Dividendi, il prelievo Irpef aumenta

7 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 12 Luglio 2017 di Marco Piazza e Chiara Resnati

Redditi di capitale. Il decreto del Mef pubblicato ieri in «Gazzetta» aggiorna le percentuali alla riduzione dell’aliquota Ires al 24%

Utili nell’imponibile dei soci per il 58,14% – Per plus e minus nuove regole dal 2018

Fissate le nuove percentuali di partecipazione al reddito imponibile degli utili e delle plusvalenze derivanti da partecipazioni, strumenti finanziari equiparati e contratti di associazione e cointeressenza con apporto diverso dalle opere e servizi conseguiti da soggetti diversi dalle società di capitali ed enti commerciali residenti in Italia e da stabili organizzazioni di enti non residenti (Dm Economia 26 maggio 2017 pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri).
La rideterminazione delle percentuali si è resa necessaria a seguito della riduzione dell’aliquota Ires dal 27,5% al 24% a decorrere dal 1° gennaio 2017, con effetto per i periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2016. La percentuale è calcolata in modo tale che la somma dell’Ires pagata dalla società e dell’Irpef pagata dal socio sia pari al 43% del reddito della società al lordo dell’Ires. Questo, però, comporta un incremento del prelievo Irpef sul socio.
Per quanto riguarda i dividendi e proventi assimilati, le nuove percentuali si applicano a quelli formati con utili prodotti a partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016 da parte della società che distribuisce il dividendo. In particolare concorrono alla formazione del reddito complessivo nella misura del 58,14%:
gli utili e proventi derivanti da partecipazioni “qualificate”, strumenti finanziari e contratti di associazione in partecipazione assimilati detenuti da persone fisiche non nell’esercizio di impresa; resta ferma l’imposta sostitutiva del 26% sull’utile lordo per le partecipazioni non qualificate;
gli utili derivanti da partecipazioni qualificate e non qualificate detenute da persone fisiche nell’esercizio dell’impresa, società in nome collettivo e società in accomandita semplice.
Sono confermate le vecchie percentuali di imponibilità per i dividendi formati con utili prodotti in esercizi precedenti ed è confermato che i dividendi distribuiti si considerano prioritariamente formati con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2007 (40%), e poi fino all’ esercizio in corso al 31 dicembre 2016 (49,72%).
Se il percettore degli utili è un ente non commerciale residente, la nuova percentuale di imponibilità passa dal 77,78% al 100% (matematicamente sarebbe stato il 104,17%, il che dovrebbe far riflettere sull’eccesso di severità del legislatore nei confronti di questi enti).
Per le plusvalenze e minusvalenze le nuove aliquote si applicano, invece, a quelle realizzate a partire dal 1° gennaio 2018; in caso di percezione dilazionata di corrispettivi derivanti da cessioni fatte prima di tale data, continua ad applicarsi la vecchie percentuale. In questo caso si è data rilevanza al momento del realizzo e non a quello della percezione del reddito, come normalmente accade quando cambia il regime fiscale dei redditi diversi di natura finanziaria.
Per le plusvalenze realizzate al di fuori dell’esercizio d’impresa, la nuova quota di imponibilità è la stessa applicata agli utili (58,14%).
Per quelle realizzate nell’esercizio d’impresa con i requisiti per l’applicazione della participation exemption è prevista una percentuale di esenzione del 41,86% (corrispondente all’imponibilità del 58,14%).
Il decreto stabilisce che in caso di utili e proventi equiparati erogate da società o enti non residenti, i dati sulla stratificazione degli utili devono essere forniti, all’intermediario eventualmente obbligato ad operare la ritenuta d’ingresso, dal soggetto partecipante residente, previa attestazione da parte della società o dell’ente estero; attestazione che sarà, in realtà molto difficile ottenere se l’emittente è una società ad azionariato diffuso.

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Il socio non è responsabile in solido

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 13 Giugno 2017 di D.D.

