La dematerializzazione di quote delle Srl va prevista nello Statuto

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 13 Settembre 2025 di Mario Notari

Due nuove massime della Commissione società del Consiglio notarile di Milano (214 e 215 del 22 luglio 2025) chiariscono i dubbi interpretativi sulle quote dematerializzate di Srl.

La cosiddetta legge Capitali dello scorso anno (legge 21/2024) ha previsto che le quote di Srl Pmi possono esistere in forma scritturale in base all’articolo 83-bis del Tuf (Dlgs 58/1998). È, quindi, consentito assoggettare in via facoltativa le quote allo stesso regime delle azioni delle Spa quotate in borsa.

Sul piano sistematico, la novità è di grande rilevanza. Le quote di Srl, che siano standardizzate e che adottino la forma scritturale, finiscono infatti per sovrapporsi in tutto e per tutto alla nozione delle azioni di Spa con la medesima forma scritturale.

Al di là dei profili generali, la norma pone delicate questioni interpretative, che vengono esaminate dalle massime in questione. Anzitutto si afferma che la decisione volta ad adottare il regime della dematerializzazione deve necessariamente consistere in una modificazione dello statuto, mediante l’introduzione di un’apposita clausola.

La massima 214, inoltre, affronta l’aspetto forse di maggior incertezza interpretativa della novella. Si tratta della portata applicativa della dematerializzazione, al cui riguardo la massima afferma la legittimità di diverse ipotesi, che potrebbero sembrare non direttamente rientranti nella lettera della legge:

in primo luogo, si chiarisce che non può in alcun modo distinguersi tra le categorie speciali e le quote ordinarie: anche queste ultime, infatti, se vi sono altre categorie, costituiscono una categoria, e pertanto non vi sono motivi per negare l’ammissibilità della loro dematerializzazione;

in secondo luogo, si afferma che la dematerializzazione può riguardare tutte le categorie di quote in cui è suddiviso il capitale sociale: non è cioè necessario che vi sia almeno una categoria di quote non dematerializzate, né al limite almeno una sola quota non dematerializzata;

si sostiene inoltre che la dematerializzazione può essere prevista dallo statuto anche in mancanza di categorie di quote e, quindi, indistintamente per tutte le quote in cui è suddiviso il capitale;

infine, si ammette la dematerializzazione anche per le quote prive di indicazione del valore nominale, purché rappresentanti la medesima frazione del capitale sociale, analogamente a quanto dispone, per le azioni, l’articolo 2346, comma 2, Codice civile.

Al di là degli ulteriori problemi interpretativi affrontati dalle massime, vale la pena osservare che questa forma delle quote non riguarda la maggior parte delle Srl, con pochi soci e con ridotta circolazione delle quote. Essa potrebbe invece diventare molto interessante per i casi di società con un alto numero di soci e con loro possibile variabilità, vuoi perché raccolgono capitali con forme di crowdfunding, vuoi perché si aprono a mutevoli forme di partecipazione, come avviene per consorzi in forma di Srl o per società che si ritirano dal mercato pur mantenendo molti soci.

È chiaro che in tutti in questi casi l’aspetto decisivo consisterà nei costi di adesione al sistema multilaterale di negoziazione (a carico della società) e al ricorso agli intermediari autorizzati (a carico dei soci). È su questo terreno che si vedrà se il nuovo istituto rimarrà sulla carta oppure rappresenterà una valida alternativa alle quote iscritte nel registro delle imprese.

Professore di diritto commerciale all’università Bocconi, Notaio in Milano, Coordinatore della Commissione Società

del Consiglio Notarile di Milano

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Sul tabellone turni non indicabili i motivi di assenza dei dipendenti

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 16 Settembre 2025 di Giampiero Falasca

Il datore di lavoro non può diffondere, neppure in forma di sigle o abbreviazioni, i motivi delle assenze dei dipendenti tramite bacheche aziendali o comunicazioni interne, in quanto queste comunicazioni violano il diritto alla riservatezza dei lavoratori. È questo il principio affermato dal Garante per la protezione dei dati personali con il provvedimento 363/2025 del 23 giugno scorso.

