Categoria: Dall’Italia
Vendite in nero, non va tralasciato il test sulle giacenze
7 Settembre 2020
Il Sole 24 Ore 24 agosto 2020 di Stefano Mazzocchi
CONTROLLI
Il giudice ha valorizzato anche il parere di una società di revisione
Qualora ritenga che siano state poste in essere vendite “in nero”, l’ufficio dovrebbe preoccuparsi anche di svolgere una verifica sulle movimentazioni fisiche intervenute sulle merci in giacenza: lo ha sottolineato la Ctr Lombardia con la sentenza 1222/6/2020, depositata il 24 giugno scorso (presidente Catania, relatore Chiametti).
Al riguardo occorre rimarcare la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «la presunzione di cessione imponibile deve ritenersi operante non soltanto quando non sia rinvenuto il bene ma altresì nell’ipotesi di divergenza fra la consistenza riscontrata e quella dichiarata laddove anche, secondo l’id quod plerumque accidit, è ragionevole ritenere avvenuta la monetizzazione degli elementi patrimoniali non ulteriormente rientranti nella disponibilità del soggetto verificato» (sentenza 8852/2008).
L’assunto che precede appare confermato dalla quinta sezione tributaria della Suprema corte con la sentenza 22563/2012, secondo cui «il riscontro di differenze di magazzino, in sede di verifica, è idoneo a far presumere l’esistenza di ricavi corrispondenti alle merci non giacenti, indipendentemente dalla modestia o meno della differenza, in mancanza di normativa che preveda una soglia minima per l’esercizio del potere dell’ufficio di accertare una pretesa fiscale maggiore di quella dichiarata». Di tenore analogo anche la Cassazione 5869/2013, che ha confermato il principio secondo cui «le eventuali differenze quantitative, derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino (Dpr 600 del 1973, articolo 14, comma 1, lettera d)) o da altra documentazione obbligatoria e le consistenze delle rimanenze registrate, costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo (Cassazione 9628/2012)».
Sull’argomento giova ripercorrere altresì un passaggio della circolare 31/E/2006, laddove l’agenzia delle Entrate chiarì che, in presenza di differenze inventariali, «il verificatore è sempre chiamato a un’analisi complessiva della posizione economica, patrimoniale e gestionale dell’azienda controllata. Conseguentemente, se nel corso del controllo dovessero riscontrarsi le rettifiche contabili sopra descritte, sarà cura del verificatore non limitarsi alla ripresa a tassazione sic et simpliciter degli importi corrispondenti al valore delle predette differenze, ma esaminare il processo di formazione delle stesse e la loro natura fisiologica o patologica in relazione all’attività in concreto svolta dall’impresa e in relazione agli elementi e alle informazioni eventualmente forniti dal contribuente».
In altre parole: se è vero che le differenze in questione possono essere rilevate dal Fisco sulla base di un semplice controllo cartolare, è indubbio che non di rado la giurisprudenza di legittimità sembra essere andata oltre il dettato normativo, prescrivendo di fatto la necessità di una verifica “fisica” dei beni costituenti le rimanenze.
La pronuncia della Ctr in commento appare importante anche perché nell’occasione i giudici lombardi hanno respinto l’appello formulato dall’ufficio anche sulla base di un parere predisposto da una società di revisione: si tratta di un documento che – spiega la Ctr – anche se «può essere considerato di parte», «risulta essere completo ed esaustivo in quanto ha verificato parte della contabilità che andava ad interessare l’annualità (…)». Di conseguenza, «il contenuto contabile di tale elaborato peritale va a confermare le operazioni poste in essere dalla società stessa».
La pronuncia, quindi, rafforza quell’orientamento secondo cui il giudice tributario è tenuto a valorizzare anche le perizie tecniche di parte (Cassazione 11632/2017). Al riguardo si rammenta anche la Cassazione 31274/2018, secondo cui «la perizia di parte (tanto più nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche), può (…) costituire fonte di convincimento del giudice, il quale può porla a fondamento della decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente».
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Cinque lezioni da memorizzare per il futuro
7 Settembre 2020
Il Sole 24 Ore 26 agosto 2020 di Mariano Corso (Responsabile Scientifico Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano)
L’emergenza Covid-19 ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare. Milioni di lavoratori hanno sperimentato un diverso modo di lavorare, un’esperienza che è destinata a lasciare una traccia indelebile, perché ha abbattuto pregiudizi e cambiato attitudini e aspettative di imprese e persone verso l’organizzazione del lavoro. Per preservare la salute e al tempo stesso garantire continuità dei servizi, imprese e Pubbliche Amministrazioni hanno dovuto superare schemi e routine e far lavorare le loro persone da remoto.