FOCUS. IL QUADRO DELLE DISPOSIZIONI

La responsabilità dei soci, cosi come quella dei liquidatori, per le imposte non pagate dalla società risulta fissata dall’articolo 36 del Dpr 602/1973.
Per i soci la responsabilità entra in gioco quando hanno ricevuto dagli amministratori, nel corso dei due periodi d’imposta precedenti alla liquidazione, denaro o altri beni sociali in assegnazione o se gli stessi soci hanno ricevuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione.
Va rilevato che la norma – che ha origine remote (Dpr 645/1958) – vuole evitare che l’Agenzia debba adire il giudice ordinario, attribuendo la competenza al “giudice che conosce meglio”, cioè al giudice tributario. Va anche considerato che la norma non attribuisce una responsabilità in solido dei soci e dei liquidatori con la società, ma si tratta di una responsabilità per fatto proprio imputabile a tali soggetti, come costantemente affermato dalla stessa Corte di cassazione (ex multis, Cass. 16446/2016).
Si tratta, difatti, di un debito distinto (la responsabilità non riguarda le sanzioni) dall’obbligazione tributaria dell’ente collettivo, anche se a questo commisurato. Ecco perché l’articolo 36 del Dpr 602/1973 stabilisce espressamente (comma 5) che l’atto nei confronti dei soci e dei liquidatori risulta un atto ulteriore e successivo rispetto a quello della società, tant’è che l’atto nei confronti dei soci e dei liquidatori deve risultare motivato circa la sussistenza dei presupposti stabiliti dallo stesso articolo 36 del Dpr 602/1973.
La responsabilità dei soci e dei liquidatori deriva, in sostanza, da un’obbligazione tributaria non assolta dalla società: il che può realizzarsi solo quando risulta notificato un atto valido nei confronti di quest’ultima. Ecco spiegato il motivo per cui l’articolo 28 del decreto legislativo 175/2014 ha voluto stabilire che un atto notificato nei cinque anni successivi all’estinzione della società risulta un atto valido: non tanto per agire, evidentemente, nei confronti di quest’ultima, ma per agire nei confronti dei soci e dei liquidatori sulla base di un atto valido.
Ma certamente non può risultare un atto valido quello notificato a una società che, di fatto, non può esercitare il proprio diritto di difesa (né i soci né gli ex liquidatori risultano legittimati processualmente), così che anche per le società che si sono cancellate dopo il 12 dicembre 2014 non può essere azionata alcuna responsabilità nei confronti dei soci e liquidatori per eventuali debiti tributari sopravvenuti dopo l’estinzione. Senza contare il fatto che la norma attribuisce la responsabilità verso soci e liquidatori in relazione a debiti sorti entro la cancellazione e non dopo.
Ad ogni modo, sotto il profilo fiscale, non può essere ritenuto valido l’accertamento nei confronti della società cessata notificato direttamente al socio. Per azionare la responsabilità fiscale di quest’ultimo occorre un altro atto rispetto a quello comunque “valido” della società. Altrimenti occorre cambiare la norma fiscale, che non risulta aggiornata dopo l’”evoluzione civilistica”.

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Abuso di potere se i soci perseguono interessi personali

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 15 Giugno 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. Maggioranza in Srl

