Lettere sulle attività estere «viziate» da dati indebiti

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 25 Gennaio 2018 di Marco Piazza

Adempimento spontaneo. Le comunicazioni dell’Agenzia riguardano il periodo d’imposta 2016

Nel Crs anche le informazioni sui rapporti intestati a intermediari

Lo scambio d’informazioni automatico con le amministrazioni finanziarie estere (secondo il cosiddetto Common reporting standard – Crs) comincia a dare i suoi risultati: sulla base del provvedimento dell’agenzia delle Entrate 299737/2017 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 22 dicembre 2017) sono state inviate migliaia di comunicazioni ai contribuenti che risultano detenere attività finanziarie all’estero non indicate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, con lo scopo di promuovere il cosiddetto “adempimento spontaneo”.
Queste comunicazioni sono estremamente generiche. Non contengono alcun dato che consenta di identificare la tipologia di attività, l’entità e il luogo di detenzione. Non si tratta quindi di accertamenti contro cui ricorrere, a rischio di perdere qualche opportunità di difesa; né si tratta di atti introduttivi di attività di indagine nei confronti del contribuente.
Viene solamente avvertito il contribuente che risultano anomalie nella sua posizione fiscale, che può chiedere e fornire spiegazioni.
Le comunicazioni riguardano l’anno d’imposta 2016 (dichiarazione 2017). Pertanto è ancora possibile avvalersi del ravvedimento operoso.
L’obbligo di compilare il quadro RW non sussiste se le attività all’estero sono detenute per mezzo di intermediari finanziari italiani che, al verificarsi dei presupposti, prelevino eventuali ritenute ed imposte sostitutive dovute (articolo 4, comma 3 del Dl 167/90).
Ci si attendeva che i rapporti all’estero intestati ad intermediari finanziari italiani (cosiddette “istituzioni finanziarie”) per conto dei loro clienti non sarebbero stati oggetto di alcuna segnalazione da parte degli intermediari esteri: in linea di massima, lo scambio automatico d’informazioni non viene effettuato se il conto o il deposito è intestato ad una istituzione finanziaria. Qualche problema poteva sorgere per i rapporti in amministrazione fiduciaria senza intestazione oppure per i lavoratori in zone di frontiera, detentori – nello Stato estero in cui lavorano – di conti correnti con giacenza media non superiore a 5mila euro.
Quando invece il rapporto all’estero è intestato a una istituzione finanziaria di un paese collaborativo (specie italiana) la segnalazione non dovrebbe essere fatta.
È invece successo che molti intermediari esteri hanno comunicato anche i titolari effettivi dei rapporti intestati a banche e fiduciarie italiane per loro conto e che quindi, l’agenzia delle Entrate abbia riscontrato, in tantissimi casi, anomalie in realtà non esistenti.
I principali casi riguardano polizze vita, quote di fondi comuni d’investimento e azioni o quote di società estere.
Il contribuente in regola può:
• trascurare la comunicazione;
• chiedere alla direzione provinciale competente ulteriori informazioni per individuare l’investimento oggetto di segnalazione;
• dare all’Agenzia l’informazione che giustifica la mancata compilazione del quadro RW, ossia che le attività sono amministrate da un intermediario finanziario italiano.
L’ultima soluzione (si veda qui a fianco il facsimile da adattare al caso concreto) pare preferibile perché i dati dello scambio d’informazioni sono disponibili anche per la Guardia di Finanza.

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Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 30 Gennaio 2018 di Antonio Zappi

Ctr Veneto. Il conto corrente

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).
L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.
Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.
Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».
Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.
Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.
Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

 

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L’esterovestizione non esonera dall’obbligo di dichiarazione Iva

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 23 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi

