Rischio maxisanzioni per la privacy in tribunale

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore 09 Febbraio 2018 di Ivan Cimmarusti

Dati sensibili

roma
Maxi sanzioni fino a 150mila euro in caso di irregolarità nella gestione dei dati personali da parti dei soggetti delegati al trattamento «a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzioni di sanzioni penali».
Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in prima lettura lo schema di decreto legislativo che attua la direttiva 2016/680/Ue, con cui si disciplinano le regole di gestione dei dati personali non solo da parte dei Tribunale, ma anche di tutti quegli organismi che si occupano di svolgere indagini o verifiche di ordine pubblico. La norma ha l’obiettivo di fornire una regolamentazione organica del trattamento dei dati personali delle persone fisiche legate ad aspetti penali, che supera e sostituisce quella già disciplinata nei titoli primo (principi generali) e secondo (regole generali per il trattamento dei dati) del Codice (Dlgs 196/2003).
Stando allo schema di decreto, si rischiano sanzioni da 50mila a 150mila euro nel caso in cui i dati non siano trattati in modo lecito e corretto e siano trattati per finalità diverse. Si va da 20mila a 80mila euro, invece, qualora ci siano violazioni delle disposizioni che regolano l’esercizio dei diritti di informazione, accesso, rettifica o cancellazione dei dati personali e limitazione del trattamento.
Con il provvedimento, che ora dovrà ricevere i pareri delle Camere, si intende creare un testo unitario, tutto dedicato alla complessiva disciplina del trattamento dei dati personali in ambito penale, con l’obiettivo di creare un verso e proprio statuto, contenente i principi generali di regolamentazione della materia, rivolti anche al legislatore del futuro.

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Congruità in rapporto al fatturato e non all’utile

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 19 Febbraio 2018 di Giorgio Gavelli e Renato Sebastianelli
Ctp e Ctr. L’indirizzo
Le commissioni tributarie di merito stanno valutando attentamente gli elementi di prova forniti dalle società “sponsor” per giustificare, oltre che l’esistenza o l’inerenza dell’operazione, la congruità dei costi rispetto ai ricavi. Proprio in merito all’antieconomicità dell’operazione vi sono diversi orientamenti di cui nessuno, al momento, predominante.
Si sta comunque sempre più consolidando l’orientamento secondo cui il costo della sponsorizzazione deve essere parametrato al fatturato e non all’utile, che è l’importo risultante dopo aver diminuito il fatturato da vari costi aziendali tra i quali quelli pubblicitari.
Tra gli altri orientamenti favorevoli alle imprese si segnalano:
quello secondo cui l’amministrazione finanziaria non può qualificare un costo di sponsorizzazione come antieconomico e, conseguentemente, farne presumere la mancanza dei requisiti previsti per la deducibilità, poiché questa valutazione è rimessa al giudizio e alle scelte del singolo imprenditore;
quello in cui il costo di sponsorizzazione deve essere visto nel senso ampio di inerenza all’attività di impresa, ovvero nell’ottica potenziale di produrre utile e senza dover dimostrare l’effettivo incremento dell’utile e/o del fatturato, in quanto nella pubblicità è insito il rischio imprenditoriale e quindi non ci può essere la minima garanzia che l’ obiettivo sia effettivamente conseguito.
L’inerenza viene talvolta contestata da parte dell’amministrazione finanziaria anche rispetto al contesto territoriale in cui viene effettuata la sponsorizzazione.
In pratica, sembra emergere dalle contestazioni che il ritorno economico della sponsorizzazione sia strettamente da collegarsi al luogo e alle persone che assistono alla manifestazione.
Anche in tal caso non vi è un orientamento univoco in giurisprudenza, anche se in alcune pronunce si fa notare che il risultato della sponsorizzazione non dipende tanto dal luogo in cui è svolta, quanto piuttosto dall’effetto mediatico che l’evento può far scaturire sul marchio pubblicizzato, sia a livello nazionale che internazionale.
Inoltre occorre tener conto del fatto che che i nuovi mezzi di comunicazione (come, ad esempio, una diretta streaming) possono raggiungere un pubblico indistinto tramite la rete, che va oltre quello presente fisicamente alla manifestazione.