La vicenda prende avvio da un reclamo sindacale di alcuni lavoratori del settore trasporto, i quali lamentavano che l’azienda avesse reso conoscibili a tutto il personale le ragioni delle assenze, riportate nei turni affissi nei depositi e inviati via e-mail. Le tabelle indicavano sigle quali “MAL” (malattia), “INF” (infortunio), “104” (permesso legge 104/1992), “PS” (permesso sindacale), rendendo così accessibili informazioni idonee a rivelare lo stato di salute o l’appartenenza sindacale dei colleghi.

La società ha sostenuto che l’uso di sigle garantiva trasparenza e preveniva conflitti tra i lavoratori chiamati a sostituire i colleghi assenti, e ha richiamato l’articolo 10 della legge 138/1958, che impone alle imprese di trasporto di affiggere i turni di servizio. Nel corso del procedimento presso il Garante, ha comunque modificato la prassi, sostituendo le sigle con la sola lettera “A”, a indicare genericamente l’assenza.

Il Garante ha ritenuto tale trattamento illecito, sottolineando che la comunicazione dei motivi dell’assenza integra una violazione dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c (principio di minimizzazione) e dell’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento Ue 2016/679 (il Gdpr). La normativa consente al datore di trattare dati particolari – come quelli relativi a salute o sindacato – solo se necessario per adempiere a obblighi di legge o contrattuali. Nel caso esaminato, l’indicazione delle cause dell’assenza non era indispensabile alla gestione della turnazione.

Il richiamo all’articolo 10 della legge 138/1958 non è stato ritenuto idoneo a fondare la liceità del trattamento: la disposizione si limita a prevedere l’affissione dei turni di servizio, senza autorizzare la divulgazione dei motivi di assenza. Ne consegue che i colleghi non possono essere considerati soggetti legittimati ad accedere a dati di natura sanitaria o sindacale, che devono rimanere riservati a chi è autorizzato al trattamento.

L’Autorità ha inoltre richiamato i propri precedenti (provvedimenti 341/2014 e 105/2020), nei quali era già stato affermato che i lavoratori non sono legittimati a conoscere i dettagli delle assenze dei colleghi, proprio perché si tratta di dati eccedenti e sensibili. Le linee guida del 2007 sul trattamento dei dati dei dipendenti in ambito pubblico sono state ribadite come parametro interpretativo valido anche per i datori di lavoro privati.

Alla luce di tali rilievi, il Garante ha dichiarato illecito il trattamento e, applicando i criteri del Gdpr, ha comminato una sanzione amministrativa pecuniaria di 10mila euro. È stata altresì disposta la pubblicazione del provvedimento sul sito istituzionale, a fini dissuasivi e di trasparenza.

La decisione consolida un orientamento: l’esigenza di informare il personale sull’organizzazione dei turni non legittima la diffusione di dati sensibili eccedenti. La regola resta quella della minimizzazione, cioè l’informazione deve essere limitata a quanto strettamente necessario allo svolgimento del rapporto di lavoro.

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Se si autorizza un pagamento la banca non è tenuta al rimborso

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 27 Settembre 2025 di Antonio Criscione

DECISIONI ABF

Con il bonifico istantaneo è vietato sbagliare. L’Arbitro bancario finanziario (Abf) che si è espresso già alcune volte sul tema del bonifico istantaneo, ha dato torto al titolare del conto, anche quando era stato indotto a fare il bonifico con una truffa. Rincorrere il truffatore è praticamente impossibile, ma quando si fa qualcosa in modo cosciente e deliberato non è possibile neanche rifarsi con la banca.

Andiamo con ordine. Il bonifico istantaneo permette di trasferire denaro sul conto del beneficiario in meno di dieci secondi. Può essere fatto in qualsiasi momento, tutti i giorni dell’anno, 24 ore al giorno. «Non ci sono – afferma l’avvocato Letizia Vescovini – limiti all’importo del bonifico istantaneo ma normalmente è consigliato fissare un importo massimo a garanzia della sicurezza della transazioni: la possibilità di impostare limiti personalizzati, sia a livello giornaliero sia per singola operazione, liberamente modificabili in qualsiasi momento è uno strumento di protezione del titolare del conto».

