Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 21 FEBBRAIO 2019 di Angelo Busani

EDILIZIA

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata

L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli

Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.

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Il «centro d’interesse» del residente all’estero

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore del 18 Febbraio 2019 di Fabrizio Cancelliere

Dichiarazione dei redditi delle persone fisiche

Quando vengono meno i presupposti del “centro d’interesse” che impongono a un cittadino iscritto Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia? Quali documentazioni sono necessarie per supportare il venir meno del centro d’interesse?
S.G.MILANO
Non esistono indicazioni puntuali, nella normativa, per definire il centro d’interesse che integra una delle tre circostanze fattuali che determinano la residenza fiscale in Italia, vale a dire il domicilio. A livello normativo, infatti, il Codice civile si limita a definire il domicilio di una persona come il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Nel dettaglio, il domicilio consta di due elementi: quello oggettivo, in riferimento ai rapporti economici, morali, sociali e familiari; quello soggettivo, derivante dall’intenzione del soggetto stesso di fissare in un determinato luogo il centro dei propri affari o interessi. A livello pratico e di prassi, la verifica sull’effettivo domicilio può essere svolta sulla base di molteplici indicatori, come ad esempio l’utilizzo di un abitazione e la relativa frequenza, desumibile dall’analisi delle utenze, l’analisi degli spostamenti da e verso l’estero, la presenza dei familiari, il luogo di lavoro, eccetera. Per rispondere alla domanda, dunque, possono in linea teorica rilevare gli elementi appena citati, anche in direzione contraria; vale a dire fornendo prova della prevalenza di tali elementi nello Stato estero, rispetto a quello italiano. Va comunque considerato che, salvo i casi di trasferimenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”, l’onere della prova – con riferimento ai cittadini iscritti all’Aire – spetta all’amministrazione finanziaria; e che i casi di doppia residenza fiscale possono essere gestiti attraverso le regole previste dai trattati contro le doppie imposizioni, che fissano delle regole per stabilire quale dei due Stati debba considerarsi prevalente ai fini della residenza.

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Costo del lavoro spia dell’evasione

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 5 FEBBRAIO 2019 di Giuseppe Napoli e Raffaele Vitale

FONDAZIONE VISENTINI – CERADI

La Suprema Corte, con l’ordinanza 25290/2018, ha integrato il canone pretorio dell’antieconomicità ritenendo valido come elemento presuntivo la presenza di un dipendente con una retribuzione di poco inferiore al reddito del datore di lavoro. Nel caso di specie, il giudice di legittimità, ha esaminato un rilevante corredo istruttorio, costituito dal reddito del dipendente, dal tenore di vita del contribuente e dall’ubicazione dell’attività, ritenendolo indicativo di una incoerenza logica nella gestione imprenditoriale e, quindi, idoneo a disconoscere le scritture contabili e a consentire la determinazione induttiva del reddito. Invero, negli ultimi anni, i mass-media hanno commentato i dati del Mef sulle dichiarazioni dei redditi, evidenziando come la media delle retribuzioni dei dipendenti risulti spesso superiore a quanto dichiarato dagli imprenditori. Pur dando atto che ragionevoli scelte imprenditoriali o sfavorevoli contingenze economiche concorrano a determinare una siffatta incoerenza per alcuni degli interessati, per altri il dato appare sintomatico di evasione, tanto più grave quando il datore di lavoro goda anche di sussidi altrimenti non spettanti.
Orbene, si auspica un’opportuna riflessione de iure condendo, giacché la griglia normativa offerta dalle presunzioni tributarie semplici potrebbe presentare maglie troppo strette, ove il dato presuntivo non fosse accompagnato da nuovi elementi di prova, mettendo a rischio l’esito dell’accertamento, ovvero troppo larghe, così da esporre l’imprenditore a un caleidoscopio di valutazioni e scoraggiare politiche d’investimento sulle risorse umane. Nello stesso tempo, il quadro delle presunzioni legali esige un costante aggiornamento, per far emergere nuove condotte potenzialmente evasive e perfezionare gli strumenti in uso.
In ragione di tali esigenze potrebbe prevedersi una presunzione legale relativa, in base alla quale il reddito dell’imprenditore non dovrebbe essere inferiore al reddito medio dei suoi dipendenti. In modo analogo, in ipotesi di società a ristretta base societaria, la società dovrebbe dichiarare un reddito non inferiore a quello medio dei dipendenti, moltiplicato per il numero dei soci. La presunzione risponderebbe a un canone di ragionevolezza, riconoscendo al contribuente ampia facoltà di fornire prova contraria. La possibile censura di convenienza a pagare meno o in nero i propri dipendenti, è superabile, trattandosi di un aggiramento della norma oneroso, in ragione dei minori costi deducibili e delle sanzioni conseguenti alla relativa evasione contributiva. Nel frattempo, l’Amministrazione finanziaria avrebbe la possibilità di eseguire controlli più efficienti, concentrati su coloro non in linea con la presunzione, e più efficaci, nella misura in cui una maggiore ponderazione e la predeterminazione del criterio presuntivo, rendono l’esito dell’attività di verifica meno incerto.