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Operazioni inesistenti, prova all’acquirente

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2018 di Antonio Iorio

Cassazione. All’amministrazione basta la presunzione di fittizietà

Nelle operazioni soggettivamente inesistenti l’amministrazione può limitarsi a provare anche in via presuntiva la fittizietà dell’operazione. L’onere probatorio si sposta così sul contribuente/acquirente il quale deve dimostrare di aver agito in piena buona fede e cioè che, utilizzando l’ordinaria diligenza, non poteva accorgersi della frode. A confermare questo orientamento è la Corte di cassazione con due ordinanze (n. 3473 e 3474) depositate ieri.
In entrambe le vicende, l’Agenzia recuperava l’Iva sugli acquisti in quanto ritenuti connessi a fatture soggettivamente inesistenti. Un terzo, infatti, si era interposto fittiziamente nelle operazioni al solo fine di evadere le imposte.
L’ufficio giustificava la pretesa impositiva evidenziando in estrema sintesi che le società emittenti le fatture fossero mere cartiere prive di organizzazione. In un caso (relativo all’acquisto di autovetture) il venditore era anche privo di dipendenti e di capacità finanziaria, inoltre i prezzi praticati risultavano inferiori a quelli di mercato.
I giudici di legittimità, in buona sostanza, sono stati chiamati a valutare se l’onere probatorio in capo all’ufficio fosse stato correttamente assolto, dal momento che in entrambe le vicende si rilevavano irregolarità in capo alle imprese venditrici ma non si provava il coinvolgimento degli acquirenti.
La Suprema corte in entrambi i procedimenti ha dato ragione all’amministrazione finanziaria ribadendo principi importanti.
Innanzitutto, in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, come confermato dalla consolidata giurisprudenza comunitaria e della stessa Cassazione, l’onere probatorio iniziale ricade certamente sull’amministrazione che deve provare, anche in via presuntiva, l’irregolarità dell’operazione.
Va da sé, in tale contesto, che l’assenza di organizzazione, di strutture di dipendenti delle imprese venditrici ben integravano tale situazione.
A questo punto gli acquirenti devono dimostrare di aver agito in buona fede: il che significa che, utilizzando l’ordinaria diligenza, non avrebbero potuto sospettare degli illeciti perpetrati dai venditori. In assenza di tale prova è legittima l’indetraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti.
Le decisioni confermano il consolidato orientamento in materia e devono indirizzare conseguentemente le modalità difensive. Spesso infatti, l’acquirente ignaro della frode si difende rilevando che l’Ufficio non ha in alcun modo provato concretamente il suo coinvolgimento negli illeciti altrui. In realtà è ormai pacifico che all’amministrazione finanziaria non è richiesta tale prova ma soltanto di indicare, anche in via presuntiva, gli elementi che rendono sospetta l’operazione in questione che di norma sono riferiti al venditore
È opportuno quindi che gli acquirenti, già prima di porre in essere tali operazioni, o comunque dopo le contestazioni dell’amministrazione, producano tutti gli elementi necessari perché possa emergere che non potevano sospettare degli illeciti perpetrati da altri (il venditore).

