Categoria: Dall’Italia
Il fisco punta sulle banche dati Stretta su e-commerce e cripto
16 Gennaio 2025
Il Sole 24 Ore 27 Dicembre 2024 di Marco Mobili Giovanni Parente
Lotta all’evasione. Nell’atto di indirizzo per le priorità politiche 2025 del ministro Giorgetti l’obiettivo è l’uso sempre più efficace delle informazioni. Fattura elettronica autorizzata fino al 2027
Linea dura sul contrasto alle frodi puntando sempre più su interoperabilità delle banche dati e scambi di informazioni, comprese quelle sul denaro contante e le criptovalute. Gioco d’anticipo sull’evasione potenziando gli strumenti di adempimento collaborativo con i contribuenti. Una giustizia tributaria più efficiente grazie anche agli strumenti della digitalizzazione. Nell’atto di indirizzo per la definizione delle priorità politiche per l’anno 2025 il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti fissa le direttrici lungo cui tutte le componenti dell’amministrazione si dovranno muovere, anche per completare il percorso avviato nell’ambito degli obiettivi predefiniti per il Pnrr e con l’attuazione della delega fiscale.
Il motore ruota tutto intorno alla valorizzazione e all’ottimizzazione delle informazioni disponibili e di quelle in arrivo. La dorsale informatica gestita da Sogei può contare su 199 banche dati e in cui continueranno ad affluire anche per i prossimi tre anni le fatture elettroniche tra operatori privati, dopo l’autorizzazione concessa dall’Unione europea fino al 31 dicembre 2027 (come reso noto dallo stesso ministero dell’Economia alla vigilia di Natale).
Dati che, già a consuntivo per l’anno in corso, si annunciano in aumento rispetto agli 2,4 miliardi di fatture elettroniche emesse lo scorso anno, considerando che dal 1° gennaio scorso sono obbligate anche tutte le partite Iva in flat tax senza più le deroghe concesse in passato. A migliorare e affinare questo archivio di informazioni darà una mano anche la misura inserita in manovra, ma destinata a entrare a pieno regime nel 2026, che punta a rendere obbligatorio il collegamento tra i Pos, e più in generale i terminali per i pagamenti elettronici, e i registratori di cassa, in modo da evitare il disallineamento e a ridurre forme di sottodichiarazione dei ricavi delle attività che emettono scontrini elettronici.
Non a caso tra le attività strategiche indicate nell’atto firmato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti c’è il «contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale, puntando sull’interoperabilità delle banche dati, sull’analisi del rischio e, in generale, sull’efficacia dei controlli per migliorare il recupero di gettito versato spontaneamente dai contribuenti a seguito delle azioni di prevenzione e controllo anche tramite nuove misure volte a migliorare la compliance nelle transazioni che coinvolgono il consumatore finale». Pezzi di un puzzle che si tengono insieme e destinati a essere ulteriormente implementati. Perché oltre all’evasione e all’elusione le priorità indicano la prevenzione e la repressione delle frodi come un passaggio ineludibile che tutte le componenti dell’amministrazione finanziaria devono perseguire.
Se la strada è segnata, la rotta è sempre più quella di una cooperazione tra le forze in campo a livello interno e in ambito internazionale. In quest’ottica va letto il «potenziamento, sul piano europeo e internazionale, della cooperazione amministrativa e dello scambio di informazioni fiscali anche attraverso l’implementazione dello scambio di informazioni sulle transazioni in crypto asset tra giurisdizioni (in particolare, nell’ambito dell’implementazione del Crypto asset reporting framework, approvato a livello Ocse)». Insomma, al «follow the money» si aggiunge il «follow the crypto» per cercare di individuare e ricostruire i flussi con cui l’economia sommersa o peggio ancora quella criminale sfrutta le criptovalute per nascondere, occultare e poi riemergere in attività all’apparenza totalmente legali.
Il teatro delle frodi in particolar modo quelle Iva è sempre di più comunitario. Per questo tra gli indirizzi destinati alla Guardia di finanza c’è anche la partecipazione alla rete di cooperazione Eurofisc, facendo ricorso anche a strumenti per la collazione automatizzata dei dati e l’analisi del rischio, come i Transaction network analysis (Tna), ma anche a sistemi di data analysis come il Cesop (Central electronic system of payment information) per il settore dell’e-commerce. Anche in questo caso, quindi, diventa strategica la capacità di incrociare le informazioni tra transazioni effettuate e pagamenti digitali per ricostruire tutta la catena delle operazioni e scoprire in quali passaggi si annida l’evasione o peggio ancora le frodi Iva.
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Franchigia Iva per le attività dei piccoli in altri Paesi Ue
16 Gennaio 2025
Il Sole 24 Ore 4 Dicembre 2024 di Anna Abagnale Benedetto Santacroce
Dal 1° gennaio 2025 regime di franchigia Iva anche per le attività svolte in altri Stati Ue. Il Dlgs 180/2024, in recepimento della direttiva (UE) 2020/285 e pubblicato il 30 novembre sulla Gazzetta Ufficiale, estende l’esonero dall’Iva ai piccoli contribuenti che compiono cessioni di beni e/o prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in altri Stati Ue.
La novella normativa si compone sostanzialmente in due parti, tra loro speculari (anche se non del tutto): i) la disciplina del regime di franchigia applicato in Italia al «soggetto passivo persona fisica» stabilito in altro Stato Ue; ii) la disciplina del regime di franchigia applicato in altri Stati Ue al «soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato».
La peculiarità che salta subito all’occhio è che il nostro ordinamento consente il regime di esonero, e le connesse semplificazioni, ai contribuenti con fatturato annuo nazionale non superiore a 85mila euro, e non superiore a 100mila euro in tutti gli Stati membri, solo se persone fisiche. Mentre, la norma unionale fa riferimento alle piccole e medie imprese (Pmi) come qualsiasi persona considerata soggetto passivo ai fini Iva, indipendentemente dalla forma giuridica (lavoratore autonomo, libero professionista, start-up, società di capitali, persona fisica che svolge un’attività economica eccetera).