Si ha abuso di potere dei soci di maggioranza se le delibere perseguono un interesse personale dei medesimi soci in contrasto con quello della società oppure quando si mira a danneggiare i soci di minoranza. Lo ricorda il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese (presidente Mannino, relatore Romano), in una sentenza dello scorso 31 marzo.
A rivolgersi al giudice sono stati i soci di minoranza di una Srl per ottenere l’annullamento di una delibera con cui era stato votato l’azzeramento del capitale sociale e il contestuale aumento dello stesso a 500mila euro. Secondo gli attori, l’operazione aveva lo scopo di escluderli dalla compagine sociale, giacché, per mantenere intatta la loro partecipazione (pari al 43%), avrebbero dovuto sottoscrivere quote per 215mila euro. Dal canto suo, la Srl ha contestato la domanda e ne ha chiesto il rigetto.
Nel respingere l’impugnazione, il Tribunale osserva, innanzitutto, che «nel nostro ordinamento societario non esiste una norma che identifichi espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni assembleari». Tuttavia, considerando la società come contratto, i soci devono eseguire l’accordo secondo le regole di buona fede e correttezza previste dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. Princìpi, questi, che costituiscono «il fondamento – si legge nella sentenza – per riconoscere la figura dell’abuso di potere quale elemento invalidante le deliberazioni assembleari finalizzate esclusivamente a favorire la maggioranza a danno della minoranza».
In base a queste regole – prosegue il Tribunale, citando la sentenza 27387/2005 della Cassazione – l’abuso di potere è causa di annullamento delle delibere quando il voto «non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società e costituisca una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società»: il che si verifica quando la delibera persegue un interesse personale dei soci di maggioranza contrapposto a quello sociale oppure mira a ledere i diritti patrimoniali e di partecipazione dei soci di minoranza. A parte queste ipotesi, «resta preclusa – continua la sentenza – ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza a esprimere il proprio voto».
Inoltre, il merito della delibera impugnata può essere esaminato «solo in presenza di indici oggettivi che consentano di sospettare la violazione di vincoli» previsti dall’ordinamento. E l’onere di dimostrare tale violazione grava sulla parte che afferma l’illegittimità della delibera, fermo restando che la prova non è limitata a elementi che si sono manifestati prima del voto, ma può riguardare anche «comportamenti o indizi cronologicamente successivi».
Nel caso in esame, il Tribunale rileva che le perdite della società ne avevano azzerato il capitale, il che rendeva «legittima la scelta dell’assemblea di procedere all’operazione sul capitale»; peraltro, si trattava di una decisione che «consentiva alla società di evitare l’avvio della procedura di liquidazione». Quanto all’entità dell’aumento, le contestazioni dei soci attori erano generiche, e comunque la società aveva dimostrato che erano in corso trattative per un progetto di ripresa dell’attività.
Per queste ragioni il Tribunale ha quindi confermato la delibera impugnata.

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Licenziato per abuso di internet

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 16 Giugno 2017 di Giampiero Falasca

Cassazione. Espulso per giustificato motivo soggettivo il dipendente che ha usato la connessione a fini personali

Controlli dell’azienda «esenti» dai limiti dello Statuto dei lavoratori

Il dipendente che usa in maniera sistematica la connessione internet aziendale per fini personali può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. E l’azienda che usa degli strumenti di controllo a distanza per accertare l’utilizzo irregolare dei beni della società non è soggetta alle regole previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, in quanto queste si applicano solo se il controllo riguarda lo svolgimento della prestazione ma non l’accertamento di eventuali illeciti del dipendente.
Queste le conclusioni cui giunge la Corte di cassazione nella sentenza 14862/2017 depositata ieri, con la quale è stata confermata la legittimità del licenziamento intimato da un datore di lavoro nei confronti di un dipendente che ha abusato ripetutamente della connessione internet messa a disposizione dall’azienda.
Tale dipendente si è connesso a fini personali per 27 volte, nell’arco di due mesi, restando collegato per 45 ore complessive. La società lo ha licenziato per giusta causa, e la Corte d’appello di Bologna ha confermato la validità del recesso, pur mutando il titolo in giustificato motivo soggettivo, in considerazione dell’assenza di precedenti e dell’esiguità del danno subito dall’azienda.
La Suprema corte conferma questa ricostruzione, evidenziando che il numero e la durata delle connessioni dimostra che è stato fatto un reiterato utilizzo per fini personali dello strumento aziendale, da un lato, e la natura intenzionale della condotta, dall’altro.
La sentenza esclude, inoltre, che i controlli effettuati dall’impresa per accertare l’utilizzo indebito della connessione possano configurarsi come controlli a distanza, soggetti alla regole previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. Questa norma, osserva la Corte, disciplina le forme e le modalità di controllo che hanno per oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, mentre non si applica a quei comportamenti illeciti dei dipendenti capaci di ledere l’integrità del patrimonio aziendale, il regolare funzionamento degli impianti e la loro sicurezza.
Questa affermazione, non del tutto nuova (si veda Cassazione 10955/2015), è molto importante, in quanto libera dai vincoli dell’articolo 4 dello statuto tutti quei controlli effettuati per la finalità di accertare la commissione di illeciti gravi da parte dei lavoratori.
La Corte esclude, inoltre, che l’azienda abbia violato le regole che tutelano la riservatezza e la privacy del dipendente, nel momento in cui ha verificato le modalità di utilizzo della connessione internet, in quanto il datore di lavoro non ha analizzato quali siti sono stati visti durante la navigazione, non ha visto la tipologia di dati che sono stati scaricati e non ha accertato se questi sono stati salvati sul personal computer.
La società si è limitata ad analizzare i dettagli del traffico di connessione, che non costituiscono dati personali, in quanto non forniscono alcuna indicazione in merito alla persona e alle sue scelte politiche, religiose, culturali o sessuali. I dati della connessione, secondo la Corte, forniscono solo elementi quantitativi di carattere generale, che possono essere riferiti – senza alcuna capacità di individuazione – a un numero indistinto di utenti della rete.