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Sede in Lussemburgo, l’assenza di addetti non la rende fittizia

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 12 Febbraio 2018 di Laura Ambrosi

Accertamento. Prevale la libertà di stabilimento

Ogni imprenditore è libero di scegliere il luogo di collocazione della propria sede, a prescindere che ciò dipenda da vantaggi fiscali. Tale comportamento è illegittimo, infatti solo se costituisce una costruzione fittizia e non effettiva, ma tale circostanza va provata dall’amministrazione in modo adeguato. A fornire questa interpretazione è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 2/2/2018 depositata il 20 gennaio scorso (presidente e relatore Montanari).
Una società con sede in Lussemburgo ricorreva dinanzi al giudice tributario contro degli avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate. Secondo l’ufficio, la società, che gestiva semplicemente partecipazioni, era “esterovestita” e aveva collocato la sede in Lussemburgo solo per i vantaggi fiscali determinati dalla tassazione locale.
Per di più, l’Agenzia contestava la veridicità degli amministratori di diritto, ritenendo fosse in realtà amministrata da soggetti residenti in Italia e in ogni caso, presso la sede non esisteva personale dipendente.
Tra i diversi motivi di ricorso, la società eccepiva la violazione della libertà di stabilimento della sede, previsto dal Trattato Ue. La scelta di un Paese per porre la sede, anche se finalizzata ad ottenere un minor carico fiscale, non integra un abuso del principio della libertà di stabilimento, fatta salva l’ipotesi in cui si tratti di una costituzione di puro artificio, ma che nella specie non risultava provata.
La Ctp di Reggio Emilia ha ritenuto fondata l’eccezione. Innanzitutto, ha richiamato i principi stabiliti dalla Cassazione (sentenza 43809/2015) secondo i quali l’imprenditore può decidere di collocare le proprie strutture dove meglio ritiene e dotarle secondo le proprie insindacabili valutazioni. L’eventuale vantaggio fiscale non è indebito solo perché vengono sfruttate le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale, contributiva e/o previdenziale, ma lo diventa se è ottenuto attraverso situazioni non corrispondenti alla realtà, ossia di puro artificio.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha costantemente affermato che è irrilevante se la scelta della sede dipende solo da ragioni di convenienza fiscale, poiché occorre accertare se il trasferimento è stato realmente effettuato, e che non è stata creata una posizione meramente giuridica e non effettiva. A tal fine, il domicilio fiscale va individuato nel centro effettivo di direzione e di svolgimento dell’attività, ossia dove risiedono gli amministratori e vengono convocate le assemblee.
Nel caso in esame, la Ctp ha rilevato che gli elementi indiziari indicati nell’accertamento dall’Agenzia erano privi di forza probatoria. La gestione di partecipazioni è un’attività di per sé esercitabile in qualunque Stato e non è necessaria la presenza di personale dipendente. Quanto poi al disconoscimento degli amministratori di diritto rispetto a quelli di fatto residenti in Italia, la Ctp ha ritenuto che non ci fossero prove a sostegno di tale tesi. Anzi, a ben vedere, in atti emergeva che il soggetto ritenuto presidente del consiglio di amministrazione, aveva partecipato ad una assemblea presso la sede in Lussemburgo, così smentendo la tesi erariale.

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Black list con raddoppio solo dal 2009

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore domenica 4 Febbraio 2018 di A.I.

Accertamento. La Cassazione esclude la retroattività della presunzione sugli investimenti detenuti in paradisi fiscali

