Categoria: In primo piano
DECRETO LEGGE 17 Ottobre 2018 nr 133
9 Novembre 2018
Differimento dei termini per la presentazione della dichiarazione e del pagamento dell’imposta straordinaria sui patrimoni immobiliari e mobiliari di cui al D.D. 25 Giugno 2018 nr 71
Il D.L. nr 133 del 17 Ottobre 2018 posticipa i termini di versamento dell’Imposta Patrimoniale Straordinaria al 30/11/2018.
Tale termine riguarda il pagamento dell’imposta in un’unica soluzione e, nel caso di importo maggiore a € 1.000,00 del versamento della prima rata.
Rimane invariata la scadenza del versamento della seconda rata da effettuarsi entro il 20/12/2018.
Decreto Legge 17 Ottobre 2018 nr 133
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Circolare Applicativa D.D. 25 Giugno 2018 nr 71 Imposta Straordinaria sui Patrimoni Immobiliari e Mobiliari
9 Novembre 2018
Si allega il testo completo della Circolare Applicativa dell’Imposta Straordinaria sui Patrimoni Immobiliari e Mobiliari ricordando che il 31/10/2018 è il termine ultimo per il pagamento in un’unica soluzione se l’imposta è di importo inferiore a € 1.000,00; se l’imposta, invece, risulta essere superiore a € 1.000,00 il contribuente può optare per un versamento in due rate di pari importo, da effettuarsi entro il 31/10/18 ed entro il 20/12/2018.
Circolare Applicativa Imposta Straordinaria
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SALES AND USE TAX DOVUTA SULLE VENDITE ON-LINE NEGLI USA ANCHE IN ASSENZA DI UNA PRESENZA FISICA SUL TERRITORIO DELLO STATO
9 Novembre 2018
Il 21 Giugno 2018 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (“USA”) si è pronunciata sul caso South Dakota v. Wayfair, Inc. (https://www.supremecourt.gov/opinions/17pdf/17- 494_j4el.pdf) ed ha sancito la possibilità di applicare la Sales and Use Tax (i.e. l’imposta statale sulle vendite B2C) alle vendite on-line negli USA sulla base della sola presenza economica dell’impresa venditrice e, quindi, anche in assenza di una presenza fisica della stessa sul territorio dello Stato USA di esecuzione delle vendite.
La pronuncia della Corte sostanzialmente conferma l’operato di diversi Stati USA che, a partire dal 2016, hanno tassato le vendite on-line eseguite da imprese ubicate fuori dal loro territorio statale le quali, sebbene prive di una presenza fisica sul territorio, soddisfavano alcuni criteri indicativi di una loro presenza economica all’interno dello Stato (ad esempio, il superamento di determinati volumi di fatturato). In tale modo, gli Stati USA hanno inteso recuperare il gettito fiscale perso a fronte della diffusione del commercio elettronico.
All’interno della sopramenzionata sentenza, la Corte Suprema degli USA ha infatti riconosciuto che la regola basata sulla presenza fisica (cd. “Quill rule”) non risulta più adeguata alla realtà economica generatasi con la diffusione del commercio elettronico e che anzi, in questa nuova realtà, tale regola è idonea a creare distorsioni sul mercato.
Pertanto, se fino ad oggi era pacifico che, negli USA, la Sales and Use Tax fosse dovuta solo da imprese venditrici aventi una presenza fisica sul territorio dello Stato USA di esecuzione delle vendite, da oggi anche il remote seller può essere tenuto ad applicare e versare la Sales and Use Tax qualora:
- lo Stato USA di esecuzione delle vendite abbia approvato una legge che prevede l’assoggettamento delle vendite a Sales and Use Tax in base alla regola della sola presenza economica; e
- l’impresa venditrice soddisfi i criteri idonei ad integrare una tale forma di presenza.
Attualmente, 11 Stati USA hanno già approvato nuove norme basate sulla regola della presenza economica, mentre tali nuove norme sono in fase di approvazione in altri 10 Stati.
Alla luce di quanto sopra, le imprese sammarinesi che intendono vendere i propri prodotti on-line negli USA dovranno pertanto porre molta attenzione agli sviluppi in materia di Sales and Use Tax, al fine di verificare la normativa statale in vigore in ciascuno Stato USA in cui le stesse prevedono di vendere i loro prodotti.