Cassazione. L’operazione non abusiva comporta l’adempimento

L’esterovestizione di una società non è un’operazione abusiva con la conseguenza che l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia costituisce una fattispecie penalmente rilevante. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2407 depositata ieri.
La vicenda nasce da una contestazione della Gdf con la quale veniva considerata esterovestita una società tedesca. Il legale rappresentante veniva così accusato di omessa dichiarazione Iva.
Il Gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia nei confronti della società sia del suo amministratore, fino a concorrenza dell’imposta evasa. Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro e l’indagato, il legale rappresentante della società, proponeva ricorso per Cassazione.
Tra i motivi di doglianza, la difesa rilevava che la realtà tedesca non era stata indagata dalle relative autorità; quindi, al massimo poteva essere contestato, attesa la veridicità delle operazioni commerciali, un abuso del diritto di stabilimento della sede operativa, ma non il reato di omessa presentazione in Italia della dichiarazione. Non era configurabile alcun delitto, poiché nel nostro ordinamento è esclusa la rilevanza penale delle operazioni abusive (articolo 10 bis dello Statuto del contribuente).
I giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza precedente, hanno innanzitutto ricordato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se c’è una stabile organizzazione in Italia. Tale caratteristica si desume da elementi fattuali rilevanti quali la sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (la cosiddetta “alta amministrazione”) nonché della conduzione delle attività costituenti l’oggetto sociale.
Nella specie, in Italia era stata rinvenuta in sede di verifica tutta la documentazione contabile, bancaria (peraltro di conti correnti italiani) e commerciale e la bontà di tali prove era stata già valutata dal Tribunale con adeguata motivazione sul punto.
Con riferimento all’abuso del diritto, per la Suprema corte le operazioni abusive si configurano solo quando non violano disposizioni tributarie e penali tributarie; è una norma di applicazione solo residuale rispetto ad altre relative a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione ed all’utilizzo di documentazione falsa. Perciò non può esistere abuso quando i fatti in contestazione integrano fattispecie penali connotate da elementi costitutivi specifici. Dai documenti in atti era indubbio che si trattasse di esterovestizione e pertanto che la società avesse dovuto rispettare gli obblighi fiscali italiani.

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Prestanome responsabile in concorso

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 17 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Omessa dichiarazione. Per la Cassazione autore principale è l’amministratore di fatto

Il prestanome risponde in concorso con l’amministratore di fatto per il reato di omessa dichiarazione. È responsabile, infatti, di non aver impedito l’evento delittuoso. A confermare questo principio di diritto è stata la Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 1590/2018, depositata ieri.
La sentenza riguarda la vicenda del legale rappresentante di una società che veniva condannato per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dalla quale era conseguita un’evasione di imposta penalmente rilevante.
La condanna di primo grado veniva confermata anche in appello e l’imputato ricorreva così in Cassazione. Lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione.
Più precisamente, nella sentenza di secondo grado non sarebbe emersa la valutazione delle prove riguardanti la consapevolezza della commissione del reato. L’imputato, infatti, non era l’amministratore di fatto della società e pertanto era concretamente estraneo alle scelte aziendali.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il collegio territoriale aveva correttamente valutato la vicenda posta a base dell’intera contestazione.
La società era stata costituita per emettere fatture soggettivamente inesistenti, al fine di giustificare contabilmente gli acquisti di merce in nero effettuati da un’altra società del “gruppo”.
Dai documenti in atti, risultava che l’amministrazione di fatto delle società era affidata ad un terzo soggetto, diverso cioè dal legale rappresentante di diritto.
Dal disegno criminoso emergevano quindi l’omessa presentazione delle dichiarazioni e il mancato versamento dell’Iva, che erano preordinati all’evasione fiscale.
Con riguardo alla responsabilità, la Cassazione ha precisato che l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, poiché è il titolare effettivo della gestione sociale. È infatti l’unico soggetto che si trovi nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.
L’amministratore di diritto, invece, è un mero prestanome. Per questo motivo, è responsabile a titolo di concorso per avere omesso di impedire l’evento. La Corte di cassazione, però, ha precisato che tale concorso interviene a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma. Quindi, nella fattispecie, occorre che il prestanome abbia agito con il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sull’Iva ovvero consentire l’evasione fiscale di terzi.
Tuttavia, poiché nella maggior parte delle ipotesi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che è sufficiente il dolo eventuale.
Il prestanome, quindi, accettando la carica accetta anche i rischi connessi a tale carica.
Nella specie, il giudice territoriale aveva rilevato una forma di partecipazione attiva alla vita sociale da parte dell’amministratore di diritto, poiché risultava coinvolto nella gestione operando sui conti correnti bancari.
Era così consapevole dei meccanismi illeciti e peraltro, su tali considerazioni, l’imputato non aveva eccepito alcuna osservazione.