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Invio esterometro, i punti da chiarire prima del 30 aprile

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 18 FEBBRAIO 2019 di Giampaolo Giuliani

ADEMPIMENTI

Dal concetto di operazioni «transfrontaliere» ai soggetti esonerati

L’annunciata proroga al 30 aprile dell’invio dell’esterometro dà un po’ di respiro agli operatori. In ogni caso, sarebbe bene sfruttare il tempo in più per puntualizzare alcuni aspetti critici di questa comunicazione (che prevede la trasmissione telematica dei dati Iva delle operazioni transfrontaliere, ex articolo 1, comma 3-bis, del Dlgs 127/2015). Anche perché in questo modo l’esterometro andrà a coincidere con la scadenza della presentazione della dichiarazione annuale Iva, e bisognerà arrivare preparati.
Pur presentando diverse similitudini con lo spesometro, l’esterometro ha comunque numerose peculiarità che ne rendono insidiosa la predisposizione.
Sotto questo profilo, il primo equivoco che è opportuno chiarire riguarda l’uso improprio del termine “transfrontaliero”, poiché l’esterometro riguarda tutte le operazioni in cui viene emessa una fattura cartacea e sono coinvolti soggetti non residenti. Si pensi, solo per fare un esempio, all’ipotesi in cui un’impresa di ristrutturazione sia chiamata da un privato inglese per recuperare il proprio casale acquistato in Toscana.
Premesso ciò, per quel che attiene la delimitazione del perimetro soggettivo, ci si chiede se debbano comunque compilare l’esterometro i cosiddetti soggetti passivi “minori” o che operano in franchigia – minimi e forfettari su tutti – e non sono tenuti a emettere fattura elettronica. Anche se il dato letterale potrebbe far sorgere qualche dubbio, si può ritenere che la risposta sia negativa. Altrimenti, avremmo il paradosso di soggetti esclusi dalla fatturazione elettronica, ma obbligati all’esterometro.
Al di là delle esclusioni di tipo soggettivo, poi, non dev’essere trasmesso l’esterometro per tutte quelle operazioni, realizzate tra soggetti passivi stabiliti e soggetti passivi non stabiliti o privati non residenti, nel caso in cui sia stata emessa fattura elettronica oppure bolletta doganale di esportazione o di importazione.
Un altro argomento meritevole di un chiarimento è quello legato alle fatturazioni per operazioni fuori campo Iva per carenza del presupposto territoriale. L’articolo 21, comma 6-bis, lettere a) e b), del Dpr 633/72 richiede l’emissione della fattura per tutte le operazioni fuori campo Iva, con esclusione di quelle finanziarie e assicurative che intervengono tra soggetti passivi stabiliti nella Ue. Ne dovrebbe conseguire che quelle escluse non hanno l’obbligo di essere indicate nell’esterometro.
Si consideri, ad esempio, il pagamento di interessi in favore di un soggetto passivo stabilito in Italia da parte di un operatore tedesco o di un operatore svizzero. Nel primo caso non dev’essere emessa fattura nei confronti dell’operatore tedesco, per esplicita previsione della lettera a) del citato comma 6-bis; mentre, al contrario, va emessa fattura all’operatore svizzero, in base alla successiva lettera b). Ne consegue che solo questa seconda operazione dev’essere indicata nell’esterometro.
È ammessa, comunque, l’emissione di una fattura elettronica nei confronti di soggetti non stabiliti, indicando nel codice destinatario sette «X» o sette «0», a seconda che l’intestatario della fattura elettronica sia, rispettivamente, il rappresentante fiscale o – tramite identificazione diretta – il soggetto non stabilito. Emettendo la fattura elettronica, non è più obbligatorio compilare l’esterometro.
Un ulteriore elemento degno di nota riguarda l’individuazione delle operazioni da rilevare in ogni singolo mese, che si basa sulla data del documento emesso o su quella di ricezione del documento comprovante l’operazione. Per data di ricezione deve intendersi la data di registrazione dell’operazione ai fini della liquidazione Iva.
Pertanto, nei rapporti con soggetti non residenti, l’assolvimento dell’imposta richiede spesso da parte del cessionario/committente stabilito in Italia il meccanismo dell’inversione contabile, anche con la predisposizione di un’autofattura; e dunque, il termine di riferimento per la compilazione dell’esterometro non può che essere il termine ultimo per la predisposizione di tale documento.
Diversamente, negli acquisti effettuati presso un operatore comunitario, la data di riferimento è la data di ricezione della fattura da cui derivano tutti gli adempimenti Iva per assolvere l’imposta.