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Falso in bilancio non svalutare i crediti

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore del 16 Giugno 2017 di Giovanni Negri

Cassazione penale. Confermata la condanna per bancarotta impropria nei confronti di un imprenditore

Era stata conservata nei conti una posizione inesigibile dal 2007
La conservazione nei conti di un credito inesigibile rappresenta un episodio di falso in bilancio. Di portata tale da aggravare il dissesto e condurre alla responsabilità per bancarotta. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 29885, Quinta sezione penale, depositata ieri. La pronuncia conferma così la condanna nei confronti di un imprenditore per bancarotta fraudolenta patrimoniale, bancarotta impropria da falso in bilancio, bancarotta semplice, per avere aggravato il dissesto dell’azienda non richiedendo il fallimento. Tra i motivi di ricorso la difesa aveva messo in evidenza la carenza di argomentazioni da parte della Corte d’appello sull’asserito falso valutativo, fondato solo, contestava il ricorso, sull’applicazione dei principi contabili che non avevano rango tale da potere integrare la norma penale.
Sul punto la Cassazione è netta nel respingere l’impugnazione. Ricorda infatti che la conservazione, nel bilancio della società poi fallita, di un credito in realtà inesigibile sin dal 2007, senza operare la svalutazione obbligatoria nella misura del 90%, aveva permesso all’impresa di proseguire l’attività senza prendere atto che il patrimonio netto era diventato negativo e che quindi era necessario provvedere alla ricapitalizzazione oppure alla liquidazione.
Quanto alla rilevanza da attribuire ai principi contabili, la sentenza sottolinea come questi non sono affatto irrilevanti come invece sostenuto dalla difesa. Rappresentano invece dei criteri tecnici generalmente accettati che permettono una corretta lettura delle diverse voci di bilancio. È possibile non tenerne conto, puntualizza la Corte, tuttavia va data adeguata informazione giustificazione dello scostamento. In questo senso si sono pronunciate le Sezioni unite penali con la sentenza n. 22474 del 2016, con la quale è stata illustra la rilevanza penale del cosiddetto falso valutativo, oggetto, dopo la riforma, di pronunce dissonanti da parte della stessa Corte di cassazione.
La conclusione, allora, è che la condotta trova una corretta qualificazione nella disciplina dell’articolo 223, comma secondo n. 1, della Legge fallimentare, disposizione che punisce chiunque provoca o contribuisce a provocare il dissesto della società. Dissesto da intendere come squilibrio econcomico che conduce la società al fallimento e responsabilità che può coinvolgere anche chi contribuisce a causarne anche solo una parte, visto che il dissesto non costituisce un dato granitico e può essere reso più grave.

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La società svizzera «paga» l’inerzia del rappresentante

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 26 Giugno 2017  di Ferruccio Bogetti e Gianni Rota

Imposte indirette. Se il mandatario italiano omette dichiarazioni e liquidazioni Iva