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Legge 21 Dicembre 2017 nr 147 Bilancio di Previsione dello Stato e degli Enti Pubblici per l’esercizio finanziario 2018 e bilanci pluriennali 2018/2020

16 Gennaio 2018

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Il Fisco estero prevale sulle presunzioni italiane

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 12 Dicembre 2017 di Massimo Romeo

Ctp di Milano. Se le informazioni fornite scagionano il contribuente

Le informazioni fornite dall’autorità fiscale straniera prevalgono sulle presunzioni del fisco italiano. L’intento elusivo deve essere provato in capo al contribuente accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi, tanto più laddove, nell’ambito dello scambio automatico di informazioni, l’autorità fiscale straniera abbia dichiarato il soggetto quale beneficiaria effettiva delle operazioni. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp di Milano 67292017 (presidente e relatore Ortolani).
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguarda l’impugnazione da parte di una Spa di un avviso di accertamento per omesso versamento di ritenute su interessi corrisposti alla consociata (società veicolo), intermediaria di pagamenti aventi quali beneficiari effettivi soggetti domiciliati in Paesi black list e pertanto senza diritto all’esenzione da ritenuta prevista dal trattato contro le doppie imposizioni. La ricorrente, fra i vari motivi opposti, ha eccepito la mancata allegazione di documenti richiamati dal fisco nella motivazione dell’atto impositivo, l’infondatezza dell’avviso per aver dimostrato l’esistenza dei presupposti richiesti, nonché la mancata prova che non fosse beneficiaria effettiva.
L’ufficio ha difeso l’atto emesso focalizzando l’attenzione sulla società percipiente, qualificandola quale soggetto strumentale interposto per veicolare gli interessi corrisposti verso gli effettivi beneficiari residenti in Paesi a tassazione privilegiata o esente. La condotta elusiva è stata rilevata guardando sia ai flussi finanziari di raccolta e impiego tra loro correlati nel tempo e nelle dimensioni quanto alla provenienza, sia all’erogazione alla ricorrente quale beneficiaria dei finanziamenti, nonché per l’assenza di struttura e mezzi propri idonei in capo alla consociata tali da giustificare in via autonoma tale attività finanziaria.
Il collegio lombardo da un lato riconosce che l’attività di contrasto all’elusione è un principio immanente nelle leggi e nei trattati comunitari, per cui non è necessario che tale principio trovi una specifica ricezione nell’ordinamento interno; dall’altro che l’intento elusivo deve essere provato in capo al soggetto accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi.
Sulla base di questi principi i giudici milanesi risolvono la controversia a favore della parte privata in tema dell’onere della prova. In sostanza, avendo il fisco italiano richiesto e ricevuto dall’autorità straniera informazioni circa la reale attività finanziaria con raccolta di fondi e impieghi svolta dalla consociata, e avendo chiarito che la società ungherese era il beneficiario effettivo delle attività di finanziamento italiano, sarebbe spettato all’ufficio fornire elementi diversi e ulteriori rispetto a quanto richiesto e risultante dalle indagini , in forma ufficiale e formale, svolte e comunicate dall’autorità fiscale estera.

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Web tax all’italiana con una platea ampia

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 13 Dicembre 2017 di Marco Mobili e Marco Rogari

Il fronte interno. Il principio della stabile organizzazione è il cardine della norma in legge di Bilancio