Le organizzazioni che avevano già introdotto modelli di smart working si sono trovate indubbiamente avvantaggiate, le altre hanno dovuto improvvisare. Nessuno però era davvero preparato a una discontinuità che è stata radicale per tutti: prima del Coronavirus, infatti, lo smart working riguardava una percentuale molto contenuta dei lavoratori, appena 600.000 sui 18 milioni di dipendenti in Italia, e prevedeva un ricorso al lavoro a distanza in media di un solo giorno alla settimana che veniva prevalentemente riservato ad attività di concentrazione o lavoro individuale.
Con la pandemia tutto è cambiato: tra lockdown e successiva ripartenza oltre 6 milioni di lavoratori hanno sperimentato un lavoro da remoto a tempo pieno, trovandosi improvvisamente a dover svolgere a distanza ogni attività, comprese quelle di collaborazione e relazione interpersonale che in precedenza avevano sempre assunto richiedessero una copresenza fisica in ufficio.
Si è trattato di un gigantesco test organizzativo i cui esiti sono stati per certi versi sorprendenti: non solo il 68% di lavoratori ha dichiarato di essere riuscito a portare avanti tutte le attività, ma i livelli di efficacia, nonostante l’improvvisazione, sono stati valutati da manager e lavoratori come molto positivi, spesso superiori a quelli precedenti. Attratte dai benefici in termini di produttività e costi sperimentati, moltissime imprese e PA stanno ripensando i propri modelli organizzativi, inserendo in modo strutturale la possibilità di lavorare da remoto. Certamente non sono mancate le criticità, in gran parte attribuibili alla impreparazione e alla necessità di accompagnare e rendere più bilanciato e sostenibile il cambiamento.
Quello che in molti si sono trovati a sperimentare, spesso in maniera improvvisata, non è infatti il “vero” smart working, ma una forma di lavoro da remoto estremo e vincolato, nella quale sono venuti a mancare quei presupposti di volontarietà e flessibilità che sono alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di smart working.
Oggi a qualche mese dall’inizio della pandemia è possibile e opportuno fare un primo bilancio dell’applicazione dello smart working durante l’emergenza per trarne alcune lezioni da applicare nei prossimi mesi e nel futuro. Cinque sembrano le principali lesson learned che meritano attenzione:
1.La capacità di lavorare a distanza utilizzando strumenti e canali digitali è una condizione essenziale di resilienza per organizzazioni, le persone e il Paese nel suo insieme. L’applicazione dello smart working, seppure improvvisata, ha salvato una parte importante dell’economia del Paese. I danni avrebbero potuto essere molto più contenuti se si fosse arrivati all’emergenza maggiormente preparati dal punto di vista culturale, tecnologico e manageriale, tutte condizioni che oggi, a valle di questa esperienza, sarebbe irresponsabile non costruire.
2.L’adozione forzata dello smart working durante la pandemia ha dimostrato che un diverso modo di lavorare è possibile. Milioni di lavoratori hanno imparato quanto possa essere non solo possibile, ma anche efficace lavorare da remoto. Oggi si può e si deve fare tesoro di questa esperienza per disegnare nuovi modi di lavorare, più efficaci, resilienti e sostenibile.
- L’emergenza ha permesso di fare in pochi mesi un percorso accelerato di sviluppo di competenze digitali che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato a utilizzare strumenti di collaborazione avanzati, a fruire di servizi digitali, a comunicare, formarsi e relazionarsi efficacemente attraverso canali digitali. Non si deve tornare indietro, ma cogliere questa disponibilità per diffondere maggiormente quelle competenze e attitudini digitali la cui carenza è riconosciuta come uno dei principali ostacoli alla modernizzazione del Paese.
- Molti lavoratori e manager hanno compreso l’importanza di una maggiore autonomia e responsabilizzazione sugli obiettivi. L’aspetto più apprezzato dai lavoratori è stata proprio la possibilità di organizzarsi in autonomia e misurarsi sui risultati piuttosto che su orari e adempimenti. Sulla base di questa esperienza si devono oggi ripensare i contratti di lavoro, fermi a logiche novecentesche di cui sempre più lavoratori e imprese non riconoscono il senso.