Per inadempienze e mancato ricorso contro gli avvisi risponde la società

La società svizzera risponde delle imposte accertate con atti notificati al rappresentante fiscale italiano. Questi è destinatario di tutti gli atti tributari quale mandatario, nonché solidamente responsabile. Né rilevano per il giudice eventuali responsabilità interne al rapporto fiduciario tra la società estera e il suo rappresentante, se quest’ultimo non impugna gli avvisi e li lascia diventare definitivi. Queste le conclusioni della sentenza 1863/01/2017 della Ctr Lombardia (presidente Labruna, relatore Aondio).
Il 9 marzo 2010 il Fisco eleva un Pvc a una società svizzera con rappresentante fiscale in Italia. Dal 2005 al 2010 tramite il rappresentante, la società avrebbe svolto nel nostro Paese operazioni Iva senza tenere i registri, effettuare le liquidazioni e presentare le dichiarazioni Iva.
Il 29 aprile 2011 le Entrate notificano al solo rappresentante alcune rettifiche Iva, che questi non impugna. In seguito, il 7 novembre 2011 la società comunica la cessazione del rapporto di rappresentanza fiscale.
La società riceve poi in Svizzera i ruoli definitivi e impugna contro le Entrate e il concessionario della riscossione, spedendo il ricorso in busta anziché plico. Queste le ragioni del ricorso:
nessuna notizia della verifica;
ricezione degli atti non presso la sede legale, ma solo presso il rappresentante fiscale;
violazioni solo formali, perché l’effettuazione dei vari adempimenti Iva avrebbe fatto scaturire un credito anziché un debito Iva;
in ogni caso, violazioni imputabili all’inadempienza del rappresentante.
Il Fisco resiste e il concessionario chiede l’inammissibilità del ricorso presentato in busta chiusa anziché in plico. Tesi accolta dalla Ctp, mentre la Ctr pur confermando nel dispositivo la sentenza di primo grado, nella parte alta della decisione ammette che il ricorso possa anche essere spedito in busta chiusa, purché sia provata la data di invio.
La ragione per cui la Ctr dichiara inammissibile il ricorso è che il ruolo e la cartella non sono stati impugnati per vizi in senso proprio (ad esempio, la decadenza della formazione del ruolo o l’incompetenza territoriale del concessionario), ma solo per un vizio in senso lato, cioè l’omessa notificazione dell’atto presupposto. Ed è proprio questa presunta omissione che i giudici non considerano tale, e questo per due ragioni:
il Fisco italiano deve poter contare su un interlocutore nazionale quando il soggetto passivo è stabilito all’estero e il rappresentante è l’unico destinatario di tutti gli atti dell’amministrazione: è un mandatario sempre obbligato a identificare in Italia il soggetto estero rappresentato, che diventa responsabile in solido per i debiti tributari;
al giudice tributario non interessano le responsabilità interne al rapporto fiduciario tra società estera e il suo rappresentante fiscale, da far valere in altra sede.
In conclusione l’accertamento è ritualmente notificato e i ruoli definitivi notificati in Svizzera sono legittimi.

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Valido il licenziamento comunicato via whatsapp

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 30 Giugno 2017

Tribunale di Catania

Un dipendente può essere licenziato anche via social network. Lo ha stabilito il Tribunale civile di Catania che ha ritenuto che il licenziamento «intimato su whatsapp» appaia «assolvere l’onere della forma scritta, trattandosi di un documento informatico». Con tanto di prova di avvenuta ricezione: l’impugnativa presentata dal dipendente.
Le indicazioni, che sembrano aprire la strada a considerare legittima una nuova forma di comunicazione fra datore di lavoro e lavoratore, sono contenute nella motivazione del provvedimento del Giudice del lavoro, Mario Fiorentino, che rigetta il ricorso presentato da una dipendente di un’azienda che aveva ricevuto la notizia del suo licenziamento sulla chat di whatsapp.
Le osservazioni del giudice si incentrano su due aspetti: la forma scritta e la risposta del lavoratore che, indirettamente, rafforza la validità della prima comunicazione. Infatti, «la modalità utilizzata dal datore di lavoro nel caso di fattispecie appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte».
Quindi: nessun dubbio sulla chiarezza della comunicazione della volontà di licenziare, anche se si è usato whatsapp, e nessun dubbio sul fatto che il destinatario abbia ricevuto e interpretato chiaramente la comunicazione, come testimonia la reazione. Per questo il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso.

 

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Inesistente la fattura emessa da una srl estranea al servizio

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 18 Maggio 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione. Il reato scatta anche per simulazione soggettiva