Investimenti e attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate si presumono redditi sottratti a tassazione solo dal 2009 in quanto la norma non può considerarsi retroattiva. A fornire questo principio è la Cassazione con la sentenza 2662/2018 depositata il 2 febbraio.
La vicenda posta all’attenzione dei giudici riguardava la pretesa di maggior reddito contestata dall’Agenzia ad alcuni contribuenti in conseguenza delle informazioni risultanti dalla nota lista Falciani. Le rettifiche riguardavano i periodi 2005, 2006 e 2007. L’Ufficio in particolare riteneva applicabile (retroattivamente) la presunzione di maggior reddito introdotta dall’articolo 12, comma 2, del Dl 78/2009, convertito dalla legge 102/2009. In base a tale norma infatti:
investimenti e attività di natura finanziaria detenute negli Stati a fiscalità privilegiata in violazione degli obblighi di dichiarazione, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione;
in tal caso, le sanzioni sono raddoppiate.
Con l’entrata in vigore di questa disposizione è subito iniziato un ampio dibattito sulla sua possibile applicazione retroattiva.
In sintesi, secondo l’amministrazione essa era applicabile retroattivamente e quindi anche ai periodi antecedenti il 2009, fermo restando ovviamente i termini di decadenza dell’accertamento (peraltro nella specie raddoppiati). Secondo, invece, i contribuenti e molte commissioni tributarie, la normativa, introducendo una nuova presunzione, non poteva considerarsi retroattiva ma trovava applicazione solo per il futuro, quindi dal periodo 2009 (dichiarazione 2010).
Ora finalmente è intervenuta la Suprema Corte che, con una pronuncia pienamente condivisibile, sia sotto il profilo delle motivazioni giuridiche, sia per il buon senso che esprime, ha ritenuto che la norma in questione pone, in favore del fisco, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro normativo previgente. La sua natura procedimentale sostenuta dall’agenzia delle Entrate, risulterebbe in contrasto con il tradizionale criterio della «sedes materiae», che vede abitualmente le norme in tema di presunzioni collocate nel codice civile e dunque di diritto sostanziale e non già nel codice di rito, ma, soprattutto, porrebbe il contribuente, che sulla base del quadro normativo previgente non avrebbe, ad esempio, avuto interesse alla conservazione di un certo tipo di documentazione, in condizione di sfavore, pregiudicandone l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto con i principi agli articoli 3 e 24 della Costituzione. Da qui il rigetto del ricorso dell’Ufficio che pretendeva l’applicazione della presunzione anche per gli anni ante 2009.
La pronuncia è rilevante perché uffici e Guardia di Finanza hanno sempre applicato retroattivamente sia tale presunzione, sia le sanzioni aggravate, con la conseguenza che ci sono numerosi contenziosi pendenti. Da segnalare infine che molti contribuenti hanno definito la voluntary disclosure “subendo” la retroattività della disposizione imposta dall’Agenzia, pena l’inammissibilità delle richieste. Ora emerge che avrebbero dovuto pagare molto meno.

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Contratti e banner da conservare

8 Marzo 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 19 Febbraio 2018 di Giorgio Gavelli e Renato Sebastianelli

Le cautele. Meglio verificare prima che la società o l’associazione sportiva sia riconosciuta dal Coni

La difesa del contribuente è chiamata a fornire dimostrazione dell’effettiva esistenza della sponsorizzazione, in particolare attraverso l’esibizione dei contratti (dettagliati, non generici e possibilmente con data certa), delle fatture correttamente redatte e complete in ogni loro parte, dei pagamenti effettuati con modalità tracciate e della documentazione attestante l’avvenuta pubblicità quali giornali, foto, filmati, etc. riportanti il logo della società sponsor.
È pertanto opportuno conservare tutta la documentazione, compresa la pubblicità effettuata tramite banner pubblicitari sui siti web, che dopo un certo periodo di tempo non sono più visibili.
Se si opera in campo sportivo, è opportuno che la società sponsor, prima di procedere con la scelta di pubblicizzare i propri prodotti, si accerti che la associazione sportiva dilettantistica (Asd) o la società sportiva dilettantistica (Ssd) sia riconosciuta dal Coni e affiliata alle federazioni sportive nazionali.
Se poi, è possibile dimostrare un legame tra investimento pubblicitario e incremento delle vendite (o, più semplicemente, dei contatti con potenziali clienti), tanto meglio.
Ma la prova che la manifestazione sponsorizzata è realmente avvenuta ed i partecipanti hanno avuto diretta conoscenza che lo sponsor ha avuto un ruolo nella sua organizzazione è uno degli elementi che spesso la difesa dell’impresa deve rintracciare ad anni di distanza dagli eventi, con tutte le difficoltà legate al reperimento di accadimenti passati.
Recentemente, i giudici milanesi hanno valorizzato (oltre alle solite locandine, foto, filmati, estratti di giornali sportivi, calendari delle manifestazioni eccetera) anche le dichiarazioni di soggetti terzi, nella forma di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, che hanno attestato la loro partecipazione come spettatori agli eventi sportivi.
Anche se queste dichiarazioni non possono «assurgere a testimonianza, hanno pur sempre un rilevante valore indiziario» (così la Commissione tributaria regionale Lombardia 1727/11/2017). Meglio, quindi, prepararsi per tempo a soddisfare l’onere probatorio.