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Il reato prescritto obbliga a revocare il sequestro di beni

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 19 FEBBRAIO 2019 di Laura Ambrosi

Corte di Cassazione

Il provvedimento deve essere contestuale alla pronuncia del giudice

Se il reato tributario è prescritto, il giudice che rileva l’estinzione del delitto deve revocare anche il sequestro o la confisca per equivalente disposta sui beni riconducibili all’imprenditore.
A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 7260 depositata ieri.
Alcuni imprenditori ritenuti amministratori di fatto e di diritto di una società venivano condannati in primo grado per dichiarazione infedele dei redditi e occultamento di scritture contabili. Conseguentemente era disposta la confisca per equivalente dei beni precedentemente sequestrati.
La corte di appello, adita dagli imputati, riformava la pronuncia in quanto rilevava l’intervenuta prescrizione del reato di dichiarazione infedele e quindi diminuiva la pena precedentemente irrogata, ma confermava la confisca disposta sui beni in sequestro appartenenti a uno dei due imprenditori.
Era così proposto ricorso per cassazione lamentando tra l’altro che stante la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, essa non poteva essere confermata, come aveva erroneamente affermato la corte territoriale, una volta esclusa la rilevanza penale del fatto per intervenuta prescrizione.
I giudici di legittimità hanno accolto questo motivo di impugnazione: dichiarando il proscioglimento dell’imputato per il reato di dichiarazione infedele stante l’intervenuta estinzione per prescrizione del delitto, la corte di Appello oltre a rideterminare la pena da irrogare doveva anche revocare l’avvenuta confisca dei beni sequestrati
In altre parole il giudice nel momento in cui rileva l’intervenuta prescrizione non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che hanno costituito il prezzo o il profitto del reato.
Di conseguenza se dichiara l’estinzione del reato per prescrizione deve contestualmente revocare la confisca per equivalente, essendo venuto meno il sequestro cautelare per effetto della decisione, e disporre la restituzione all’avente diritto dei beni erroneamente vincolati
La sentenza è interessante perché i procedimenti per reati tributari si caratterizzano di sovente sia per il sequestro per equivalente, nella fase delle indagini preliminari, nei confronti dell’imprenditore di un importo pari al profitto del reato, sia per la loro (non rara) estinzione per intervenuta prescrizione.
In queste ipotesi la Cassazione chiarisce in modo netto che la confisca, e quindi il precedente sequestro, diventa illegittima e deve essere disposta la restituzione dei beni.