Al netto di tale osservazione, la nuova norma è particolarmente rilevante in termini di parità di trattamento, in quanto consente a un soggetto non stabilito di beneficiare del regime di franchigia in uno Stato Ue, che ha introdotto tale regime, alle medesime condizioni previste per i soggetti stabiliti nel medesimo Stato di esenzione.
Il regime speciale Pmi non vale, invece, per gli operatori extraUe, anche se operano attraverso una stabile organizzazione all’interno dell’Unione.
Un’altra limitazione nell’applicazione del regime riguarda il piano oggettivo: non si applica alle cessioni di mezzi di trasporto nuovi spediti/trasportati in altro Stato Ue e ad altre operazioni escluse dallo Stato membro di esenzione.
Dunque, rispettate le condizioni di accesso, una Pmi italiana per poter operare in regime di franchigia transfrontaliero, deve darne previa comunicazione all’agenzia delle Entrate , indicando, tra l’altro, il proprio numero di partita Iva con il suffisso EX, non essendo necessaria alcuna autorizzazione dello Stato membro Ue in cui l’impresa opera in esenzione. La Pmi, ammessa al regime, entro l’ultimo giorno del mese successivo a ogni trimestre, dovrà presentare una relazione trimestrale unica in cui comunica all’Agenzia: i) il valore totale delle operazioni effettuate nel corso del trimestre; ii) il valore totale delle operazioni effettuate nel trimestre in ciascuno altro Stato Ue, compresi gli Stati diversi da quelli di esenzione. La comunicazione va presentata anche in assenza di operazioni. Ogni ulteriore variazione – come il superamento delle soglie, la volontà di non avvalersi più del regime, etc. – va comunicata all’Agenzia.
Particolare attenzione va prestata in riferimento al calcolo del volume d’affari, al fine del monitoraggio delle soglie.
Il criterio di calcolo della soglia del regime forfettario domestico (articolo 1, commi 54 e seguenti, della legge 190/2014) non coincide, infatti, con quello previsto per il regime di franchigia Iva transfrontaliero sotto un profilo oggettivo e temporale. Sicché, i forfettari italiani continuano a determinare la soglia secondo le regole interne (criterio per cassa ed inclusione nel volume d’affari delle operazioni esenti e non rilevanti); mentre, per determinare la soglia d’accesso al regime di franchigia Iva in altro Stato Ue, occorrerà far riferimento al criterio di calcolo del volume d’affari previsto dalla direttiva (effettuazione dell’operazione ed esclusione dalle cessioni di beni d’investimento e delle operazioni esenti).
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Sulla residenza la linea sottile di direzione e gestione
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore – Nt Plus- 7 Novembre 2024 di Eugenio Della Valle
Reddito d’impresa
Ci sono almeno un paio di spunti sul tema della residenza fiscale delle società che possono essere rinvenuti nelle istruzioni operative contenute nella circolare 20/E/2024.
Il decreto delegato
Con il Dlgs 209/2023 (attuativo della delega fiscale) sia per le società di persone che per quelle di capitali, accanto al criterio formale della sede legale, onde stabilire se hanno o meno la residenza fiscale italiana, sono stati introdotti i criteri sostanziali della sede di direzione effettiva e della gestione ordinaria in via principale; il primo definito come il luogo della «continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso», e il secondo quello del «continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso» (articoli 5 e 73 del Tuir). Ciò, secondo quanto prevede la delega, per rendere coerente la disciplina domestica in punto di residenza fiscale degli enti con la migliore prassi internazionale e con i trattati contro le doppie imposizioni, coordinando la disciplina medesima con quella della stabile organizzazione.
Orbene, in disparte la valutazione circa l’effettiva realizzazione dell’obiettivo di cui alla delega – vi è in effetti chi rileva come, nonostante la modifica, il quadro sul piano interpretativo concernente la residenza fiscale delle società permanga comunque confuso in ragione della disorganicità del contesto internazionale – una prospettiva interessante per testare i nuovi criteri, senza considerare qui i profili convenzionali, è quella che coinvolge il ruolo dell’attività di direzione e coordinamento e in generale i gruppi.
Direzione e coordinamento
Quanto all’attività di direzione e coordinamento, si tratta dell’attività, svolta dalla capogruppo o da altra società a ciò deputata, che inerisce all’organizzazione ed al funzionamento delle attività del gruppo; implica la sottoposizione dei diversi partecipanti al gruppo ad una unità di indirizzo, la cui vincolatività è affidata a relazioni di natura funzionale, che si sviluppa in termini di accentramento e/o coordinamento di uno o più settori di attività e/o funzioni aziendali.
Il nostro ordinamento, che a determinati fini definisce anche giuridicamente il gruppo, ne recepisce in linea di principio la fenomenologia economica, determinando le conseguenze della attività di direzione e coordinamento svolta da una società o ente nei confronti di un’altra società: in particolare, riconduce all’esercizio di attività di direzione e coordinamento taluni effetti, quali, ad esempio, la pubblicità nei confronti dei terzi e (soprattutto) la responsabilità nel caso di esercizio abusivo (articoli 2497 e successivi del Codice civile).
Proprio la regolamentazione circa l’esercizio abusivo dell’attività di direzione e coordinamento evidenzia come il condizionamento, da parte della capogruppo, delle scelte delle consociate sia un fenomeno affatto lecito.
Le subsidiary
Il tema è allora quello dei relativi confini rispetto all’«alta gestione», solo quest’ultima integrante gli estremi della sede di direzione effettiva, appunto uno dei due criteri sostanziali di nuovo conio cui è affidata la residenza fiscale italiana.