Per contrastare le truffe dal prossimo 9 ottobre 2025, tutti gli operatori dovranno consentire all’utente di verificare la corrispondenza dell’Iban indicato e del nome del beneficiario, prima di autorizzare l’operazione tramite bonifico istantaneo, senza alcun costo aggiuntivo (meccanismo del “Verification of Payee“). «Questo preventivo controllo – aggiunge Vescovini – potrà limitare gli errori ma non sempre proteggerà i clienti bancari dalle truffe, frodi sempre più diffuse visto che alle tecniche di frode tradizionali si sono affiancate tecniche di cosiddetto social engineering. Le indicazioni che emergono dalle decisioni dell’Abf vanno nel senso che se il cliente è indotto in modo truffaldino a disporre un bonifico a favore di un terzo, con l’inserimento volontario delle credenziali la banca è esonerata da responsabilità».

In questo senso va la decisione 12842 del 13.12.2024 del collegio Abf di Milano nel caso di una truffa denominata “social hacking” che si caratterizza in quanto le istruzioni manipolative vengono impartite telefonicamente dal terzo “truffatore” al titolare del rapporto, lasciando che sia lo stesso titolare a disporre e ad autenticare il pagamento senza che il truffatore venga a conoscenza dei codici di accesso. La tutela del cliente rispetto alla banca c’è se si tratta di operazioni non autorizzate, ma se l’operazione è autorizzata dall’utilizzatore, non ci si può rivalere sull’intermediario. Anche il Collegio di Roma (decisione n. 1907/2021) in una vertenza analoga, ha ritenuto che «per quanto la volontà del cliente di effettuare tale operazione sia stata viziata per effetto del raggiro subìto dal terzo ignoto, il previo consenso autorizzativo dell’istante appare dirimente per escludere la natura indebita del pagamento e, correlativamente, l’esistenza di un obbligo restitutorio in capo alla convenuta».

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Email personale inviolabile anche se sul server aziendale

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 4 Settembre 2025 di Giuseppe Bulgarini d’Elci

L’accesso alla posta elettronica personale dei lavoratori non è consentito al datore di lavoro per finalità difensive, neppure se le email sono state rinvenute sul server aziendale e sul personal computer assegnato ai dipendenti.

È da respingere la tesi per cui, essendo il datore titolare dei sistemi informatici aziendali sui quali erano confluite le comunicazioni personali degli account privati dei lavoratori, si trattava di corrispondenza “aperta” che, come tale, il datore poteva utilizzare in sede giudiziale. Al contrario, si deve ritenere che gli account privati dei dipendenti conservino il carattere di corrispondenza “chiusa” anche se i lavoratori hanno utilizzato il personal computer in dotazione per la posta elettronica personale e le loro comunicazioni sono confluite sul server aziendale.

Per la Cassazione (sentenza 24204/2025), è dirimente che le comunicazioni acquisite dal datore provenissero da account di posta elettronica personali dei lavoratori protetti da una password, perché, sebbene essi fossero inseriti sul server aziendale, si tratta comunque di espressione della vita privata e di diritto di corrispondenza tutelati, tra l’altro, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 8).

La causa è stata promossa dal datore di lavoro per atti di concorrenza sleale e violazione dei doveri di fedeltà e diligenza da parte di alcuni dipendenti che, nel frattempo, hanno interrotto il rapporto. Per supportare la domanda risarcitoria, il datore ha prodotto una consulenza tecnica informatica contenente le email private dei lavoratori. In primo grado il ricorso dell’azienda è stato parzialmente accolto e i lavoratori, una volta accertate la concorrenza sleale e le condotte infedeli, condannati a risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni ricevute nell’ultima fase dei rapporti di lavoro (incluse le competenze di fine rapporto).

La Corte d’appello di Milano ha riformato la decisione, ritenendo inutilizzabili gli esiti della consulenza informatica, perché l’accesso agli account privati dei lavoratori, benché inseriti sul server aziendale, costituisce violazione del diritto di vita privata e di corrispondenza. La Cassazione conferma la sentenza e rimarca che le comunicazioni dei dipendenti tramite l’account privato ricadono nelle nozioni di “vita privata” e di “corrispondenza” anche se sono trasmesse dai locali aziendali e non sono utilizzabili per un’azione giudiziale risarcitoria.