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Licenziamento esteso ai fatti extra-lavoro

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 25 FEBBRAIO 2019 di Marcello Floris

CONTENZIOSO

Il comportamento estraneo alla prestazione può ledere la fiducia del datore

Contano anche le azioni commesse in passato o in altri periodi professionali

Le condotte estranee all’attività lavorativa che il lavoratore ha tenuto persino prima dell’assunzione possono essere tali da giustificare il licenziamento per giusta causa. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 428 del 10 gennaio 2019. Nel caso specifico, un dipendente, già licenziato in seguito a un procedimento penale, era stato riassunto dopo un accordo conciliativo, ma poi era stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti differenti, sempre commessi prima del nuovo rapporto. Il lavoratore è stato dunque licenziato di nuovo e il suo ricorso è stato infine respinto dalla Corte.
Analogamente, con la sentenza 4804 del 19 febbraio 2019, la Corte ha ritenuto che una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile possa costituire giusta causa di licenziamento, anche se il riflesso sul rapporto di lavoro è solo potenziale.
La lesione del vincolo fiduciario
Da sempre la giusta causa di licenziamento si verifica quando è irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro. La fiducia è quindi condizione per la permanenza del rapporto e può essere compromessa non solo da specifici inadempimenti contrattuali, ma anche da condotte extralavorative che, non riguardanti direttamente l’esecuzione della prestazione, possano comunque ledere il vincolo fiduciario, qualora abbiano un riflesso sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.
I comportamenti passati
Sulla base di questo ragionamento – secondo la Corte – a maggior ragione ha rilevanza la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione. In questo caso, può essere riconosciuta una giusta causa di licenziamento, poiché essa non si riferisce solo alla condotta disciplinare, ma anche a quella che, estranea al rapporto lavorativo, si riveli incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario sul quale lo stesso si fonda.
Le condotte extralavorative che possono essere rilevanti ai fini dell’integrazione della giusta causa di licenziamento riguardano tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all’instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate.
Il rilievo disciplinare
Con la sentenza 21958 del 10 settembre 2018, la Cassazione aveva ritenuto che anche una condotta illecita extralavorativa del prestatore potesse avere rilievo disciplinare, e pertanto anche dar luogo alla più grave delle sanzioni, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a evitare, fuori dell’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario. Tuttavia, in quel caso, la Corte ha ritenuto che tali principi non fossero applicabili nel caso di maltrattamenti nei confronti di familiari da parte del dipendente, anche se accertate con sentenze penali di condanna, poiché costui non aveva mai tenuto comportamenti aggressivi o violenti in ambito lavorativo.
Con la sentenza 30328 del 18 dicembre 2017, invece, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore, condannato penalmente per avere indotto alla prostituzione una sua collega di lavoro in condizioni di minorazione psichica. I principi applicati sono simili a quelli già illustrati.
La condotta illecita extralavorativa può avere rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non mettere in atto, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso. Nel caso specifico, la condotta complessiva del lavoratore era stata ritenuta di gravità tale da rescindere con effetto immediato il vincolo fiduciario.
Come si vede da questo rapido excursus la giurisprudenza ha applicato con costanza, sostanzialmente, gli stessi parametri interpretativi.
Gli esiti però sono variati in modo significativo, in seguito alla differente valutazione che i giudici hanno dato della condotta di ciascun lavoratore e dell’impatto che la stessa ha avuto sul vincolo fiduciario e, conseguentemente, sul rapporto di lavoro.

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Raddoppio dei termini black list senza retroattività

13 Febbraio 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore – 31 01 2019 di Laura Ambrosi

Investimenti e attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate si presumono redditi sottratti a tassazione solo dal 2009 in quanto la norma non può considerarsi retroattiva. A confermare questo principio è la Cassazione con la sentenza 2562/2019 depositata ieri (clicca qui per consultarla ).

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato dall’agenzia delle Entrate con il quale venivano contestati maggiori redditi per il 2005 derivanti da alcune disponibilità finanziarie detenute in un paese a fiscalità privilegiata.