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Decreto Delegato 24 Settembre 2018 nr 122- Introduzione della residenza ordinaria per lavoratori frontalieri
9 Novembre 2018
Si allega il testo completo del Decreto Delegato 24 Settembre 2018 nr 122 che esplica le modalità con le quali, entro novembre e dicembre di ogni anno, i lavoratori frontalieri titolari di un rapporto di lavoro subordinato indeterminato e che abbiano svolto negli ultimi 15 anni attività lavorativa in modo continuativa o presso uno o più operatori senza interruzioni superiori a 15 giorni, possono presentare domanda presso lo Stato Civile.
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La presunzione dell’esterovestizione può diventare indizio di un reato
9 Novembre 2018
Il Sole 24 Ore 27 SETTEMBRE 2018 di Laura Ambrosi
CASSAZIONE
È necessario che la natura fittizia della sede in Italia sia ricostruita con dati di fatto
Gli indizi utilizzati ai fini fiscali per presumere l’esterovestizione di una società possono essere idonei anche ai fini penali se consentono, in base ad un ragionamento logico e non contraddittorio, di concludere che la sede effettiva della impresa non sia all’estero ma in Italia. Ne consegue che la titolarità di un rapporto di conto corrente in Italia utilizzato per gran parte delle operazioni, l’assenza di un contratto di locazione dei locali della sede estera per tutto il periodo di operatività della società, lo svolgimento in Italia da parte del rappresentante legale di una contemporanea attività, possono legittimamente contribuire al convincimento del giudice penale circa la natura solo fittizia della sede all’estero.
A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 41683 depositata ieri.
Nei confronti di una società sammarinese veniva ipotizzata l’effettiva sede in Italia: oltre alle conseguenze di natura fiscale, il legale rappresentante era perseguito penalmente per omessa presentazione della dichiarazione e per occultamento o distruzione di scritture contabili. In particolare, quest’ultimo delitto derivava dal rinvenimento di alcuni documenti fiscali della società presso terzi che non erano stati invece forniti all’amministrazione finanziaria né erano reperibili presso la sede estera.
Il rappresentante legale era assolto per l’omessa dichiarazione, stante il mancato superamento della soglia di punibilità, mentre era condannato nei due gradi di giudizio per l’occultamento delle scritture contabili. Ricorreva pertanto in cassazione lamentando, tra l’altro, che per giungere alla condanna il giudice penale di fatto aveva applicato le presunzioni tributarie previste dalla normativa fiscale in tema di esterovestizione prive di valore in sede penale.
La Cassazione ha respinto il ricorso rilevando che la decisione della Corte di appello in realtà aveva desunto la natura fittizia della sede legale della società da precisi dati di fatto: la titolarità di rapporti di conto corrente bancario sia in Italia che a San Marino, con l’utilizzo di quelli accesi in Italia per la gran parte delle operazioni; la testimonianza dell’unica dipendente della società che aveva riferito di aver avuto esclusivamente contatti con un avvocato e non con il legale rappresentante; il contemporaneo svolgimento da parte dell’imputato di un’attività in Italia ove era stata aperta una seconda sede; l’esibizione di un contratto di locazione finanziaria di soli due anni di un capannone a San Marino a fronte di una operatività societaria di circa nove anni; la documentazione mancante non depositata presso la sede estera della società.
I giudici di legittimità hanno così rilevato che, ai fini della contestazione della esterovestizione, non erano state utilizzate presunzioni tributarie di matrice civilistica, ma indizi di matrice penalistica. In altre parole, il giudice di merito non aveva fatto ricorso ad alcuna presunzione tributaria, ma aveva ricostruito in modo autonomo e dettagliato i fatti, desumendo con ragionamento per nulla contraddittorio né illogico che la sede effettiva della società sammarinese fosse situata in Italia. Da qui la conferma della condanna.