Nel bilanciamento dei contrapposti interessi, il controllo datoriale soggiace ai limiti della proporzionalità (nel senso di utilizzo della modalità meno intrusiva) e della preventiva informazione ai lavoratori sui possibili controlli. Nel rispetto di questi limiti, cui il datore è tenuto a presidio della riservatezza dei dipendenti, è illegittima la conservazione dei dati personali dei lavoratori relativi alla posta elettronica privata, tanto più se acquisiti mediante sistemi di controllo rispetto ai quali non è stata osservata la procedura dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e non è stato raccolto il consenso individuale.

Il trattamento dei dati relativi alle email estratte dagli account privati, in assenza di queste condizioni, costituisce, altresì, violazione del divieto di indagini sulle opinioni e sulla vita personale del lavoratore.

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Decreto Consiliare 26 settembre 2025 nr 121 – Ratifica dell’Accordo tra il Governo della Repubblica di San Marino e il Consiglio Federale Svizzero relativo allo scambio di giovani lavoratori

8 Ottobre 2025

Si allega il testo completo del Decreto Consiliare con allegato l’Accordo tra San Marino e  la Confederazione Elvetica in merito allo scambio di giovani lavoratori dai 18 ai 35 anni.

L’Accordo, nato con l’ obiettivo di creare percorsi professionali e culturali che arricchiscano le competenze dei giovani e rafforzino i legami bilaterali tra i due Paesi, prevede la possibilità per giovani cittadini sammarinesi e svizzeri di lavorare per un periodo determinato nel Paese partner.

Lo scambio, di un numero di giovani non superiore a 20, è regolato da una procedura amministrativa condivisa tra le autorità competenti dei due Stati.

Per tutti gli interessati ai dettagli del caso si rimanda agli articoli 4 e 5 dell’Accordo allegato.

DC121-2025+All

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Decreto Consiliare 26 Settembre 2025 nr 117- Ratifica della Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali

8 Ottobre 2025

Con il Decreto Consiliare 117/2025 viene data ratifica alla Convenzione di Parigi firmata nel 1970 che mira a contrastare il traffico illecito di beni culturali  e a favorire la loro restituzione ai Paesi di origine.

Gli Stati che aderiscono alla  Convenzione riconoscono che l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni culturali costituiscono una delle cause principali di impoverimento del patrimonio culturale dei paesi d’origine e mirano quindi ad una collaborazione internazionale (promossa dall’UNESCO) per proteggere i rispettivi  patrimoni culturali contro tutti i pericoli che le condotte irregolari possono causare.

Tale documento rappresenta una tutela aggiuntiva sia per il patrimonio culturale della Repubblica di San Marino sia per lo sviluppo futuro dei servizi museali e l’arte in genere.

DC117-2025+All

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Circolare Prot. nr 5305/25 Dipartimento Prevenzione ISS

8 Ottobre 2025

Dal primo settembre 2025 è in vigore anche in territorio sammarinese il Regolamento UE 2025/877 che vieta l’utilizzo nei prodotti cosmetici dei TPO (TrimethylbenzoylDiphenylphosphineOxide) e dei DMTA (Dimethyltolamine),  sostanze tossiche considerate cancerogene, mutagene e tossiche per la riproduzione

Si allega la Circolare emessa dal Dipartimento di Prevenzione dell’ISS

Circ. Prot nr 5305 Reg (UE) n. 2025-877

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Controlli sul dipendente poco efficiente

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 11 Settembre 2025 di Angelo Zambelli

Lo scarso rendimento può giustificare il controllo del dipendente tramite agenzia investigativa. La Corte di cassazione (ordinanza 24564/2025 riguardante il licenziamento di un “letturista”), conferma che il controllo tramite investigatori è legittimo se volto ad accertare comportamenti «che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente», come tali estranei alla ordinaria attività lavorativa.

Ciò premesso, la Corte prosegue distinguendo tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale e i «controlli difensivi in senso stretto»: i primi, riguardando tutti i dipendenti «nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio», devono necessariamente rispettare le prescrizioni dell’articolo 4, dello Statuto dei lavoratori, mentre i secondi non sono soggetti alle restrizioni previste da tale norma, trovando la loro giustificazione nella presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito: solo a partire dal sorgere di quel sospetto il controllo “mirato” è legittimo.