La pretesa era fondata sulla presunzione introdotta dall’articolo 12 del Dl 78/2009 secondo il quale gli investimenti e le attività finanziarie detenute all’estero in paesi black list e non dichiarate nel quadro RW, si presumono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia. Peraltro, tale norma, ha previsto che per l’accertamento di tali redditi l’ordinario termine di decadenza sia raddoppiato.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario, eccependo tra i diversi motivi, l’inapplicabilità della norma per il periodo di imposta 2005.
Si trattava, infatti, di una applicazione retroattiva della disposizione introdotta solo nel 2009.

Entrambi i collegi di merito rigettavano le doglianze del contribuente, il quale ricorreva così in Cassazione. La Suprema corte, confermando l’orientamento già espresso, ha ribadito che tale norma in vigore dal 1° luglio 2009 non ha efficacia retroattiva in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, poiché ha introdotto delle nuove presunzioni.
Una diversa interpretazione, infatti, pregiudicherebbe il diritto di difesa rispetto alla scelta del contribuente di conservare un certo tipo di documentazione probatoriamente rilevante.
In tale contesto, va segnalato che con la sentenza nr. 33223/2018 dello scorso dicembre i giudici di legittimità avevano altresì chiarito che si tratta di una norma che pone in favore del fisco una presunzione legale relativa con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

L’interessato, quindi, per evitare l’imposizione è tenuto a fornire documentazione che potrebbe non aver conservato, attesa l’inesistenza di una norma simile prima della sua introduzione. Per tale ragione, la disposizione ha carattere sostanziale e come tale non può essere applicata retroattivamente.

La decisione è particolarmente importante perché, nonostante qualche precedente in tal senso, l’agenzia delle Entrate è ferma nel ritenere la retroattività della presunzione in argomento.

 

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Esterovestizione, rilievi più difficili

13 Febbraio 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 14 GENNAIO 2019 di Andrea Alcara e Raul-Angelo Papotti

ULTIMO COMMA

A seguito della recente pronuncia della Corte di cassazione sul caso D&G (Cassazione 33234 del 21 dicembre 2018, si veda Il Sole 24 Ore del 22 dicembre) e di svariate recenti verifiche dell’agenzia delle Entrate e della Guardia di finanza, le contestazioni in fatto di esterovestizione sono ritornate sotto i riflettori degli operatori.
Con riferimento al contenzioso che ha interessato i noti stilisti, i giudici di legittimità hanno confermato i principi già tracciati dalla Suprema Corte in sede penale (Cassazione 43809 del 30 ottobre 2015) negando nella fattispecie in esame la sussistenza dell’esterovestizione con il rigetto delle motivazioni addotte dalla commissione tributaria regionale, la quale aveva concordato con la tesi avanzata dall’ufficio circa l’ubicazione della sede amministrativa (rectius: sede effettiva) della società lussemburghese – proprietaria dei marchi – presso gli uffici della controllante italiana.
Sulla base dei principi dettati in ambito comunitario (ex multis C-196/04 e C-73/06), gli ermellini hanno sancito che non è sufficiente riscontrare che la sede effettiva della società estera sia in realtà localizzata in Italia essendo lo Stato dal quale si originano e sono profusi gli impulsi gestionali e le direttive amministrative. Invero, è necessario che la società estera sia una costruzione di puro artificio che non svolga una effettiva attività economica. Pertanto, ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del Tuir, i verificatori hanno l’onere di provare congiuntamente che:
la sede effettiva sia situata in Italia;
e vi sia l’impiego di una struttura meramente artificiosa ove la forma giuridica non è rappresentativa della realtà economica.
Inoltre, in applicazione del principio cardine di libertà di stabilimento, la Corte ha evidenziato che, qualora una società sia stata creata in uno Stato membro Ue per fruire di una legislazione più vantaggiosa, detta circostanza non costituisce per se un abuso di tale libertà dimodoché sia comunque necessario provare l’artificiosità della struttura estera, a prescindere dalla sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle di natura tributaria.
In merito alla localizzazione della sede effettiva, la giurisprudenza comunitaria e domestica individuano la sede nel luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente (ad esempio il luogo in cui partono gli “impulsi volitivi”) e, nello specifico, ove si svolgono le assemblee, le riunioni degli amministratori e quello in cui si adottano le politiche generali della società. In tale esercizio, bisogna tenere conto anche di altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento delle attività finanziarie e bancarie (sul punto, si veda la circolare 1/2018, volume III della Guardia di finanza, capitolo 11). Ciò posto, nella prassi amministrativa, si presume talvolta l’ubicazione della sede amministrativa sic et simpliciter nel luogo ove originano e si definiscono gli indirizzi strategici senza valutare adeguatamente l’eventuale struttura operativa impiegata nell’implementazione di detti indirizzi e posta a presidio dell’attività ordinaria. Su tale aspetto, la risposta del 12 aprile 2010, protocollo 3-3873, fornita dall’agenzia delle Entrate nell’ambito del progetto pilota sulla corretta attuazione del diritto comunitario (caso 777/10/Taxu), chiarisce opportunamente che l’attività di coordinamento e indirizzo della controllante deve essere distinta dagli atti di concreta amministrazione afferenti l’ambito della gestione operativa svolta in loco dalla società estera, rilevando a tal proposito l’effettivo grado di autonomia funzionale di quest’ultima. In conseguenza, ove dimostrata che la gestione operativa sia svolta all’estero, la circostanza che gli indirizzi strategici siano emanati dall’Italia non dovrebbe assumere particolare valenza in ottica accertativa della potenziale esterovestizione della consociata estera.
Alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali di legittimità, sarebbe auspicabile l’adeguamento della prassi accertativa ai principi di matrice comunitaria tracciati dalla Corte di cassazione, i quali richiedono notevole cautela da parte dei verificatori in sede di contestazioni di esterovestizione di società non residenti ove stabilite all’interno dell’Unione europea.