Commette il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti l’amministratore che svolge in proprio un prestazione e poi la fa fatturare alla società la cui attività è del tutto estranea alla prestazione eseguita. A nulla rileva l’esistenza di un contratto che coinvolge la società. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione con la sentenza n. 24307 depositata ieri
Nell’ambito di una cessione di quote societarie da un’impresa italiana ad una estera, veniva pagata – dalla prima – una prestazione di intermediazione svolta da una srl a seguito di regolare contratto. Quest’ultima emetteva fattura e incassava sui propri conti il compenso. L’attività svolta dalla società emittente la fattura tuttavia era la commercializzazione di materiali di cancelleria abbastanza estranea alla tipologia di servizio fatturato relativo all’intermediazione della cessione di quote. Successivamente la somma veniva prelevata dall’amministratore.
L’agenzia delle Entrate, a seguito di un controllo, formulava una serie di contestazioni tra le quali l’emissione di una fattura soggettivamente inesistente, ritenendo nella specie che l’operazione fosse stata svolta dall’amministratore della società a titolo personale ma fatturata dalla società. Dopo la condanna nei due gradi di giudizio, l’imputato ricorreva per cassazione lamentando, tra l’altro, che non era possibile configurare, nella specie, un’ipotesi di emissione di fattura soggettivamente inesistente. Secondo la difesa infatti, l’operazione di mediazione della compravendita in questione era stata affidata alla società (e non alla persona dell’amministratore) in virtù di uno specifico contratto. La srl aveva poi incassato il previsto compenso con la conseguenza che nessuno dei soggetti partecipanti all’operazione era rimasto estraneo, difettando, così, il presupposto indispensabile per la configurazione dell’operazione soggettivamente inesistente come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
La Cassazione ha rigettato il ricorso e, in merito a questa eccezione, ha rilevato che il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa. Ciò si verifica anche quando, da un lato, i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice della fattura e dall’altro sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione da un soggetto giuridico differente da quello indicato nel documento fiscale. Secondo i giudici, le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione diverso da quello effettivo: anche in questa ipotesi infatti il documento esprime una capacità decettiva idonea ad impedire l’identificazione degli attori effettivi delle operazioni ostacolando l’accertamento tributario.

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Brevetti registrati all’estero fuori da RW

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 29 Maggio 2017 di Luca Benigni e Gianni Rota

Attività finanziarie. Irrilevante la titolarità della privativa se non viene effettuata la concessione dell’utilizzo a soggetti stranieri

La tutela della proprietà industriale non va monitorata – Tassabile lo sfruttamento commerciale

La registrazione di un brevetto nazionale presso uno o più Stati esteri non va indicata nel quadro RW di Unico perché non è un’attività finanziaria estera, ma rappresenta l’ampliamento della protezione brevettuale oltre i confini nazionali. L’ obbligo, invece, potrebbe sussistere per il soggetto che sfrutta commercialmente il brevetto, anche concedendolo in uso a terzi, colui cioè che poi consegue i relativi redditi. Sono queste le conclusioni della sentenza 1779/17/2017 della Ctr Lombardia (presidente Lamanna, relatore De Rentiis).
In base a un procedimento penale avviato per presunti illeciti fiscali internazionali, l’amministrazione finanziaria sanziona un contribuente per gli anni dal 2007 al 2009 perché ha omesso di indicare in Unico le attività finanziarie detenute all’estero, rappresentate da un contratto per lo sfruttamento di alcuni brevetti, stipulato per un importo di 400mila euro con una società britannica, poi risolto consensualmente il 6 dicembre 2007.
Il contribuente contesta l’irrogazione delle sanzioni sotto due profili:
la detenzione in Italia di brevetti per i quali è stata poi richiesta e ottenuta l’estensione della registrazione presso uno o più Stati esteri non è automaticamente qualificabile come detenzione di «attività finanziarie estere», in quanto ha solo l’effetto di ampliarne la protezione brevettuale oltre i confini nazionali e non obbliga di conseguenza il titolare a indicarli nel quadro RW;
lo sfruttamento di brevetti registrati all’estero, tramite una società italiana che si occupa della concessione in uso a società estere, obbligherebbe solo quest’ultima a compilare il quadro RW.
L’amministrazione resiste con due motivi:
il contribuente è obbligato alla compilazione perché queste «attività finanziarie estere» sono potenzialmente in grado di produrre redditi e l’omissione va punita con una sanzione amministrativa pecuniaria dal 5 al 25% degli importi non dichiarati;
lo sfruttamento, potenziale o effettivo, dei brevetti attraverso una società italiana o inglese, non rileva, perché il contribuente risulta essere in ogni caso il titolare.
I giudici di merito di entrambi i gradi danno torto all’ufficio. In particolare la Ctr afferma due principi.
La registrazione. L’omessa compilazione del quadro RW, avente ad oggetto brevetti nazionali per i quali è stata richiesta e poi ottenuta la registrazione anche in altri Stati esteri, va provata dall’amministrazione con la loro diversa qualificazione in termini di attività finanziare estere: l’estensione della registrazione all’estero di un brevetto nazionale, infatti, non consente di per sè di qualificarlo come «attività finanziaria estera» bensì unicamente di ampliarne la protezione brevettuale oltre i confini nazionali.
Lo sfruttamento. La ratio legis è quella di monitorare le operazioni finanziarie da e verso l’estero. Pertanto l’obbligo di indicare nel quadro RW le «attività finanziare estere» spetta sia al titolare dell’attività finanziaria sia a quanti ne hanno la materiale disponibilità. Ne consegue che il presupposto sanzionatorio può dirsi effettivamente integrato attraverso il concreto potere dispositivo sulle risorse economiche all’estero, indipendentemente da colui che ne risulti titolare.