Sul punto la circolare, sulla scia della relazione illustrativa che accompagna il Dlgs 209/2023, secondo cui «ai fini della direzione effettiva, non rilevano le decisioni diverse da quelle aventi contenuto di gestione assunte dai soci né le attività di supervisione e l’eventuale attività di monitoraggio della gestione da parte degli stessi», si esprime chiaramente nel senso che «le decisioni assunte dai soci non rilevano per individuare la sede di direzione effettiva, fatta eccezione per quelle aventi contenuto gestorio»: insomma l’attività di direzione e coordinamento, almeno di regola, non dovrebbe rilevare onde attrarre la residenza fiscale delle subisdiary nella giurisdizione del socio di controllo.
Affermazione del tutto condivisibile benché la linea che separa le normali direttive e raccomandazioni del socio di controllo che non usurpano il ruolo dell’organo amministrativo e l’effettiva ingerenza gestoria del socio in questione è talvolta sottilissima e si fa via via evanescente al decrescere delle dimensioni organizzative dell’ente. Senza poi considerare che anche l’individuazione, all’interno dell’ente, di chi siano i soggetti cui è affidata l’alta gestione dipende dal modello di corporate governance in concreto volta a volta adottato (anche alla luce dell’atto costitutivo, dello statuto e di eventuali patti parasociali), tenendo conto delle singole deleghe nonché delle relative modalità di esercizio.
Ed ancora quanto alla possibile ingerenza gestoria del socio, la presenza di professionisti e trust companies ovviamente non la può escludere a priori, dovendosi valutare a tal fine la regolamentazione contrattuale del rapporto con il socio (incluse eventuali clausole di manleva) in una alla sua effettiva esecuzione.
La gestione ordinaria
Quanto al secondo criterio sostanziale cui si è fatto sopra riferimento ossia quello della gestione ordinaria in via principale ossia il luogo del «continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso», criterio che, a differenza di quello dianzi trattato, si evidenzia in dottrina, riguarda non già il momento volitivo dell’attività sociale, bensì quello meramente esecutivo del day to day management dell’ente, la circolare lo associa al «luogo in cui si esplicano il normale funzionamento della società e gli adempimenti che attengono all’ordinaria amministrazione della stessa»; e ciò prendendo atto che «i fattori di determinazione della gestione ordinaria variano a seconda della conformazione della struttura imprenditoriale, dell’attività caratteristica, nonché dell’organizzazione del complesso aziendale della società o dell’ente».
I servizi a basso valore aggiunto
In tale prospettiva un tema di grande attualità è quello della rilevanza, nei gruppi multinazionali, dei diversi servizi a basso valore aggiunto, si pensi all’assistenza legale, contabile e fiscale, ai servizi di tesoreria, di marketing, It, payroll, eccetera, spesso forniti alle diverse consociate vuoi dalla capogruppo, vuoi dalla consociata a ciò incaricata.
Il complesso di servizi di tal genere può evidentemente assorbire una gran parte del perimetro dell’attività gestoria che caratterizza il day to day management dell’ente, con il rischio che, sulla base di un esame caso per caso, la residenza fiscale del fruitore dei servizi in questione, seppur dotato di una sua “sostanza” organizzativa, possa essere attratta nello Stato del prestatore.
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Residenza persone fisiche: interessi familiari decisivi
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore 5 Novembre 2024 di Michela Folli e Marco Piazza
Le modifiche normative alla definizione di residenza fiscale perseguono l’obiettivo di garantire maggiore certezza giuridica e di ridurre i contenziosi. Così afferma la circolare 20/E del 2024 che illustra in modo approfondito le novità introdotte dal Dlgs 209/2023 sia per le persone fisiche (articolo 2 del Tuir) sia per le persone giuridiche (articolo 73, comma 3 del Tuir), per cui si rinvia alla pagina precedente.
Dal 1° gennaio 2024, per stabilire se la persona fisica abbia residenza fiscale in Italia si deve accertare se, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni o 184 negli anni bisestili), essa abbia avuto in Italia:
la residenza civilistica, ossia la dimora abituale, criterio invariato rispetto al passato;
o il domicilio, definito innovativamente come «il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari».
o la presenza fisica, tenuto conto anche delle frazioni di giorno;
o l’iscrizione anagrafica, che però diviene «presunzione semplice» anziché legale.
Il criterio della residenza in senso civilistico è rimasto invariato rispetto al passato. Rilevano sia il profilo oggettivo (permanenza apprezzabile in Italia), sia quello soggettivo (intenzione di abitarvi stabilmente).
Per valutare il nuovo concetto di «domicilio», contano le relazioni familiari, personali (ad esempio convivenza) e sociali (ad esempio iscrizione a circoli culturali o sportivi). In passato invece era necessario, secondo la giurisprudenza, una valutazione globale di tutti gli elementi di fatto rilevanti, sia personali che patrimoniali. Sono comunque lasciate aperte le valutazioni caso per caso in presenza di condotte che manifestino la volontà di mantenere un «legame effettivo» con il territorio italiano. Viene fatto l’esempio di chi, essendosi iscritto all’Aire e avendo cominciato a lavorare all’estero, mantenga a propria disposizione una casa in Italia, con le relative utenze, per trascorrervi i fine settimana o le vacanze. Questa a dire il vero è una casistica frequente, che dovrà essere gestita mediante applicazione delle tie break rules convenzionali.
Nei casi in cui l’individuazione dello Stato in cui si concentrano le relazioni personali e familiari non sia immediata e il contribuente non sia presente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, può essere utile, secondo l’Agenzia, accertare lo Stato in cui la persona permane prevalentemente.
Quanto al concetto di frazione di giorno per il computo della presenza fisica, è confermato che anche una sola ora passata nel territorio dello Stato equivale a giornata intera. La circolare lascia però un’apertura alla valutazione di particolari situazioni di presenza in Italia meramente temporanea, come può avvenire, ad esempio, in ipotesi di scalo aereo dovuto ad una coincidenza per recarsi in un Paese estero.
È confermato che in caso di smart working, il contribuente è residente nel luogo in cui si verificano i requisiti di residenza, domicilio e permanenza a prescindere dalla residenza del datore di lavoro o committente.