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Antiriciclaggio, dai giudici il principio del favor rei

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 19 Gennaio 2018 di Valerio Vallefuoco

Sanzioni valutarie. Provvedimento del Tribunale di Roma

A distanza di quasi sei mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 90/2017 che recepisce delle IV Direttiva antiriciclaggio, si cominciano a definire i primi orientamenti giurisprudenziali in ordine alla portata applicativa delle nuove norme.
Sono infatti state emesse alcune sentenze di primo grado che applicano le sanzioni più favorevoli ai soggetti vigilati, in particolare alle banche ed ai loro dirigenti e dipendenti. In questo contesto si inserisce il recente provvedimento, ottenuto dallo studio Ristuccia Tufarelli, con il quale il Tribunale di Roma il 6 gennaio 2018 ha sospeso l’efficacia esecutiva di un decreto con il quale il Mef irrogava a una banca una pesante sanzione per violazione della normativa antiriciclaggio.
Nel motivare il provvedimento di sospensione, il giudice si richiama alla norma del nuovo testo antiriciclaggio (articolo 69) che, nel disciplinare la successione di leggi nel tempo, espressamente prevede l’applicazione del principio del favor rei in base al quale, per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del nuovo decreto, sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se più favorevole.
Ne risulta confermata l’operatività del principio della retroattività della legge più favorevole al sanzionato (lex mitior). Tale principio era stato richiamato prima nella relazione illustrativa del Governo al decreto, poi dalla circolare applicativa della Guardia di finanza e anche da quella del Mef sul regime e le procedure sanzionatorie.
In questo senso anche la dottrina si era già espressa (si veda Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2017). L’applicazione di tale principio presuppone che una medesima condotta sia prevista come illecita e sia sanzionata sia dalla legge in vigore al momento del fatto, sia dalla successiva ma con un regime sanzionatorio differente. Condizioni, queste, presenti nel caso sottoposto alla cognizione del giudice capitolino e che potrebbero portare ad un dimezzamento della sanzione irrogata.
C’è da attendersi che questo provvedimento giudiziario sia destinato a costituire un importante precedente soprattutto in considerazione del fatto che anche dopo la riforma i giudizi di opposizione al decreto sanzionatorio adottato dal Mef restano assoggettati alla giurisdizione del giudice ordinario individuato in via esclusiva proprio nel Tribunale di Roma.
Sarà interessante seguire gli ulteriori sviluppi in considerazione della difesa ministeriale, che invece sostiene la non applicabilità della sanzione più favorevole ai procedimenti definiti con decreto di condanna. Tale tesi si giustifica, secondo il ministero, in quanto, essendo il decreto di condanna immediatamente esecutivo, il sanzionato normalmente procede al pagamento e quindi il ministero sarebbe costretto a restituire quanto incassato in violazione del principio di invarianza finanziaria.
Probabilmente la questione è tutt’altro che risolta ed assisteremo a impugnazioni di queste decisioni e provvedimenti da parte del Mef, anche se il principio generale è chiaro: si applica sempre il principio della legge più favorevole quando un u decreto o un’ordinanza di condanna sono impugnati poiché sono considerati provvedimenti non definitivi .