In questo caso, conclude la Corte, prima dei fatti specificamente contestati, il datore di lavoro disponeva già di elementi – quali un inspiegato minor rendimento del lavoratore rispetto ai colleghi – che ne legittimavano un controllo più specifico e mirato. Tale controllo, effettuato con uno strumento di indagine «che risulta essere il meno invasivo tra quelli concretamente disponibili e comunque utili allo scopo», ha permesso di accertare condotte «non prive di note di fraudolenza», legittimando quindi il licenziamento per giusta causa.

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Transfer pricing, sotto esame i requisiti per la rilevanza Iva

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 1 Ottobre 2025 di Massimo Bellini Stefano Pavesi

La sentenza della Corte di giustizia Ue nella causa C-726/23 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 settembre) e le più recenti risposte pubblicate dall’agenzia delle Entrate (ad esempio 60/2018, 884/2021, 529/2021, 266/2024 e 214/2025) suggeriscono una attenta riflessione sul comportamento da adottare ai fini Iva in presenza di aggiustamenti sui prezzi di trasferimento.

La posizione dei giudici Ue e della prassi italiana, nel riconoscere la possibile rilevanza Iva degli aggiustamenti Tp, è coerente con i principi unionali espressi nei working paper del 2017 e 2018, ma attribuisce rilevanza anche agli aspetti documentali. Questi gli aspetti principali.

Innanzitutto i casi vanno valutati specificamente, tenendo conto di tutte le circostanze che concretamente caratterizzano l’operazione in questione tra cui, in particolare, la sua realtà economica e commerciale.

Vi sono poi tre requisiti che, qualora soddisfatti, rendono l’aggiustamento Tp rilevante ai fini Iva:

1 devono essere individuate le cessioni di beni o prestazione di servizi: in entrambi i casi (ma il tema sembra essere più rilevante per i servizi) il contribuente deve essere in grado di predisporre adeguata documentazione comprovante le prestazioni effettuate in aggiunta alla sola fattura (se essa non è idonea a fornire tale dimostrazione). È importante sottolineare che secondo i giudici europei le prove devono comunque limitarsi al necessario ed essere proporzionate per tale valutazione;

2 vi è un nesso diretto tra la cessione/prestazione e l’aggiustamento Tp, che deve avere funzione di corrispettivo realmente percepito dal cedente/prestatore. La valutazione è qualitativa, non quantitativa, in quanto volta ad individuare se l’aggiustamento Tp costituisca l’assolvimento di un obbligo/corrispettivo di una cessione/prestazione;

3 devono essere specificamente individuate le operazioni rilevanti a cui l’aggiustamento/corrispettivo è collegato.

Anche sotto quest’ultimo aspetto la documentazione è essenziale per supportare l’approccio del contribuente. In tal senso sarà importante avere un contratto intercompany da cui si evince un prezzo iniziale e provvisorio oggetto di periodica revisione, e altri documenti da cui si evinca la allocazione analitica delle singole rettifiche sulle varie operazioni, ad esempio in caso di cessione di beni, un prospetto di ripartizione dell’aggiustamento sul valore dei singoli beni. Si ritiene che anche la predisposizione degli oneri documentali di Tp contribuisca a supportare l’approccio adottato. Si noti che non è il metodo adottato a determinare la rilevanza Iva degli aggiustamenti ma la natura che la politica di Tp attribuisce agli stessi. Anche applicando una metodologia reddituale come il Tnmm, è possibile dare rilevanza Iva agli aggiustamenti qualora gli stessi vengano ripartiti sulle sottostanti compravendite di beni o servizi.

Pertanto in assenza di questi requisiti, gli aggiustamenti non rilevano ai fini Iva. Riprendendo ad esempio un dubbio sollevato sul caso della causa C-726/23, qualora il corrispettivo sia nullo o addirittura negativo, l’operazione non dovrebbe rilevare ai fini Iva (anche se il tema non è affrontato da giudici e non lo è adeguatamente da parte dell’avvocato generale Ue).

Infine occorre considerare che la rilevanza Iva degli aggiustamenti Tp per alcuni soggetti può avere effetti finanziari significativi. Si pensi in particolare ai casi in cui l’aggiustamento riguarda le operazioni esenti o imponibili di operatori che soffrono il pro-rata di detrazione o le operazioni verso l’estero effettuate da esportatori abituali.