Poiché l’introduzione del concetto di frazione di giorno rischia di attrarre alla residenza italiana i frontalieri esteri che vengono a lavorare nel territorio dello Stato, la circolare mette in evidenza come il conseguente fenomeno di doppia residenza fiscale possa essere risolto attraverso le convenzioni contro le doppie imposizioni.
Viene ricordato che i trattati con Germania, Svizzera e Panama prevedono il frazionamento del periodo d’imposta in caso di trasferimento del domicilio in corso d’anno (cosiddetto «split year») ma solo quando emerga un conflitto di residenza.
Invariata la presunzione «relativa» di residenza in Italia per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferitisi in Stati black list.
Le nuove norme si applicano dal periodo d’imposta 2024 e non per i precedenti. Questa precisazione è molto importante per la verifica dei requisiti di spettanza dei regimi agevolati per i neoresidenti, i pensionati e i lavoratori impatriati che si siano trasferiti in Italia nel 2024, perché la mancata residenza fiscale nei periodi d’imposta precedenti deve essere verificata con le regole previgenti. Ciò significa che per i trasferimenti di residenza successivi al 2024 concorreranno i due criteri.
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Eredità internazionali, la residenza abituale detta tutte le regole
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore 4 Novembre 2024 – L’Esperto Risponde di Vincenzo Pappa Monteforte
SUCCESSIONI E DONAZIONI
Perimetro. La successione è disciplinata dalle norme civilistiche e fiscali del Paese dove il defunto ha vissuto. Si punta a evitare una doppia imposizione
Mio zio, cittadino italiano, celibe e senza figli, vive da diversi anni all’estero e non vuole rientrare in Italia. È proprietario di una serie di immobili, sia in Italia che all’estero. Come sarà regolata la sua successione? La legge italiana prevale?
Sempre più, in un mondo contrassegnato da elementi di internazionalità, è facile imbattersi in problematiche civilistico-fiscali di rilievo transnazionale. Ad esempio, in ambito successorio, quando il defunto, gli aventi causa o i beni presentano “connotazioni straniere”.
La disciplina civilistica
La regola generale per le successioni transfrontaliere è dettata dal Regolamento europeo 650/2012, in vigore dal 17 agosto 2015, che prevede quale principio cardine per individuare la legge applicabile alla successione, sotto il profilo civilistico, quello della “residenza abituale” del defunto al momento della morte (articolo 21).
Quindi, se il defunto aveva “residenza abituale” in Italia – indipendentemente dalla cittadinanza – con eredi e/o beni stranieri, si applicheranno le disposizioni del nostro Codice civile, che disciplineranno – tra l’altro – le modalità di redazione del testamento e la quota di successione necessaria in presenza di legittimari.
È da precisare che il testo di legge – applicabile anche agli Stati extra Ue, salvo eccezioni – non fornisce una definizione di “residenza abituale”, che potrebbe essere diversa da quella anagrafica. Non a caso – come ricorda, tra l’altro, il considerando numero 23 del Regolamento UE – essa impone «una valutazione globale delle circostanze della vita del defunto negli anni precedenti la morte e al momento della morte, che tenga conto di tutti gli elementi fattuali pertinenti, in particolare la durata e la regolarità del soggiorno del defunto nello Stato interessato, nonché le condizioni e le ragioni dello stesso». Particolare significato assume l’opzione di cui all’articolo 22 del citato Regolamento europeo 650/2012: il de cuius può, tramite una disposizione a causa di morte, scegliere la lex patriae, quale legge regolatrice della propria successione.
“Residenza abituale”
Il criterio della “residenza abituale” ha sostituito quello tradizionale della cittadinanza del defunto, fissato dall’articolo 46 della legge 218/1995 («la successione per causa di morte è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte»).
La disciplina tributaria
La regola base è contenuta nell’articolo 2, Dlgs 346/1990, che fissa i criteri di collegamento territoriale per l’imposta sulle successioni.
Come precisato al primo comma, nell’ipotesi di “residenza” in Italia del de cuius, l’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e i diritti trasferiti mortis causa, ovunque risultino situati (cosiddetto principio dell’imposizione globale).
Qualora, invece, il de cuius risieda all’estero al momento dell’apertura della successione, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti sul territorio italiano (cosiddetto principio della territorialità: articolo 2, comma 2).
Doppia imposizione?
Esistono, per le richiamate fattispecie tributarie, i meccanismi individuati dall’articolo 26, Dlgs 346/1990, volti ad eliminare la doppia imposizione in ambito successorio, grazie alla detrazione delle imposte pagate per la stessa successione ad uno Stato estero, relativamente ai beni ivi esistenti, sulla base di convenzioni internazionali, oppure – in assenza di queste ultime – del credito di imposta previsto dalla legge italiana (per il de cuius residente in Italia, titolare di beni situati all’estero, assoggettati ad imposizione nell’altro Stato).
Le convenzioni esistenti
L’Italia ha concluso solo sette trattati in materia di imposta di successione con Stati Uniti, Svezia, Grecia, Regno Unito, Danimarca, Israele e Francia (quest’ultima concernente anche l’imposta di donazione).
GLOSSARIO
- Residenza abituale
La “residenza abituale” non sempre coincide con quella anagrafica. Per determinarla, è necessaria una valutazione globale delle circostanze della vita del defunto negli anni precedenti la morte e al momento della morte, che tenga conto di tutti gli elementi fattuali pertinenti, in particolare la durata e la regolarità del soggiorno del defunto nello Stato interessato, nonché le condizioni e le ragioni dello stesso.
- Principio dell’«imposizione globale»
La regola si applica, sotto il profilo tributario, nell’ipotesi di “residenza” in Italia del de cuius: l’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e i diritti trasferiti mortis causa, ovunque risultino situati.
- Principio della «territorialità»
Trova attuazione quando il de cuius risiedeva all’estero al momento dell’apertura della successione. In questo caso, l’imposta di successione è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti sul territorio italiano.