Roma
La territorializzazione di Facebook ai fini fiscali non spiazza la nuova web tax spinta dal Parlamento italiano con la legge di Bilancio. Proprio il principio della stabile organizzazione è il cardine dell’emendamento “Mucchetti” che è stato approvato al Senato e che ora la Camera punta a rendere ancora più efficace.
Stabile organizzazione che nel testo licenziato da Palazzo Madama è in linea con quanto deciderà l’Ocse e con il progetto Beps che ha visto tra i suoi promotori proprio l’amministrazione finanziaria e il governo italiano. Già la scorsa primavera, poi, il Parlamento aveva introdotto nella manovrina correttiva una sorta di web tax transitoria che poggiava tutta sul riconoscimento per opzione della stabile organizzazione in Italia. Era però il momento in cui la procura di Milano aveva acceso i riflettori sui big della digital economy come Google, Apple e Amazon. Per Sergio Boccadutri (Pd) è «corretto affrontare la questione sotto il profilo della stabile organizzazione, diversamente ogni formula di digital tax che discrimini tra on line e off line ha il solo effetto di penalizzare utenti e imprese».
Con l’emendamento che la maggioranza, e in particolare il relatore della legge di Bilancio e presidente della Commissione, Francesco Boccia (Pd), potrebbe depositare nelle prossime ore alla Camera, è da rivedere soprattutto la platea dei soggetti che, privi di una territorializzazione nel nostro Paese, saranno chiamati comunque a versare nelle casse dell’Erario italiano la cedolare 6% sui ricavi. L’obiettivo dichiarato è quello di estendere la web tax made in Italy a tutte le prestazioni: da quelle di servizi alle cessioni di beni, e-commerce incluso. Un ampliamento della base imponibile che potrebbe far lievitare gli incassi per lo Stato anche tagliando drasticamente l’aliquota del prelievo. Dalle simulazioni effettuate su una estensione anche alle transazioni di beni e all’e-commerce, una web tax all’1% garantirebbe oltre 600 milioni di euro contro i 114 milioni stimati dalla Ragioneria con l’attuale versione di web tax uscita dal Senato.
L’estensione all’e-commerce, inoltre, sarebbe in linea con le nuove regole su cui i 27 Paesi dell’Europa sarebbero pronti a sottoscrivere un’intesa in materia di Iva e del suo adeguamento alle evoluzioni del commercio elettronico, così come sull’estensione dell’utilizzo dello sportello unico e sull’esonero mirato per start-up e micro-imprese. Il tutto secondo un filo conduttore: tagliare gli spazi di elusione e le frodi.
Il vero nodo da sciogliere resta la decorrenza della nuova web tax. Il Senato ha fissato la data di decollo dal 1° gennaio 2019. Boccia dal canto suo non ha mai nascosto di voler anticipare il debutto della cedolare sul web quanto meno a partire dal secondo semestre del 2018. Il Governo dal canto suo, però, frena e non solo per adeguare e organizzare la macchina amministrativa chiamata a gestire un’imposta su centinaia di milioni di transazioni, ma anche perché tra indicazioni Ocse e decisione dell’Europa la data di partenza dovrebbe essere fissata al 2020. Un anno di anticipo è ritenuto più che sufficiente .

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Tassazione dividendi, non conta la delibera

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore di Primo Ceppellini e Roberto Lugano
Società. Le novità della manovra e l’impatto dell’equiparazione delle partecipazioni qualificate e non
Le nuove regole sui dividendi percepiti dalle persone fisiche, che derivano dalla totale equiparazione delle partecipazioni qualificate a quelle non qualificate, si applicheranno alle somme percepite a partire dal 1° gennaio 2018. Tuttavia, le novità previste dal disegno di legge di bilancio 2018 prevedono un regime transitorio destinato a rimanere in vita parecchi anni.
Vengono infatti dichiarate applicabili tutte le regole del decreto ministeriale del 26 maggio 2017, e questo comporta il fatto che il regime di tassazione dei dividendi non dipende dalla data in cui viene deliberata la distribuzione, ma piuttosto dal periodo nel corso del quale si sono formati gli utili che vengono distribuiti.
Nel corso degli anni, infatti, abbiamo assistito alla progressiva riduzione dell’aliquota dell’Ires, accompagnata di volta in volta da un corrispondente aumento della quota di dividendi che concorre a formare il reddito imponibile dei percettori.
L’applicazione del regime transitorio comporta adempimenti per le società e regole di tassazione differenziata per i soci. Possiamo sintetizzare le regole per le società di capitali nel seguente modo:
le società devono mantenere separata memoria delle riserve di utili, distinguendole in base al periodo in cui si sono formate;
quando vengono deliberate distribuzioni di riserve si applica il criterio Fifo, ovvero si considerano distribuiti per primi gli utili formati in periodi più lontani.
La persona fisica che detiene partecipazioni qualificate e che beneficia della distribuzione di utili deve tassarli ai fini Irpef nel seguente modo:
utili formati fino al 2007: concorrono al reddito imponibile per il 40% del loro ammontare;
utili formati dal 2008 al 2016: concorrono al reddito imponibile per il 49,72% del loro ammontare;
utili formati nel 2017: concorrono al reddito imponibile per il 58,14% del loro ammontare;
utili formati a partire dal 2018: sono soggetti alla ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento e quindi non devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi.
In base alle norme proposte dal disegno di legge di bilancio, queste disposizioni transitorie si applicheranno a tutte le distribuzioni di utili deliberate fino al 31 dicembre 2022. Fino a quella data, quindi, le società di capitali non hanno nessuna urgenza di distribuire utili formati in vecchi esercizi solo con il fine di mantenere il regime di tassazione più favorevole in capo ai soci: questo effetto si consegue automaticamente con la regola FIFO che abbiamo sopra ricordato.
A partire dal 2023, invece, tutte le riserve rimaste in capo alle società saranno accorpate in un’unica categoria, e la loro distribuzione sarà soggetta a un unico regime fiscale, ovvero all’applicazione della ritenuta del 26% a titolo di imposta. Sarà in prossimità della fine dell’anno 2022, quindi, che andranno fatte valutazioni sulla convenienza (in capo ai soci) di effettuare distribuzioni per evitare l’applicazione della cedolare secca del 26 per cento, che comporta una tassazione più elevata.