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Delle ritenute omesse risponde il cda

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 24 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Cassazione. I singoli componenti sono responsabili quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento

Del reato di omesso versamento delle ritenute può rispondere ciascun componente del consiglio di amministrazione della società: ognuno infatti, disponendo di poteri di firma libera e disgiunta, può autonomamente adempiere all’obbligazione tributaria a prescindere dalla suddivisione interna di specifiche competenze.
Ad affermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2741 depositata ieri.
Nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una società veniva disposto sequestro preventivo finalizzato alla confisca, su beni nelle loro disponibilità per il delitto di omesso il versamento delle ritenute della società.
La misura cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame. Avverso tale decisione, ricorrevano gli amministratori in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi, l’errata estensione della responsabilità penale all’intero consiglio di amministrazione, anziché imputarla esclusivamente al legale rappresentante della società.
La Suprema corte, ritenendo infondata la doglianza, ha innanzitutto chiarito che la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate (nella versione ante modifiche del Dlgs 158/2015) nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente. Il reato si consuma così alla scadenza del termine lungo e non prima, con la conseguenza che fino a tale momento, il comportamento omissivo del contribuente non ha alcuna rilevanza penale. Da ciò consegue che la responsabilità potrebbe anche ricadere su un soggetto diverso da chi ha omesso i versamenti delle ritenute: potrebbe infatti accadere che l’amministratore nel corso dell’anno, quando cioè avvengono gli omessi pagamenti, non sia il medesimo in carica all’atto della presentazione della dichiarazione.
Con riguardo poi alla sussistenza di un consiglio di amministrazione, i giudici di legittimità hanno precisato che i singoli componenti non sono chiamati a rispondere perché garanti dell’adempimento altrui, ma quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento. Trattandosi di una società a responsabilità limitata, se l’ordinaria amministrazione è affidata a più persone disgiuntamente, ciascuno è autonomamente e singolarmente in grado di porre in essere gli atti estintivi delle obbligazioni della società.
Il pagamento del debito tributario, peraltro, è un atto giuridico che qualunque amministratore può validamente compiere, non trattandosi di atto di gestione in senso stretto.
L’eventuale suddivisione interna delle competenze non è opponibile a terzi e comunque non limita la capacità del singolo membro di compiere atti giuridici, tanto più se il potere di ciascuno è con firma libera e disgiunta.
Ciascun amministratore poteva così compiere atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere ed anche “estranei” al settore di propria competenza. Da qui il rigetto del ricorso.

 

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Lettere sulle attività estere «viziate» da dati indebiti

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 25 Gennaio 2018 di Marco Piazza

Adempimento spontaneo. Le comunicazioni dell’Agenzia riguardano il periodo d’imposta 2016

Nel Crs anche le informazioni sui rapporti intestati a intermediari

Lo scambio d’informazioni automatico con le amministrazioni finanziarie estere (secondo il cosiddetto Common reporting standard – Crs) comincia a dare i suoi risultati: sulla base del provvedimento dell’agenzia delle Entrate 299737/2017 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 22 dicembre 2017) sono state inviate migliaia di comunicazioni ai contribuenti che risultano detenere attività finanziarie all’estero non indicate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, con lo scopo di promuovere il cosiddetto “adempimento spontaneo”.
Queste comunicazioni sono estremamente generiche. Non contengono alcun dato che consenta di identificare la tipologia di attività, l’entità e il luogo di detenzione. Non si tratta quindi di accertamenti contro cui ricorrere, a rischio di perdere qualche opportunità di difesa; né si tratta di atti introduttivi di attività di indagine nei confronti del contribuente.
Viene solamente avvertito il contribuente che risultano anomalie nella sua posizione fiscale, che può chiedere e fornire spiegazioni.
Le comunicazioni riguardano l’anno d’imposta 2016 (dichiarazione 2017). Pertanto è ancora possibile avvalersi del ravvedimento operoso.
L’obbligo di compilare il quadro RW non sussiste se le attività all’estero sono detenute per mezzo di intermediari finanziari italiani che, al verificarsi dei presupposti, prelevino eventuali ritenute ed imposte sostitutive dovute (articolo 4, comma 3 del Dl 167/90).
Ci si attendeva che i rapporti all’estero intestati ad intermediari finanziari italiani (cosiddette “istituzioni finanziarie”) per conto dei loro clienti non sarebbero stati oggetto di alcuna segnalazione da parte degli intermediari esteri: in linea di massima, lo scambio automatico d’informazioni non viene effettuato se il conto o il deposito è intestato ad una istituzione finanziaria. Qualche problema poteva sorgere per i rapporti in amministrazione fiduciaria senza intestazione oppure per i lavoratori in zone di frontiera, detentori – nello Stato estero in cui lavorano – di conti correnti con giacenza media non superiore a 5mila euro.
Quando invece il rapporto all’estero è intestato a una istituzione finanziaria di un paese collaborativo (specie italiana) la segnalazione non dovrebbe essere fatta.
È invece successo che molti intermediari esteri hanno comunicato anche i titolari effettivi dei rapporti intestati a banche e fiduciarie italiane per loro conto e che quindi, l’agenzia delle Entrate abbia riscontrato, in tantissimi casi, anomalie in realtà non esistenti.
I principali casi riguardano polizze vita, quote di fondi comuni d’investimento e azioni o quote di società estere.
Il contribuente in regola può:
• trascurare la comunicazione;
• chiedere alla direzione provinciale competente ulteriori informazioni per individuare l’investimento oggetto di segnalazione;
• dare all’Agenzia l’informazione che giustifica la mancata compilazione del quadro RW, ossia che le attività sono amministrate da un intermediario finanziario italiano.
L’ultima soluzione (si veda qui a fianco il facsimile da adattare al caso concreto) pare preferibile perché i dati dello scambio d’informazioni sono disponibili anche per la Guardia di Finanza.