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Due miliardi di patrimoni esteri non dichiarati nel quadro RW

13 Febbraio 2019

Il Sole 24 Ore 12 GENNAIO 2019 di Marco Mobili e
Giovanni Parente

ACCERTAMENTO

Dai controlli delle Entrate su 160 soggetti un maggior imponibile di 520 milioni

Attività investigative grazie anche ai dati delle voluntary e ottenuti da altri Stati

roma
Non sono bastate due voluntary disclosure a far emergere del tutto i patrimoni detenuti illegalmente all’estero. Le indagini condotte dall’agenzia delle Entrate, in sinergia costante con la Guardia di Finanza, hanno fatto emergere nell’anno appena concluso, nei confronti di 160 soggetti, una maggiore base imponibile Irpef di 520 milioni circa . Ma soprattutto, gli uffici del Fisco hanno accertato omesse indicazioni di attività finanziarie ai fini del monitoraggio fiscale per oltre 1,85 miliardi di euro. In sostanza quasi due miliardi di patrimoni celati ancora all’amministrazione finanziaria e tenuti nascosti oltre confine.
Le attività investigative e di analisi, con particolare attenzione a quelle di contrasto a modalità di evasione ed elusione messi in atto da soggetti particolarmente a rischio, sono state orientate soprattutto verso fenomeni di residenza estera fittizia e di trasferimento o detenzione di attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, che si concretizzano con la compilazione del quadro RW del modello Redditi. I principali strumenti utilizzati per nascondere i patrimoni all’estero sono ancora trust e società di comodo.
A indirizzare i controlli e le analisi di rischio su cui concentrare i recuperi di gettito sono state soprattutto le informazioni raccolte con le due operazioni di rientro dei capitali. Con le direttive impartite già nel 2016, infatti, l’Agenzia aveva disposto l’utilizzo delle dichiarazioni di emersione della voluntary per procedere con successive attività di analisi e rilevazione statistica delle condotte evasive più diffuse (soprattutto quelle che prevedono lo spostamento all’estero di risorse e investimenti) e di profilazione di fenomeni ad alta pericolosità fiscale.
Mentre un’altra fonte d’innesco è rappresentata dallo scambio dati , anche grazie all’area sempre più estesa del common reporting standard (Crs) ossia il meccanismo di il sistema di condivisione automatica dei dati a carattere finanziario dei contribuenti.
Rimanendo sempre sul fronte della fiscalità internazionale hanno giocato un ruolo importante gli accordi sui prezzi di trasferimento, i cosiddetti «Apa» (Advanced pricing agreement, unilaterali o bilaterali) e le procedure amichevoli per l’eliminazione della doppia imposizione (Mutual agreement procedure o Map). Le istanze sugli Apa presentate nel 2015 sono state 109 e gli accordi conclusi 23, mentre nel 2018 l’Agenzia ha ricevuto 156 istanze e ha concluso 45 accordi.
Per le Map, le Entrate hanno ereditato dal dipartimento delle Finanze il compito di sottoscrivere gli accordi con le amministrazioni estere contro le doppie imposizioni. Nel 2016 l’Agenzia ha discusso 22 casi e sottoscritto 14 accordi. Lo scorso anno sono state presentate direttamente 189 istanze di Map e sono stati discussi 153 casi con 85 accordi accordi.