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C’è stabile organizzazione solo con rappresentanza diretta

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore  4 Gennaio 2018 di Enrico Holzmiller

Accertamento. Per la Ctr Lombardia non bastano le limitazioni alla società italiana da parte di quella estera

Ai fini della presunzione dell’esistenza in Italia di una stabile organizzazione personale non basta che la casa madre imponga all’agente direttive stringenti sulla propria capacità operativa. È la conclusione della commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza 4871/2017, depositata il 23 novembre 2017 (presidente D’Agostino, relatore Colavolpe).
La sentenza ha il pregio di affrontare, in modo puntuale e sistematico, molte tra le “classiche” presunzioni richiamate dall’amministrazione finanziaria in questo tipo di accertamenti fiscali, facendo emergere ancora una volta il ruolo determinante che assume il rapporto contrattuale tra le parti.
La vicenda trae origine dal rapporto tra una società di diritto inglese ed una srl italiana, contrattualmente formalizzato, avente ad oggetto la fornitura – in Italia – di servizi di gestione e di vendita di software prodotti dalla referente straniera. Dalla lettura della sentenza, le due società risulterebbero non avere alcun collegamento partecipativo.
L’agenzia delle Entrate, sulla base di una serie di presunzioni asseritamente qualificate, ha identificato nella Srl italiana l’esistenza di una stabile organizzazione straniera. Si tratterebbe, in particolare, di una «stabile organizzazione personale», identificando la persona in predicato in uno specifico dipendente della stessa srl italiana.
In particolare, i rilievi mossi dalle Entrate possono essere così riassunti:
da dichiarazioni di soggetti terzi, risulterebbe che il dipendente della Srl italiana si sia “venduto”, nell’ambito dei rapporti commerciali, come sales manager Italy e distribution manager della società inglese;
il contratto in essere tra la società inglese e quella italiana conterrebbe clausole e previsioni fortemente limitanti della libertà operativa di quest’ultima, nonché un obbligo di reporting mensile sull’andamento delle prestazioni rese dalla srl nei confronti della società straniera;
il riferimento alla giurisdizione inglese, quale legge applicabile in caso di divergenze tra le parti, sarebbe un’ulteriore prova dell’esistenza di una direzione vincolante da parte della società inglese su quella italiana.
Preso atto di tali presunzioni e delle controdeduzioni della società di diritto inglese, la Ctr Lombardia inizia la sua analisi esaminando le disposizioni contenute nell’articolo 162 Tuir, comma 7, in tema di stabile organizzazione personale. I giudici richiamano quindi alcune sentenze della Cassazione (in particolare, la n. 8488/2010) secondo cui l’ipotesi di stabile organizzazione personale ricorre solo laddove all’agente siano stati conferiti formalmente poteri di rappresentanza diretta (come la possibilità di spendere il nome del preponente, al momento della conclusione del contratto) oppure laddove lo stesso agente abbia un ruolo essenziale nelle trattative prodromi che alla conclusione del contratto.
La Ctr, applicando tale assunto al caso di specie, osserva come il contratto in essere tra le parti non preveda formalmente alcuna rappresentanza diretta, ed anzi sussisterebbe un espresso divieto, a carico della srl italiana, di concludere contratti in nome e per conto della referente inglese. Il fatto quindi che il dipendente della srl, nell’ambito dei rapporti commerciali, facesse diretto riferimento alla società straniera, non è stato ritenuto elemento degno di nota.
Circa le asserite forti limitazioni contrattuali a carico della società-agente italiana, la Ctr, richiamando ancora i requisiti formali del contratto, rileva che c’è una previsione specifica secondo cui la srl può agire in piena discrezione per quanto riguarda modalità e mezzi con i quali eseguire i servizi.
In merito all’obbligo di reporting, la Ctr ha convenuto con la tesi della contribuente, secondo cui l’obbligo in questione risulterebbe del tutto usuale nei rapporti di questo tipo, trattandosi di un normale adempimento da parte di un prestatore di servizi che ritrae, dalla corretta esecuzione di questi ultimi, i compensi per la propria attività.
Neppure il riferimento contrattuale alla legislazione inglese, quale normativa applicabile tra le parti ha trovato consenso nella Ctr: tale genere di previsioni – è stato fatto osservare – vengono normalmente imposte dal contraente più forte (nel caso specifico, la società inglese), senza che da ciò possa derivarsi l’esistenza di una “stabile” in capo al soggetto (italiano) più debole.