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L’Iva è collegata all’immobile
9 Novembre 2018
Il Sole 24 Ore 25 SETTEMBRE 2018 di Gian Paolo Tosoni
il Principio di diritto n. 2 delle entrate
Il caso riguarda un soggetto non residente che organizza congressi o eventi simili
Un soggetto non residente che organizza un congresso o eventi simili in Italia, che richieda l’utilizzo di un immobile, assolve l’Iva in Italia. Lo precisano le Entrate con il «Principio di diritto n. 2» pubblicato ieri nella nuova sezione del sito internet. Il caso riguarda la concessione a titolo oneroso dell’uso di beni immobili situati in Italia destinati alla attività congressuale e alla organizzazione di eventi; inevitabilmente tale attività richiede anche la prestazione di servizi. Immaginiamo l’accoglienza e l’assistenza anche con personale dedicato. La nota cita i servizi in occasione di eventi sportivi che si presumono forniti sempre unitamente alla concessione in uso di immobili.
L’Agenzia, sulla base del regolamento Ue n. 1042/2013, articolo 31 bis, ha precisato che qualora la prestazione di servizio abbia come elemento essenziale e indispensabile la concessione in uso dell’immobile e i servizi prestati sono in via accessoria, scatta l’applicazione dell’Iva nello Stato in cui si trova l’immobile in base all’articolo 7-quater del decreto Iva. L’accessorietà dei servizi, che presentano un nesso diretto con l’immobile, è misurata anche in relazione al loro valore economico. In sostanza, deve emergere che la concessione in uso del fabbricato è fondamentale per la prestazione del servizio, mentre le prestazioni accessorie devono essere funzionali (ancillari) alla concessione in uso dell’immobile. Essendo quindi la prestazione territorialmente rilevante in Italia, il soggetto non residente che deve assolvere l’Iva a favore del prestatore nazionale potrà chiedere il rimborso ai sensi dell’articolo 38 bis 2 o 38 ter del Dpr 633/72 a seconda che il committente sia un operatore economico residente nella Ue oppure in altri Stati extra Ue. Queste prestazioni presentano similitudini con l’organizzazione di fiere che però con le modifiche del regolamento Ue 1042, sono soggette a Iva nel Paese del committente rientrando nei servizi generici (circolare 26/6/2014).
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La fattura elettronica non prova il contratto
9 Novembre 2018
Il Sole 24 Ore lunedì 24 SETTEMBRE 2018 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce
La giurisprudenza ha negato al documento un valore probatorio dei rapporti giuridici costituiti: essendo una dichiarazione potrà rappresentare solo l’indizio dell’esistenza di una relazione commerciale
La fatturazione elettronica è adatta a migliorare le capacità di controllo e contrasto all’evasione, ma è anche e soprattutto un utile strumento di semplificazione amministrativa, contabile e gestionale, mantenendo tra le parti un ruolo servente rispetto alla costituzione del rapporto giuridico. Questo dovrebbe essere un aspetto di assoluto interesse per i contribuenti, chiamati a sfruttare un obbligo per trasformarlo in un’opportunità.
Molte delle domande inviate dai lettori alla casella email efattura@ilsole24ore.com si interrogano sul valore giuridico della fattura eleettronica. Ebbene, il valore giuridico di una fattura non cambia in ragione dello strumento di produzione, cartaceo o elettronico che sia. Tuttavia molti dei processi aziendali a rilevanza civilistica e commerciale sono stati strutturati e ruotano intorno al momento di emissione o di ricezione del documento contabile fattura. Si pensi all’erogazione di finanziamenti o all’avvio di pagamenti rateali o all’invididuazione del momento da cui decorrono termini di versamento o di esecuzione della prestazione contrattuale.
La circostanza che la fattura dovrà essere gestita – in ricezione e in emissione – in modalità esclusivamente elettronica determina come conseguenza quella della tracciabilità completa e automatizzata a fini fiscali di tutte le fasi del ciclo dell’ordine, ricordando comunque che nessun adempimento prescritto da norma di matrice fiscale è stato modificato.
Ad esempio, le regole circa la liquidazione dell’imposta, la contabilizzazione e la registrazione dei documenti, oppure l’esercizio del diritto alla detrazione, non sono cambiate rispetto alla gestione cartacea del documento. L’utilizzo di strumenti elettronici aumenta solamente il grado di compliance fiscale rispetto a tali regole operative. Prescindono quindi dalla natura analogica o elettronica del documento non solo le fasi del ciclo attivo e passivo, ma anche eventuali ulteriori processi allo stesso correlati di natura civilistica e commerciale.