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Srl, nulle le delibere senza una convocazione

13 Febbraio 2019

Il Sole 24 Ore 11 GENNAIO 2019 di Antonino Porracciolo

TRIBUNALE DI ROMA

Anche se il socio ha avuto lo stesso la notizia della data e dei temi dell’assemblea

Sono nulle le delibere delle Srl votate in mancanza di informazione, cioè senza la preventiva convocazione del socio. Si tratta di nullità assoluta, che va dunque affermata anche nell’ipotesi in cui il socio, pur non convocato, abbia comunque avuto notizia della data e degli argomenti dell’assemblea. Sono queste le conclusioni a cui è giunto il Tribunale di Roma nella sentenza 14653 dello scorso 2 luglio.
La causa è stata promossa dal sindaco di una Srl per ottenere la pronuncia di nullità di una delibera dell’assemblea, a cui risultavano presenti, in base a un verbale datato 22 dicembre 2015, lui stesso nonché l’unico socio. A sostegno della domanda, l’attore ha esposto di non aver partecipato all’assemblea e di non aver ricevuto alcuna convocazione. Dal canto suo, il socio, intervenuto in giudizio volontariamente (articolo 105 del Codice di procedura civile), ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione presentata dal sindaco. Nel decidere la lite, il tribunale ricorda che, in base al terzo comma dell’articolo 2479-ter del Codice civile, possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse le decisioni «prese in assenza assoluta di informazione». Si tratta di un’ipotesi che ricorre quando i soci non siano stati destinatari di alcuna notizia sul luogo e sulla data dell’assemblea (nel caso di delibere assembleari) o sulle modalità della consultazione scritta e della raccolta per iscritto del consenso (in caso di decisioni extra assembleari delle Srl). In particolare, la prima ipotesi si ha «nel caso in cui l’assemblea si sia tenuta senza la previa (tempestiva) convocazione del socio, che lamenti appunto la mancanza assoluta di informazione». Né, in questi casi, vale a escludere il vizio della convocazione (e, quindi, la nullità della delibera) il fatto che il socio, «pur non convocato da alcun organo sociale, sia comunque venuto a conoscenza della data e degli argomenti dell’assemblea». Il tribunale osserva quindi che, in base all’ultimo comma dell’articolo 2479-bis del Codice civile, la deliberazione è comunque validamente «adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento». In questo caso, non è dunque richiesta – si legge nella sentenza – «una vera e propria convocazione degli amministratori e dei sindaci, essendo sufficiente il “fatto” informativo, comunque avvenuto, e non il procedimento formale» con cui gli stessi vengono a conoscenza della riunione.
Tuttavia, nel caso in esame l’assemblea della Srl non era stata totalitaria, giacché l’unico socio aveva negato di avervi partecipato. E peraltro, proprio la sua dichiarazione vale a superare il contenuto del verbale del 22 dicembre 2015, che, non essendo stato redatto da un notaio, offriva solo una prova presuntiva dei fatti. Inoltre, anche il sindaco aveva affermato di non aver partecipato alla riunione

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