- Dichiarazione di successione telematica
Dal 1° gennaio 2019 è obbligatorio l’utilizzo del nuovo modello di dichiarazione di successione on line, che deve essere, poi, inviato esclusivamente in via telematica.
Il modello della dichiarazione di successione telematica contiene una casella sul frontespizio, da barrare nelle ipotesi di vigenza per la successione di altra legge rilevante sotto l’aspetto civilistico.
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Accordo fiscale Italia-Cina sblocca il rimpatrio di utili e dividendi detassati
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore 8 Novembre 2024 di Lorenzo Riccardi
Il 5 novembre la Camera dei deputati ha approvato definitivamente la legge di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica popolare cinese per eliminare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni e le elusioni fiscali
Tra i principali obiettivi dell’accordo, siglato nel 2019 e approvato all’unanimità, vi sono la prevenzione dell’evasione e dell’elusione fiscale, la creazione di condizioni più favorevoli per le imprese italiane attive in Cina e un quadro normativo più stabile per gli investitori cinesi in Italia. L’intesa aggiorna la normativa bilaterale vigente sulla fiscalità diretta nelle relazioni tra i due Paesi.
L’approvazione dell’accordo fiscale ha avuto un iter di cinque anni, in cui sono variati quattro governi e due legislature e avviene appena prima della visita in Cina del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Marco Polo e dei 20 anni di partenariato strategico globale tra Italia e Cina.
L’11 settembre 2024, il Senato italiano aveva già approvato il disegno di legge per la ratifica del nuovo trattato fiscale con la Cina, trasmettendolo successivamente alla Camera dei deputati. Il nuovo accordo contro la doppia imposizione fiscale (Dta), firmato a Roma il 23 marzo 2019, sostituirà l’accordo precedente del 31 ottobre 1986 e integra le raccomandazioni dell’Ocse/G20 relative al progetto Beps, mirate alla prevenzione dell’evasione fiscale.
Secondo la procedura legislativa italiana, la ratifica di un accordo fiscale internazionale richiede l’iter ordinario e l’approvazione finale da parte del Presidente della Repubblica, dopo l’autorizzazione del Senato e della Camera dei deputati attraverso una specifica legge di ratifica.
Il processo di ratifica dell’accordo firmato nel 2019 ha richiesto una nuova approvazione a seguito del cambio di legislatura nell’ottobre 2022, avvenuta il 15 aprile 2024 da parte del Consiglio dei ministri. Il trattato potrà entrare in vigore dal 1° gennaio 2025, grazie al completamento della ratifica a novembre 2024.
Per quanto riguarda i dividendi, è stata introdotta una riduzione dell’aliquota di ritenuta alla fonte rispetto al Dta del 1986, che passa dal 10 al 5 per cento in caso di dividendi di investimenti con partecipazione di almeno il 25 per cento del capitale, quindi con una tassazione dimezzata sui dividendi distribuiti dopo l’entrata in vigore del nuovo accordo.
E’ prevista una riduzione all’8 per cento per gli interessi pagati agli istituti finanziari per prestiti di durata minima di tre anni finalizzati a progetti d’investimento, mentre gli interessi pagati o ricevuti da istituzioni pubbliche sono esenti da tassazione.
Relativamente alle royalties, il nuovo trattato fiscale mantiene un’aliquota standard del 10 per cento, con una riduzione al 5 per cento per le royalties su attrezzature industriali, commerciali o scientifiche. Si tratta di un risultato molto atteso dalle aziende italiane in Cina che potranno pianificare in modo diverso le politiche di reimpatrio degli utili, mentre più in generale l’entrata in vigore della nuova convenzione fiscale dal 2025 porterà a maggiori benefici per gli investimenti bilaterali Italia-Cina.
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No alla polizza straniera se si circola stabilmente in Italia con targa estera
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore 12 Novembre 2024 di Maurizio Hazan Pasquale Picone
Tra le deleghe per la riforma del Codice della strada contenute nell’articolo 35, comma 3 del Ddl che sta per diventare legge, una tocca il preoccupante fenomeno dei veicoli con targa estera circolanti abitualmente in Italia (regolarizzati iscrivendoli al registro Reve), eludendo i costi fiscali e assicurativi connessi alla targa italiana. La riprova è che il fenomeno è diffuso soprattutto nell’area di Napoli (oltre 35.000 iscrizioni al Reve, soprattutto con targa polacca), dove la Rc auto costa molto.
L’uso elusivo avviene perlopiù trasferendo la proprietà del mezzo da un italiano a società di noleggio estera, che li immatricola nel proprio Paese per poi locarlo al vecchio proprietario, che lo usa come prima, pagando un canone comprensivo di Rc auto stipulata a basso prezzo con un assicuratore locale.
L’immatricolazione all’estero, per l’articolo 13 della Direttiva Solvency II e l’articolo 1, comma 1, lettera fff) del Codice delle assicurazioni, identifica l’ubicazione del rischio nello Stato Ue di immatricolazione, rendendolo assicurabile solo da impresa ivi stabilita (od operante in regime di libera prestazione di servizio, Lps). E il Codice della strada (articolo 93-bis, comma 1), se il proprietario del veicolo prende la residenza in Italia, consente la permanenza con targa estera per tre mesi, dopi i quali deve reimmatricolarlo in Italia. A quel punto, per assicurarsi, non è possibile una copertura estera, se non con una compagnia in regime di stabilimento o di Lps.
Diverso è il caso di un veicolo di proprietà di un soggetto estero, condotto in Italia da un italiano in forza di un titolo (come noleggio e comodato): l’articolo 93-bis, comma 2 richiede solo l’iscrizione della targa estera al Reve, dopo 30 giorni anche non continuativi. Nulla dice sull’obbligo assicurativo, neppure legandosi all’articolo 125 del Codice delle assicurazioni, che consente sì di circolare in Italia con la carta verde, ma solo temporaneamente.