- Lo smart working rende possibili nuovi e più sostenibili modelli di vita ed urbanizzazione, apre nuove possibilità ad aree del nostro Paese fino ad oggi escluse dai principali circuiti economici nazionali e internazionali. Anche a livello locale diventa possibile riscoprire periferie, piccoli centri e territori extra urbani, con benefici potenzialmente enormi in termini sociali e ambientali. Attuare questo potenziale richiede però di colmare quei gap di infrastrutture di connettività che, se non rimossi, rischiano nel futuro di pesare ancora di più sulla possibilità di sviluppo.
Forti di queste lezioni è ora di passare al “vero” Smart Working, un modello capace di bilanciare lavoro in presenza e a distanza e di rendere le nostre organizzazioni più competitive e il nostro Paese più moderno, inclusivo e resiliente.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Privacy, bocciato l’accordo Ue-Usa sui dati
7 Agosto 2020
Il Sole 24 Ore 17 luglio 2020 di Beda Romano
LA SENTENZA
La Corte europea: non dà garanzie sufficienti ai cittadini dell’Unione
La decisione complicherà ulteriormente le relazioni transatlantiche
Privacy e internet. I social media sono tra gli spazi dove si avverte maggiormente l’esigenza di proteggere i dati delle personeREUTERS
Bruxelles
Si complica ulteriormente il già difficile rapporto tra Stati Uniti e Unione europea. Ieri la magistratura comunitaria ha ritenuto invalido un accordo internazionale tra Washington e Bruxelles dedicato alla trasmissione di dati personali sui due lati dell’Atlantico. La Corte europea di Giustizia teme che l’intesa, nota con l’espressione inglese Privacy Shield e firmata nel 2016, possa mettere a repentaglio la privacy dei cittadini europei.
Secondo la Corte, l’accordo rende «possibili ingerenze nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono trasferiti» verso gli Stati Uniti. La magistratura comunitaria teme l’intrusione dei servizi di sorveglianza americana nelle banche dati situate in America. La decisione giudiziaria, che non può essere oggetto di appello, crea un vuoto giuridico in un ambito delicatissimo. Oltre 5.000 imprese – il 70% piccole e medie aziende – hanno sottoscritto nel tempo l’intesa Privacy Shield.
La sentenza giunge dopo un ricorso presentato da un giurista austriaco preoccupato in particolare dai dati personali degli europei raccolti da Facebook e custoditi negli Stati Uniti. «Mi sembra che la Corte abbia fatto propri tutti i miei rilievi», ha detto Max Schrems, lo stesso che era riuscito a ottenere nel 2015 l’annullamento di un precedente accordo tra gli Stati Uniti e l’Unione europea (il Safe Harbour), sempre per paure sul fronte della privacy.
«Gli Stati Uniti – ha aggiunto il giurista austriaco – dovranno modificare seriamente le loro leggi sulla sorveglianza se le imprese americane vorranno continuare ad avere un ruolo importante sul mercato europeo». Mentre molte associazioni di protezione dei consumatori hanno salutato la sentenza con soddisfazione («una vittoria per la vita privata», ha affermato Access Now), il segretario al Commercio Wilbur Ross ha detto «di sperare di limitare l’impatto economico sulle relazioni transatlantiche”.
Lo sguardo corre alle cosiddette clausole contrattuali standard. Si tratta di un modello di contratto ideato da Bruxelles e che può essere usato da qualsiasi impresa per esportare i propri dati verso una filiale, una casa madre o anche imprese terze. La Corte ieri ha considerato queste clausole accettabili purché le autorità nazionali incaricate della protezione dei dati diano il loro benestare e che le leggi del paese destinatario siano sufficientemente protettive della privacy.
Per l’esecutivo comunitario, la decisione giudiziaria è una nuova battuta d’arresto. Per fortuna le clausole contrattuali standard sono state salvaguardate dalla Corte e possono essere una soluzione alternativa, pur temporanea. Ha commentato il commissario alla Giustizia Didier Reynders: «Prenderò contatto con la mia controparte negli Stati Uniti per lavorare in modo costruttivo in vista di un meccanismo di trasferimento dei dati che sia solido e durevole».
La sentenza riguarda molte imprese multinazionali, a iniziare da Facebook. «Faremo in modo che i nostri inserzionisti, clienti e partner possano continuare a usufruire dei servizi di Facebook mantenendo i loro dati sicuri e protetti», ha dichiarato Eva Nagle, dirigente della società. «Le clausole sono utilizzate da migliaia di aziende in Europa, forniscono importanti garanzie per proteggere i dati dei cittadini dell’Unione».
La decisione giudiziaria giunge in un momento delicato nelle relazioni euro-americane. Negli anni, le tensioni si sono moltiplicate sul fronte commerciale, fiscale e anche militare (con la scelta di Washington di ridurre la presenza di truppe americane in Germania).