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Il reato tributario prevale sulle false comunicazioni

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 29 Gennaio 2018 di Antonio Iorio

Se le false comunicazioni sociali sono state poste in essere al solo fine di evadere il fisco e integrano anche un reato tributario non è possibile ipotizzare il concorso fra i due delitti in quanto l’illecito fiscale è speciale rispetto a quello societario e quindi lo assorbe. Lo scopo della violazione, in altre parole, è rappresentato soltanto dall’illecito risparmio di imposta che assorbe quello più generale previsto dalla fattispecie penale societaria di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. È questa una della numerose, interessanti, indicazioni fornite dal Comando generale della Guardia di Finanza nella circolare 1/2018 sull’attività di controllo del Corpo.
La direttiva, a questo proposito, richiama l’attenzione sul possibile concorso tra reati di matrice tributaria e quelli di falso societario con riferimento, ovviamente, alle società di capitali. Viene evidenziato che l’occultamento di ricavi ovvero l’esposizione di costi “gonfiata” da parte di società possono generare, contestualmente, sia un bilancio d’esercizio, sia una denuncia dei redditi mendace. Così l’inserimento tra i costi di un onere inesistente comporta inevitabilmente l’indicazione di un fatto materiale non rispondente al vero. In questo caso ricorre, astrattamente, il caso tipico di concorso materiale tra i reati di false comunicazioni sociali e di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2 del Dlgs 74/2000, che si configura laddove gli elementi negativi inesistenti rilevati in bilancio e indicati nella dichiarazione fiscale derivino dall’utilizzo di fatture o altri documenti falsi.
La circolare ricorda però che il concorso implica il riscontro della sussistenza degli altri elementi costitutivi delle fattispecie penali esaminate, tra cui i diversi elementi soggettivi e i differenti momenti di consumazione. L’elemento soggettivo proprio della frode fiscale è il fine di evadere le imposte e di consentire a terzi l’evasione e risulta ben distinto da quello del falso in bilancio rappresentato dal conseguimento per sé o altri di un ingiusto profitto. Quindi se le false comunicazioni sociali hanno un’esclusiva finalità fiscale, si configurerà, in virtù del criterio di specialità, la sola frode fiscale; di contro, ove non sussista il fine di consentire a terzi l’evasione, ma si riscontri il solo elemento psicologico previsto per il reato societario, sarà configurabile solo la fattispecie del mendacio societario.

 

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