Se invece la circolazione è abituale in Italia, l’iscrizione al Reve non pare di per sé poter assolvere correttamente l’obbligo assicurativo tramite compagnie con sede nello Stato Ue di immatricolazione. A maggior ragione se il mezzo aveva targa italiana ed è noleggiato al precedente proprietario: parrebbe un negozio in frode alla legge, da ritenersi nullo (articolo 1344, Codice civile).
In ogni caso, c’è un vulnus al principio mutualistico e a regole e presidi (anche antifrode) della Rc auto. Con insidie per i danneggiati, obbligati a percorsi più tortuosi di quelli possibili con compagnie “italiane”. Quindi, ben venga il fatto che il Ddl di riforma preveda tempi massimi dopo cui il veicolo va immatricolato in Italia e dopo cui dovrà comunque essere coperto da una polizza conforme alle norme italiane.
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Contratto d’agenzia, spazio a modifiche unilaterali
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 18 Novembre 2024 di Attilio Pavone Matilde Battistella
Per le aziende che si avvalgono di agenti, variare periodicamente il contenuto economico del contratto di agenzia è tra le esigenze più comuni. Un esempio tipico è quello dell’agenzia in attività finanziaria: il 7 novembre la Federal Reserve ha annunciato un nuovo taglio dei tassi di interesse (dopo il primo avvenuto in settembre), allineandosi a una decisione simile presa dalla Bce a ottobre. Le fluttuazioni del costo del denaro sono una delle ragioni più comuni che determinano la necessità delle banche di apportare modifiche ai contratti con i loro agenti in attività finanziaria.
Questa necessità non riguarda solo gli istituti di credito (dove ci sono esigenze legate al mercato di riferimento), ma tutti i settori economici. È infatti naturale che, nel corso del rapporto di agenzia, sorga la necessità di apportare delle modifiche a zona, clienti, provvigioni e prodotti, per ragioni talvolta legate a scelte strategiche aziendali (si pensi ad esempio a una società che intende ridurre la zona di competenza di un agente, in favore di più agenti, in modo da consentire una più efficace gestione della clientela sul territorio).
Queste operazioni commerciali possono generare diverse criticità, mentre sono scarne le indicazioni fornite dalla giurisprudenza. È quindi necessaria una particolare cautela nell’attuare le variazioni al contratto d’agenzia.
In realtà, la possibilità, per una delle parti del contratto, di variarne unilateramente il contenuto si pone apparentemente in contrasto con un principio cardine del nostro ordinamento, stabilito dall’articolo 1372 del Codice civile, che richiede il consenso di entrambe le parti per apportare modifiche all’accordo concluso. Eppure, l’ammissibilità del cosiddetto ius variandi è contemplata dallo stesso Codice civile (come nel caso dell’articolo 1661, in materia di appalto, ovvero dell’articolo 2103 relativo al trasferimento del luogo di lavoro). Per il contratto di agenzia, tuttavia, non esistono norme ad hoc che contemplano lo ius variandi.
Sul fronte dell’elaborazione giurisprudenziale, alcune risalenti pronunce avevano dichiarato nulle, per indeterminatezza dell’oggetto, le clausole del contratto di agenzia che consentono al preponente di modificarne unilateralmente il contenuto (Cassazione, sentenza 11003/1997). In un altro caso, la nullità di tali clausole veniva dichiarata sul presupposto che esse costituissero una condizione meramente potestativa, vietata nel nostro ordinamento (Cassazione, sentenza 4504/1997).
La giurisprudenza più recente è concorde nel ritenere legittima l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole del contratto di agenzia. Ma perché tale facoltà non si traduca in un potere illimitato per il preponente, occorre che essa abbia dei limiti e sia esercitata con l’osservanza dei principi di correttezza e buona fede (da ultimo, Cassazione 9365/2023, che conferma Cassazione 29164/2021, 13580/2015 e 5467/2000).
Non è però immediatamente intuibile come riempire di significato la necessità di usare dei “limiti” e di realizzare la variazione secondo i principi sopra richiamati. I più noti accordi economici collettivi ne hanno dato una propria interpretazione, prevedendo un articolato apparato normativo che distingue le variazioni a seconda del loro impatto rispetto alle provvigioni percepite dall’agente nell’anno precedente la modifica.
Prendendo a esempio l’accordo economico del commercio, quest’ultimo distingue le variazioni di lieve, media e sensibile entità. Le prime riguardano modifiche comprese lo 0 e 5%, le seconde tra il 5 e il 20% e le ultime superiori al 20 per cento. Tutte queste variazioni possono essere realizzate dal preponente con il rispetto di un preavviso (diverso a seconda dell’entità della modifica e della tipologia di mandato), con la differenza, però, che al ricorrere delle modifiche di «sensibile entità», l’agente potrà manifestare l’intenzione di rifiutare la variazione, imputando la fine del recesso alla casa mandante, con importanti conseguenze in termini di diritto alle indennità di fine rapporto.
Nulla impedisce comunque alle parti di stabilire, di comune accordo, delle modifiche al contratto. In questo caso, il consenso prestato dall’agente sottrae l’operazione realizzata dalla disciplina delle variazioni unilaterali.
Il calcolo dell’impatto è basato sugli incassi dell’anno precedente
Nonostante il testo della disciplina collettiva sembri di facile applicazione, le modalità di calcolo dell’effettiva entità delle variazioni unilaterali nei contratti di agenzia generano nella prassi non pochi dubbi interpretativi, solo in minima parte risolti dalle scarse pronunce giurisprudenziali sul punto.
Una sentenza del Tribunale di Trento (la 16 del 30 gennaio 2024) fornisce tuttavia alcuni spunti. La decisione ricorda infatti come l’entità della modifica unilaterale vada determinata con riferimento all’anno civile (1° gennaio- 31 dicembre) precedente la variazione e, in particolare, applicando le nuove condizioni contrattuali ai risultati dell’anno passato.