Al riguardo è pacifica la posizione riscontrabile nella giurisprudenza di legittimità, oltre che di merito, circa il valore probatorio della fattura in relazione alla valida costituzione del rapporto giuridico certificato dal documento fiscale. La Cassazione, con la sentenza n.9542 del 18 aprile 2018, ha riconfermato da ultimo il proprio consolidato orientamento secondo cui la fattura commerciale – in quanto documento a formazione unilaterale e alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto – si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo: in pratica, consiste nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito. Quando tale rapporto è in contestazione, la fattura non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio. La fattura non è quindi costitutiva di un rapporto commerciale ma, al contrario, dal punto di vista civilistico è una dichiarazione, a formazione peraltro unilaterale, di fatti relativi ad un rapporto già costituito. In altri termini non è la fattura di per sé a determinare sussistenza e validità di un rapporto commerciale di per sé già formato e giuridicamente vincolante.
Queste considerazioni generali possono essere declinate rispetto alla fattura elettronica su due livelli.
Da un lato l’emissione in formato elettronico tramite un’infrastruttura pubblica evita incertezze sui tempi di ricezione del documento o sulla stessa ricezione.
Dall’altro lato, però, il valore giuridico della fattura resta quello di un atto unilaterale. Quindi, con l’occasione della fatturazione elettronica, è opportuno riconsiderare anche l’impatto e la rilevanza attribuita al documento fattura in determinati processi commerciali, i quali trovano fondamento e origine nell’accordo e nel contratto che le parti, a monte dell’operazione, hanno raggiunto e di cui la fattura costituisce solamente attestazione a rilevanza fiscale.
Subordinare l’avvio di processi aziendali e commerciali alla valida emissione della fattura vuol dire sottoporre ad una sorta di condizione sospensiva alcune attività che invece di per sé, in quanto originano da un contratto o da un accordo, sono già valide ed efficaci.
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Decreto Legge 6 agosto 2018 nr 103
10 Settembre 2018
Modifiche alla Legge 27 giugno 2013 nr 71 – Legge in materia di sostegno allo sviluppo economico – e al Decreto Delegato 24 aprile 2014 nr 63 – Decreto Delegato in applicazione degli articoli 18, 20, 28, 37 della Legge 27 giugno 2013 nr 71 – Legge in materia di sostegno allo sviluppo economico
Si allega testo completo del Decreto Legge riguardante la modifica alla disciplina delle residenze.
Decreto Legge 6 agosto 2018 nr 103
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Nella vendita di beni e servizi l’Iva segue l’attività principale
10 Settembre 2018
Il Sole 24 Ore 01 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi
CASSAZIONE
Il caso dell’impresa italiana che commercializza prodotti di un soggetto Ue
Se a fronte di un compenso determinato unitariamente, un soggetto italiano si impegna sia a vendere i prodotti di una impresa Ue, sia a offrire servizi accessori, ai fini Iva si configura un’unica operazione, con la conseguente applicazione per tutti i servizi del trattamento fiscale previsto per l’attività principale, nella specie in regime di esenzione.
A confermare questo interessante principio è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 20234 depositata ieri.
Una società italiana svolgeva attività di promozione e vendita di prodotti informatici (hardware e software) per conto di un soggetto estero. Emetteva così fatture senza Iva e, trovandosi in una posizione creditoria, presentava richiesta di rimborso. L’agenzia delle Entrate rigettava la richiesta. La società italiana impugnava il diniego e i giudici di merito, in entrambi i gradi, confermavano la legittimità del rimborso.
In particolare, secondo la Ctr, si era in presenza di un contratto di agenzia (e non di mandato come sostenuto dall’Ufficio) con la conseguenza che tutte le fatture emesse alla società Ue non dovevano essere soggette a Iva. Analogo regime andava applicato alle prestazioni accessorie poste a carico dell’impresa italiana, in quanto nella promozi one dei contratti per conto del proponente rientravano molteplici attività volte a sostenere, incrementare e invogliare l’acquisto del prodotto offerto.
L’Agenzia ricorreva per Cassazione lamentando, tra l’altro, la diversa qualificazione del contratto (di mandato e non di agenzia) tra le due società. I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso. Secondo l’ordinanza 20234, ha innanzitutto poca rilevanza la qualificazione giuridica del contratto essendo indubbio che la società italiana si interponesse tra l’impresa estera e l’acquirente finale e che lo scopo dei contraenti era la commercializzazione dei prodotti esteri. Tutti gli altri servizi avevano il solo fine di favorire la vendita del prodotto principale.