Non è un caso che l’associazione imprenditoriale Business Europe abbia ieri esortato le parti «a mettere a punto una strategia positiva».
L’Antitrust Ue ha inoltre avviato un’indagine nell’ambito di”Internet delle cose” su prodotti e servizi come Alexa o Siri, connessi alla rete e che possono essere controllati a distanza.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Tassazione, Bruxelles prepara la fine dei regimi privilegiati
7 Agosto 2020
Il Sole 24 Ore 15 luglio 2020 di Beda Romano
FISCALITÀ
Verso il voto a maggioranza qualificata per porre fine agli squilibri nell’Unione
Oggi la sentenza della Corte europea sui 13 miliardi di Apple all’Irlanda
Vantaggi fiscali. Il logo di Apple con lo sfondo della bandiera irlandese: oggi la sentenza della Corte Ue
Bruxelles
Salvaguardare il mercato unico e la parità di condizioni d’accesso è diventato un aspetto cruciale della risposta comunitaria allo shock economico provocato dall’epidemia influenzale. Ciò è vero nel delicatissimo campo degli aiuti di Stato, ma anche in quello altrettanto delicato della fiscalità. In questo caso, il tema assume una dimensione particolare mentre i paesi membri sono alla ricerca di nuovo gettito fiscale per ridurre l’indebitamento.
La Corte europea di Giustizia dovrebbe pubblicare oggi una attesa sentenza dedicata al caso Apple. Nel 2016, la Commissione europea chiese alla società americana di rimborsare al governo irlandese un totale di 13 miliardi di euro. Bruxelles rimproverò a Dublino di avere fatto beneficiare Apple di aliquote fiscali bassissime, tali essere equiparate ad aiuti di Stato illegittimi. Il ricorso è stato presentato sia dalla società che dal governo.
Il caso è emblematico per via dell’ammontare in ballo. La Commissione vede nella vicenda un esempio di distorsione del mercato unico attraverso politiche fiscali eccessivamente generose. L’esecutivo comunitario ha imposto rimborsi anche ad altre aziende beneficiarie di aiuti di stato simili provenienti dall’Olanda o dal Lussemburgo. Lo shock economico provocato dall’epidemia influenzale ha reso la questione ancor più controversa, in un contesto peraltro di forte aumento dei debiti pubblici.
Si calcola che i più grandi paesi europei perdono miliardi di euro in gettito fiscale tutte le volte in cui loro aziende trasferiscono la sede in Stati membri nei quali il sistema fiscale è particolarmente generoso (si stima che l’Italia abbia perso fino a 21 miliardi nel 2019). Da anni, nelle sue raccomandazioni-paese, Bruxelles punta il dito contro l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, l’Irlanda, Malta, Cipro e l’Ungheria, chiedendo una riforma dei loro regimi fiscali perché favorirebbero abusi da parte delle singole imprese e provocherebbero distorsioni alla libera concorrenza.
Secondo il Financial Times, la Commissione europea sta riflettendo sull’ipotesi di usare l’articolo 116 dei Trattati che dà modo all’esecutivo comunitario di correggere distorsioni alla libera concorrenza nel mercato unico provocate dalle legislazioni nazionali attraverso l’adozione di direttive, la cui violazione verrebbe eventualmente sanzionata a livello europeo. Mentre le questioni fiscali richiedono tradizionalmente l’unanimità, in questo caso Bruxelles potrebbe adottare misure attraverso il voto alla maggioranza qualificata.
Interpellato ieri il portavoce della Commissione europea Dan Ferrie ha commentato: dall’inizio del suo mandato, la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen «ha chiarito che esplorerà modi per sfruttare appieno le disposizioni dei trattati che consentono l’adozione delle proposte fiscali a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. La Commissione sta ora esaminando varie opzioni per mantenere questo impegno politico».