Anche la Corte d’appello di Brescia (sentenza 324 del 12 gennaio 2024) ha avuto modo di precisare come la norma convenzionale metta in correlazione le variazioni del mandato con l’incidenza che la perdita di un determinato cliente o di una certa zona comporta sull’ammontare delle provvigioni maturate dall’agente nell’anno precedente la variazione.
Un’ulteriore pronuncia di merito del Tribunale di Vicenza (la 52 del 3 gennaio 2018) ha inoltre chiarito come per comprendere l’entità dell’incidenza delle variazioni unilaterali messe in atto dalla preponente, l’agente è chiamato ad adottare un criterio prognostico. Quest’ultimo dovrà infatti valutare i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalla modifica delle condizioni contrattuali ex ante, e cioè sulla base dei dati a sua disposizione nell’anno precedente.
In buona sostanza, l’agente dovrà prendere come riferimento le provvigioni complessivamente maturate nell’anno civile precedente e valutare come queste ultime si sarebbero modificate per effetto della variazione unilaterale del contenuto economico del rapporto di agenzia (in termini di prodotti, clienti, zona o misura delle provvigioni) realizzata dalla preponente. Solo allora si potrà verificare se la variazione è, in base alle regole degli accordi economici collettivi, tale da legittimare il recesso dell’agente.
Alla luce delle indicazioni degli accordi economici collettivi e della giurisprudenza, è possibile concludere che il calcolo dell’impatto delle variazioni si risolva in una proporzione, come si legge nell’esempio riportato nella scheda.
L’incidenza delle variazioni è quindi il risultato di un calcolo tecnico e frutto di una valutazione prognostica “postuma”, che prende come riferimento l’anno precedente alla modifica e vi applica fittiziamente la variazione, senza tenere conto dell’eventuale cattivo andamento dell’anno successivo, che potrebbe anche non dipendere dalla variazione (ma che in realtà è spesso il motivo per cui l’agente decide di lamentare la variazione eccessiva decidendo di recedere dal contratto per causa imputabile al preponente).
Giova infine ricordare che, per determinare la sussistenza di modifiche di «sensibile entità», la contrattazione collettiva richiede di effettuare la sommatoria delle variazioni di lieve e media entità in un certo lasso temporale (generalmente differenziato a seconda della tipologia di mandato agenziale).
Inoltre, sempre ai fini della sommatoria, il Tribunale di Napoli (sentenza 1335 del 28 febbraio 2023) ha chiarito come appaia equo considerare unitariamente non solo le determinazioni che incidono negativamente sulle provvigioni dell’agente ma anche quelle che hanno un impatto positivo, che potrebbero dunque controbilanciare le variazioni negative.
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Dazi, abuso del diritto con la delocalizzazione
12 Dicembre 2024
Il Sole 24 Ore 22 Novembre 2024 di Fabrizio Di Gianni Benedetto Santacroce
Per la prima volta la Corte di giustizia dell’Ue si è pronunciata in materia di abuso del diritto in ambito doganale. Con la causa C-297/23 P, infatti, ha fissato gli elementi interpretativi in base ai quali la norma antielusiva ex articolo 33 del regolamento delegato (Ue) 2015/2446, in materia di attribuzione dell’origine per le operazioni di trasformazione o lavorazione non economicamente giustificate, debba essere applicata.
La pronuncia in commento, che respinge definitivamente il ricorso proposto dalla società Harley-Davidson, segna un punto di svolta in chiave applicativa dell’articolo 33, in quanto l’esistenza di una pratica abusiva potrà essere rilevata se emerga da elementi oggettivi che lo scopo essenziale delle operazioni interessate sia quello di evitare l’applicazione di misure daziarie.
Il criterio decisivo è la finalità principale o dominante, sebbene non esclusiva, dell’operazione posta in essere. Infatti, la norma risulterebbe privata della sua efficacia ove fosse interpretata nel senso che non si applica per il solo motivo che una delocalizzazione delle operazioni, oltre alla finalità principale o dominante di eludere l’applicazione delle misure di politica commerciale dell’Ue, persegua anche altre finalità di ordine secondario.
Insomma, lo scopo essenziale delle operazioni, quale quello di ottenere un vantaggio daziario, deve risultare da un certo numero di elementi oggettivi ma, al tempo stesso, può non dirsi scopo esclusivo, purché dominante, e potrà essere affiancato da ulteriori scopi secondari, i quali non escluderanno l’applicazione dell’articolo 33.
La Corte interviene anche in tema di onere della prova. Dalla lettura dell’articolo 33, comma 1, è evidente come lo stesso risulti applicabile solo qualora gli elementi disponibili siano tali da dimostrare che lo scopo del comportamento dell’impresa sia quello di eludere l’applicazione della misura di politica commerciale. In questo caso, sarà sempre possibile per l’impresa dimostrare con ulteriori elementi di prova che lo scopo dell’operazione, nel momento in cui è intervenuta la decisione, non aveva come elemento principale il conseguimento di un vantaggio daziario.
In terzo luogo, la pronuncia trancia di netto qualsiasi collegamento interpretativo tra l’articolo 33 e con l’articolo 13 del regolamento Ue 2016/1036, in tema di elusione dei dazi antidumping: questa norma non è rilevante ai fini interpretativi dell’articolo 33, comma 1, poiché riguarda altra materia ed è redatta in termini profondamente diversi rispetto all’articolo 33, il quale non contiene né il termine «elusione» né la definizione dettagliata che l’articolo 13 fornisce di tale termine.
Occorre poi rilevare che la Corte ha ritenuto irrilevante il richiamo al concetto di «manipolazione», di fatto assente nel testo dell’articolo 33, riportato nel considerando 21 del regolamento delegato: quest’ultimo, ricomprende nel concetto di manipolazione un’ampia gamma di azioni volontarie che comportano un cambiamento di origine delle merci importate, tra le quali è necessario impedire solo quelle realizzate allo scopo di eludere l’applicazione di misure di politica commerciale.