Il contratto stipulato aveva un’unica finalità, tanto è che il compenso pattuito era unitario rispetto all’attività complessivamente considerata, e non già per singoli servizi offerti. Tali prestazioni (amministrative e tecniche) infatti rientrano nel concetto di servizi accessori essendo unico l’obiettivo economico prefissato dai contraenti e unico anche l’interesse dei destinatari della prestazione, i quali senza i servizi accessori, non acquisterebbero il prodotto principale.
In conclusione, secondo la Cassazione, se il contratto con cui un soggetto italiano si impegna, per un compenso unitariamente determinato, a commercializzare prodotti di altro soggetto appartenente a Paese Ue, offrendo anche altri servizi tecnici e amministrativi costituenti il mezzo per la migliore fruizione dei prodotti commercializzati, ai fini Iva si configura un’unica operazione economica non potendosi scindere l’intermediazione dalle altre prestazioni da ritenersi accessorie. Ne consegue che il regime Iva applicabile è quello relativo al servizio principale nella specie di esenzione.
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Conti Ubs, dai giudici svizzeri stop alle liste di nominativi
10 Settembre 2018
Il Sole 24 Ore 03 AGOSTO 2018 di Paolo Bernasconi
LOTTA ALL’EVASIONE
Accolto il principio in base al quale avere un conto estero non è indice di reato
Se la sentenza fosse confermata a rischio-blocco anche le richieste italiane
La magistratura svizzera ha bloccato la trasmissione delle liste collettive dei contribuenti francesi coinvolti nel caso dei conti Ubs. È stato infatti accolto il ricorso della banca contro la trasmissione dei nomi di oltre 40mila clienti di Ubs residenti in Francia, lista scoperta dal ministero pubblico tedesco durante le perquisizioni del maggio 2012 e nel luglio 2013 in Ubs Germania. Sulle liste trasmesse da Berlino a Parigi mancava solamente il nome, benché fosse indicato chiaramente che si trattava di clienti residenti in Francia. Secondo il fisco francese l’omessa dichiarazione fiscale aveva comportato una perdita di oltre 10 miliardi. L’amministrazione svizzera aveva chiesto ad Ubs i nominativi di questi clienti e aveva deciso di trasmetterli al fisco francese. Ubs ha così presentato ricorso al Tribunale amministrativo federale (Taf) che lo ha accolto, decidendo quindi di respingere la richiesta di assistenza francese. Di conseguenza, nessun nome verrà trasmesso al fisco francese. C’è però da aspettarsi che, come in altri casi recenti, il fisco svizzero ricorrerà al Tribunale federale svizzero, che più volte ha già sconfessato sentenze del Tribunale amministrativo federale.
Se venisse confermata, questa sentenza avrà ricadute sulle domande analoghe presentate da altri Paesi, tra cui l’Italia. La sentenza del Taf sostiene che il solo fatto di essere titolari o di disporre di un conto presso una banca svizzera non costituisce un indizio sufficiente tale da richiedere la trasmissione del nome per permettere al fisco straniero di verificare se i depositi siano stati dichiarati oppure, almeno, siano stati regolarizzati nell’ambito dei programmi di voluntary disclosure.
Per quanto riguarda il rischio dei contribuenti italiani, il diritto svizzero prevede requisiti estremamente elevati per accogliere le «domande di gruppo»riguardanti contribuenti che hanno messo in atto un medesimo modello di comportamento. La sentenza ha esteso questi requisiti restrittivi anche alle cosiddette “domande collettive”, che si fondano su liste dalle quali sia facile risalire con sicurezza al nome di titolari di conti bancari. Una simile domanda italiana è attualmente all’esame del Fisco svizzero riguardo al nome di oltre 9mila clienti della lista Credit Suisse reperita dalla Procura della Repubblica di Milano. Ma questa giurisprudenza potrebbe essere applicabile anche nel caso in cui l’agenzia delle Entrate dovesse richiedere alla Svizzera informazioni e documenti riguardanti le migliaia di contribuenti italiani che, a partire dal 2010, hanno trasferito la loro residenza in Canton Ticino. Anche riguardo a questi nomi, la giurisprudenza potrebbe quindi ritenere che il solo fatto di essersi trasferiti non costituisca motivo sufficiente per una richiesta di assistenza.