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Certificati di residenza estera vincolanti

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 4 Gennaio 2018 di Massimo Romeo

Esterovestizione. Per la Ctp Milano, per contestare le veridicità dei documenti le Entrate devono prima rivolgersi all’autorità del Paese che li ha rilasciati

I certificati rilasciati dall’autorità fiscale estera, in virtù dello scambio automatico di informazioni e delle convenzioni contro le doppie imposizioni, hanno valenza probatoria vincolante. E, se l’agenzia delle Entrate contesta l’esterovestizione di una società per non esserne la beneficiaria effettiva, dovrebbe prima chiedere chiarimenti al suo omologo estero. Lo stabilisce la sentenza 6579 depositata il 27 novembre dalla Commissione tributaria provinciale di Milano (presidente Bricchetti, relatore Chiametti).
Una Srl aveva impugnato un avviso di accertamento che contestava ritenute non operate e non versate su interessi pagati derivanti da un finanziamento in essere con una società lussemburghese; quest’ultima aveva quale oggetto sociale l’erogazione di finanziamenti a lungo termine a favore delle società del gruppo.
La ricorrente eccepiva, fra l’altro, che fosse stato depositato alle Entrate un certificato di residenza rilasciato dall’autorità fiscale straniera attestante lo stato sia di beneficial owner sia di statement della società lussemburghese , ovvero di beneficiario effettivo dei pagamenti nonché del regime di esenzione degli interessi ricevuti dalle consociate, appartenenti a Paesi Ue, come previsto dalla direttiva 2003/49/CE.
Le Entrate ribattevano concentrandosi sull’assetto della società lussemburghese e sostenendo che la ricorrente, pur se in possesso del 51% del capitale sociale, aveva di fatto inibito il potere di gestire la società partecipata: per statuto, poteva eleggere un solo amministratore rispetto ai due che poteva eleggere l’altro socio. Inoltre, secondo l’ufficio, a fronte di finanziamenti erogati per svariati milioni, la società aveva un capitale sociale irrisorio, una carente struttura patrimoniale economico-finanziaria e nessuna garanzia sui finanziamenti concessi. Quanto alla violazione delle disposizioni comunitarie e nazionali in materia di Stato titolato a identificare il beneficiario effettivo e l’illegittimità del mancato riconoscimento delle due certificazioni di fonte estera, l’ufficio rammentava l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2003/49/CE, rappresentando la possibilità per gli Stati membri di rifiutare l’applicazione delle disposizioni comunitarie.
La Ctr, preliminarmente, delinea i requisiti sostanziali per essere qualificati beneficiari effettivi e poter quindi usufruire dell’esenzione ex articolo 26-quater del Dpr 600/73, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria:
reddito imputato secondo la legge fiscale dello Stato di residenza;
il soggetto cui il reddito è imputato non deve avere alcun obbligo, legale o contrattuale, di trasferire il reddito ad altro soggetto, sulla base di una obbligazione originariamente collegata al reddito ricevuto.
La prima circostanza può facilmente essere accertata mediante la ricezione del certificato di residenza convenzionale rilasciato dalle autorità fiscali dello Stato di residenza del supposto beneficiario effettivo. La seconda deve essere oggetto di separata verifica che non deve competere al sostituto di imposta; quindi è corretto il comportamento del contribuente che ha assunto la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero.
Quanto al requisito sostanziale della residenza ai fini fiscali del soggetto percipiente, i giudici richiamano a supporto una copiosa e pacifica giurisprudenza di merito secondo la quale i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante.
La Ctp considera pertanto legittimo l’operato della società, trovando altresì conforto nella giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 3 febbraio 2012, n. 1553). Nello stesso senso è l’orientamento consolidato della Corte di giustizia Ue secondo la quale i diritti riconosciuti dalla normativa europea, qualora siano soddisfatti i relativi requisiti sostanziali, non possono essere disconosciuti per il mancato rispetto dei requisiti puramente formali.

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