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Prova della residenza estera anche senza iscrizione Aire

8 Ottobre 2025

Il Sole 24 Ore 29 Settembre 2025 di Michela Magnani

Fiscalità internazionale

Nel 2024, ho vissuto per oltre 183 giorni in Polonia, avendovi un contratto a tempo indeterminato dal 1° febbraio 2024 e un contratto di affitto dal 1° gennaio al 31 dicembre 2024, e avendo quel Paese come centro degli interessi personali ed economici. Lo Stato polacco mi considera fiscalmente residente e mi ha rilasciato il certificato di residenza fiscale. Poiché, però, non mi sono iscritto all’Aire, formalmente risulto residente anche in Italia. Tuttavia, secondo la convenzione Italia-Polonia contro le doppie imposizioni (articolo 4), sarei da considerare residente fiscale in Polonia (abitazione permanente, interessi vitali e soggiorno abituale). Non ho familiari né immobili in Italia, e il mio unico reddito proviene dal lavoro in Polonia. In questa situazione, devo comunque presentare la dichiarazione dei redditi 2025 (relativa al 2024) anche in Italia?

Secondo l’articolo 2, comma 2, del Tuir (Dpr 917/1986), come modificato dal Dlgs 209/2023, e in vigore dal 1° gennaio 2024, e come precisato dalla circolare dell’agenzia delle Entrate 20/E/2024, si considerano fiscalmente residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno, o 184 giorni, in caso di anno bisestile):

– hanno la residenza, a norma del Codice civile, nel territorio dello Stato;

– hanno il domicilio, nella definizione resa dal medesimo articolo 2, comma 2, del Tuir, nel territorio dello Stato;

– sono presenti nel territorio dello Stato, tenuto conto anche delle frazioni di giorno;

– sono iscritte nell’anagrafe della popolazione residente, condizione, quest’ultima, che, dopo le modifiche apportate dal Dlgs citato, non riveste più carattere di “presunzione assoluta”, bensì di “presunzione relativa”, che ammette la prova contraria.

In merito alla mancata iscrizione all’Aire, il paragrafo 2.1.4 della circolare citata sottolinea che, in base alla nuova norma (che si applica alla fattispecie rappresentata dal lettore), l’iscrizione all’Apr (anagrafe della popolazione residente) continua a costituire uno dei criteri alternativi di radicamento della residenza fiscale in Italia, ma ne viene mitigata la valenza presuntiva a favore di un approccio sostanziale, anche in ragione della prevalenza del diritto internazionale pattizio su quello interno. Infatti, anche in vigenza della precedente normativa, il dato formale dell’iscrizione anagrafica poteva essere superato in applicazione delle “tie breaker rules” (criteri di collegamento della persona allo Stato) dettate da eventuali convenzioni contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e il Paese di volta in volta interessato.

Per effetto delle disposizioni in vigore dal 1° gennaio 2024, il presupposto dell’iscrizione all’Apr assume, quindi, efficacia di presunzione relativa, lasciando al contribuente la possibilità di dimostrare che il dato formale è disatteso da una differente situazione fattuale. Di conseguenza, le persone iscritte nell’anagrafe della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta continuano a essere considerate fiscalmente residenti in Italia, a meno che non siano in grado di dimostrare che l’iscrizione anagrafica non corrisponde a una residenza effettiva nello Stato italiano. A tale fine, secondo la circolare citata, il contribuente dev’essere in grado di provare, sulla base di elementi oggettivamente riscontrabili, che, per la maggior parte del periodo d’imposta, non si sia configurato alcuno dei criteri alternativi, diversi da quello anagrafico, previsti dall’articolo 2, comma 2, del Tuir.

Se, quindi, sulla base di un riscontro fattuale, il lettore è in grado di dimostrare che, per la maggior parte del periodo di imposta, non ha avuto in Italia né la residenza civilistica né il domicilio, e non è stato presente fisicamente nel territorio dello Stato, egli, nel 2024, sarà da considerare non residente nel nostro Paese e non sarà, pertanto, tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi, qualora, nello stesso anno, non abbia percepito redditi che, ex articolo 23 del Tuir, si considerano prodotti in Italia da parte di un soggetto non residente.

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