anche lasciare un registratore acceso in una stanza, all’insaputa dei presenti, per registrare conversazioni tra terze persone è un reato. Può infatti integrare gli estremi dell’articolo 617 del Codice penale che punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque fraudolentemente prende cognizione di comunicazioni tra persone a lui non dirette. L’articolo 617 fa riferimento alle sole conversazioni telefoniche, ma va letto insieme all’articolo 623-bis, che allarga il campo a qualunque captazione illecita, non soltanto quelle telefoniche.

Commette il reato di cognizione illecita di comunicazioni, previsto dall’articolo 617 del Codice penale, anche il marito separato che, preoccupato per le interferenze pericolose della madre sui figli, registra le telefonate tra di loro, pur avendo avvertito la moglie delle sue intenzioni. La stessa pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni si applica a chi diffonde la telefonata (Cassazione, 41192 del 3 ottobre 2014).

Integra infine il reato di intercettazione abusiva di conversazioni, previsto dall’articolo 617-bis, comma 1, del Codice penale e punito con la reclusione da uno a quattro anni installare un programma spia nel telefono di qualcuno per registrare le conversazioni e leggere i messaggi (Cassazione, 15071 del 18 marzo 2019).

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