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Aumento di capitale con compensazione del credito del socio

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 25 Maggio 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. Per una Srl

Sì alla compensazione della somma dovuta per l’aumento di capitale con un controcredito vantato verso la società. Lo afferma il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese (presidente Scerrato, relatore Romano), in un’ordinanza dello scorso 6 febbraio.
Questi i fatti. Nell’aprile 2016 l’assemblea di una Srl aveva deliberato l’aumento da 10mila a 85 mila euro. Un socio aveva esercitato il diritto di opzione, chiedendo che il relativo debito fosse compensato con un suo credito verso la società per un precedente finanziamento. L’amministratore aveva però escluso che i due debiti si potessero compensare; così aveva iscritto nel Registro imprese la delibera di variazione del capitale senza tener conto della sottoscrizione del socio creditore, la cui quota di partecipazione al capitale sociale era quindi scesa dal 33,33% al 5,56%.
Il socio si era allora rivolto al giudice monocratico del Tribunale per ottenere, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, un provvedimento che disponesse l’esecuzione della delibera di aumento del capitale con compensazione col suo credito; il socio ricorrente aveva inoltre chiesto di ordinare al legale rappresentante della società di depositare nel registro delle imprese una dichiarazione che attestasse il suo acquisto di quote. Con ordinanza del settembre 2016 il tribunale aveva accolto la richiesta del ricorrente.
La Srl ha quindi presentato il reclamo previsto dall’articolo 669-terdecies del Codice di procedura civile, sostenendo che l’aumento di capitale era stato deliberato per reperire, con assoluta urgenza, la liquidità necessaria a effettuare il pagamento della rata di un mutuo prossima alla scadenza. Sicché – concludeva la società – lo scopo della delibera sarebbe stato vanificato se si fosse consentita la compensazione richiesta dal socio.
Nel respingere il reclamo, il collegio afferma, innanzitutto, che «l’obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario, che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato» nei confronti della società. Peraltro, l’aumento di capitale sottoscritto con estinzione per compensazione non è contrario all’interesse della società, giacché determina il venir meno del debito della stessa compagine verso il socio e, in definitiva, «un aumento della garanzia patrimoniale generica» offerta ai creditori. Né, comunque, la possibilità che il debito sia estinto per compensazione richiede un’espressa previsione nella decisione di aumento del capitale.
Nel caso in esame, la delibera era stata approvata per trovare la liquidità necessaria a pagare la rata di un prestito e a ristrutturare alcuni impianti. Ma tale esigenza, «sebbene in qualche modo esplicitata», era rimasta «confinata nell’ambito dei motivi», giacché l’assemblea dei soci non aveva predisposto «i meccanismi giuridici per impedire» la compensazione dei due crediti. Infatti, «se i soci avessero voluto che l’operazione sul capitale facesse confluire nelle casse societarie esclusivamente liquidità da utilizzare per i pagamenti», l’assemblea avrebbe «potuto (e dovuto) escludere la compensabilità dell’apporto di capitale con i crediti vantati dai soci». Poiché la delibera non conteneva alcuna previsione sul punto, si applica la regola generale che consente la compensazione.
Così il Tribunale ha confermato l’ordinanza impugnata.

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