In sintesi, il concetto di manipolazione non può in alcun caso consentire un’interpretazione dell’articolo 33 incompatibile con la sua formulazione e con il suo sistema.
Da ultimo, i giudici europei ritengono che la sussistenza di una «coincidenza temporale» tra la decisione compiuta dall’impresa, circa la delocalizzazione delle operazioni poste in essere, e l’intervenuto provvedimento sui dazi supplementari costituisca una presunzione secondo cui la delocalizzazione mira a evitare l’applicazione delle misure.
Appare chiaro che, laddove la decisione sia intervenuta temporalmente prima, sulla stessa non potrebbe aver inciso una procedura per l’applicazione di dazi supplementari non ancora avviata.
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Beni all’estero con più diritti reali: compilano RW tutti i contitolari
11 Novembre 2024
Il Sole 24 Ore 7 Ottobre 2024 di Stefano Vignoli
Spazio agli ultimi controlli sui modelli Redditi 2024 da inviare entro il 31 ottobre. Particolare attenzione, per chi ha asset all’estero, merita il quadro RW, talora fonte di difficoltà compilative anche per gli addetti ai lavori.
I soggetti coinvolti
L’obbligo di compilazione del quadro RW (W per chi presenta il 730) ricorre per persone fisiche (inclusi imprenditori individuali e lavoratori autonomi), enti non commerciali, società semplici ed equiparate (articolo 5, Tuir) residenti in Italia, per i beni detenuti all’estero a prescindere dagli importi e dai giorni di detenzione.
Sono esclusi dall’obbligo compilativo coloro che lavorano all’estero per lo Stato, o altri enti o organizzazioni internazionali cui aderisce il nostro Paese, con residenza determinata ex lege in Italia, e i frontalieri limitatamente agli asset detenuti nel Paese limitrofo, oltre a chi aderisce ai regimi dei pensionati (articolo 24-ter del Tuir) e dei neo-residenti (24-bis). Anche se, per questi ultimi, l’Agenzia ritiene necessario indicare le partecipazioni estere qualificate, in quanto potrebbero generare plusvalenze tassabili nei primi cinque periodi di imposta (circolare 17/E/2017, paragrafo 5.2).
I beni da dichiarare
Tra i beni all’estero che più frequentemente rientrano nell’obbligo dichiarativo vi sono opere d’arte, gioielli e metalli preziosi (anche se detenuti in cassette di sicurezza), gli immobili e i beni mobili suscettibili di essere iscritti nei pubblici registri in Italia: sono pertanto da dichiarare le imbarcazioni e le auto di lusso immatricolate all’estero (con il codice “16” quali beni mobili registrati).
Quando sul bene sussistono più diritti reali – caso frequente per quanto riguarda gli immobili con usufrutto e nuda proprietà – l’obbligo dichiarativo compete a entrambi i titolari: ma mentre il nudo proprietario compila il quadro RW solo ai fini del monitoraggio, avendo cura di barrare la casella 16, l’usufruttuario è tenuto al versamento dell’Ivie seppur limitatamente al valore dell’usufrutto.
Inoltre, l’indicazione in RW compete a tutti gli intestatari in caso di attività in comunione o cointestate, ma anche al soggetto che abbia “soltanto” delega di firma.
Per gli immobili all’estero, in assenza di variazioni, non sarebbe richiesta l’indicazione (articolo 4, comma 3, Dl 167/1990): possibilità raramente colta dai contribuenti considerato che il quadro RW serve anche ai fini della liquidazione dell’Ivie, comunque dovuta.
Infatti, la compilazione del quadro è necessaria anche per determinare l’Ivie, l’Ivafe, e dal 2023 l’imposta (con aliquota dello 0,2%) sul valore delle cripto-attività detenute attraverso portafogli, conti digitali o altri sistemi di archiviazione o conservazione.
Insieme alle cripto-valute sono numerose le attività finanziarie da dichiarare, tra cui conti correnti e depositi esteri, valute, obbligazioni e partecipazioni comprese le stock option salvo il caso in cui non siano cedibili e non sia spirato il “vesting period” (risoluzione 73/E/2014).
I conti correnti sono oggetto di monitoraggio se superano, anche in un solo giorno, i 15mila euro; ma, anche sotto questa soglia, richiedono la compilazione del quadro RW ai fini Ivafe se la giacenza media supera i 5mila euro.
Sono inoltre oggetto di compilazione del quadro RW le forme di previdenza complementare organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero, salvo le somme versate per obbligo di legge come nel caso del “secondo pilastro svizzero” (circolare 38/E/2013, paragrafo 3).
Per gli investimenti all’estero rientranti in un unico rapporto finanziario è inoltre possibile dichiarare il valore iniziale e finale di detenzione della relazione finanziaria unitaria, non rilevando le variazioni nella composizione (circolare 12/E/2016, risposta 14.1). A tal fine, a partire da Redditi 2017 è stato istituito il codice attività 20 (“Conto deposito titoli all’estero”).
Finanziamenti e quote soci
Nel quadro RW occorre indicare anche i finanziamenti soci seppur non soggetti a Ivafe, come le valute estere, i metalli preziosi e le partecipazioni non rappresentate da titoli. Malgrado il dettato normativo, non dovrebbero essere soggette a Ivafe neanche le azioni (titoli) di società estere non quotate, coerentemente a quanto avviene con l’imposta di bollo per le azioni italiane.
Il socio di società di capitali italiana con partecipata all’estero non è tenuto a dichiarare la partecipazione se è il titolare effettivo (circolare 38/E/2013, esempio 3): ma su questo punto le istruzioni al modello dichiarativo lasciano qualche perplessità. Quando invece il socio detiene una partecipazione diretta nella società estera che, sommata a quella indiretta, gli permette di essere titolare effettivo, occorre dichiarare la somma dei due valori tenuto conto dell’effetto demoltiplicativo.