Intanto, sempre oggi, Bruxelles dovrebbe presentare una raccomandazione che permetterà ai paesi membri nel caso di non versare aiuti di Stato a imprese nazionali con una sede in un paradiso fiscale (extra-Unione europea). Si tratta in buona sostanza di una eccezione al principio di non discriminazione. Nello stesso modo, pur di garantire equa concorrenza nel mercato unico, la Commissione nei giorni scorsi ha ricordato che non è possibile condizionare l’aiuto di Stato a particolari decisioni d’investimento.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Tassata la guida dell’auto con targa extra Ue
7 Agosto 2020
Il Sole 24 Ore lunedì 6 luglio 2020 di Giorgio Emanuele Degani
DOGANE
Scattano dazi, Iva e confisca per l’utilizzo in Italia da parte di un residente
Integra la fattispecie di contrabbando l’utilizzo in Italia, da parte di un soggetto residente, di un autoveicolo a uso privato immatricolato in Svizzera (quindi con targa stranera) e di proprietà di una persona fisica straniera residente in un Paese extra Ue. Pertanto, la richiesta di pagamento dei dazi, dell’Iva e la confisca del veicolo sono legittime. A dirlo è la Ctp Brescia 221/3/2020 (presidente Maddalo, relatore Repossi).
Il reato di contrabbando nell’importazione di autoveicoli è stato depenalizzato dall’articolo 1, comma 1, Dlgs 8/2016. Con specifico riferimento agli autoveicoli ad uso privato, destinati ad usi non commerciali, gli articoli 232 e 233 delle disposizioni di applicazione del Codice doganale comunitario (regolamento Ce 2454/93) prevedono che, laddove i mezzi siano immatricolati al di fuori del territorio eurounionale, è prevista l’esenzione dal pagamento dei diritti di confine al ricorrere di due condizioni: che il veicolo sia immatricolato al di fuori del territorio doganale unionale, a nome di una persona stabilita non in uno Stato membro; che il mezzo sia utilizzato dall’intestatario (o da un congiunto entro il terzo grado di parentela parimenti stabilito al di fuori del territorio doganale unionale; o da un’altra persona anch’essa residente extra Ue purché debitamente autorizzata dal titolare; o, da ultimo, da una persona stabilita nel territorio unionale, a condizione che il titolare si trovi a bordo del veicolo).
Sussistendo ambedue le condizioni, il veicolo, varcando la frontiera del territorio doganale unionale, si considera ammesso temporaneamente per un massimo di sei mesi, anche non consecutivi, a decorrere dal primo ingresso: ciò comporta l’applicazione del regime di temporanea importazione, senza dover assolvere i dazi e l’Iva.
Il decreto Sicurezza 2018 (Dl 113/2018 convertito in legge 132/2018) ha modificato l’articolo 93 del Codice della strada, secondo cui è vietato a chi ha stabilito la residenza da oltre sessanta giorni in Italia condurre un veicolo con targa straniera.
Nel caso in esame la contestazione sollevata dalle Dogane trova il proprio fondamento in un verbale redatto dalla polizia locale, nella quale il conducente del veicolo, residente in Italia, ne dichiarava l’uso occasionale, senza però che il titolare si trovasse a bordo.
Senza aver fornito la prova di aver assolto i diritti di confine, il conducente assumeva che l’uso era avvenuto per ragioni di emergenza, ossia per il ricovero d’urgenza del figlio minore presso l’ospedale di un’altra città, ma nessuna documentazione veniva versata in atti. Al contrario, l’ufficio dimostrava che il conducente aveva un collegamento stabile con lo Stato italiano.
I giudici hanno rilevato quindi la legittimità della ripresa erariale, ritenendo prevalente la disciplina doganale sul Codice della strada.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Srl, nulle le scelte «rilevanti» dell’amministratore non approvate dai soci
7 Agosto 2020
Il Sole 24 Ore 10 Giugno 2020 di Angelo Busani
È nullo il contratto stipulato dall’amministratore di una Srl quando si tratta di un atto che comporta una «sostanziale modificazione dello statuto sociale» e che non ha ottenuto il previo placet dei soci. Lo decide il Tribunale di Roma con la sentenza n. 1722 del 27 gennaio 2020, diffusa solo di recente, reiterando identiche decisioni che il Tribunale medesimo aveva adottato il 28 aprile 2011 e il 3 agosto 2018 (non consta invece, sul punto, altra giurisprudenza, tranne una sentenza del Tribunale di Piacenza del 14 marzo 2016 che ha deciso per l’annullabilità e non per la nullità).
I poteri limitati dell’amministratore
La decisione (che concerne un contratto con il quale una società veniva privata dell’intero suo patrimonio) trova argomento nella considerazione che l’articolo 2479, comma 2, n. 5), del Codice civile, attribuisce inderogabilmente ai soci l’assunzione della «decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale» o «una rilevante modificazione dei diritti dei soci»: ne consegue che l’amministratore violerebbe una norma imperativa se stipulasse il contratto non sottoposto a una preventiva favorevole decisione dei soci, con la conseguente nullità di questo contratto (ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile).
Né potrebbe opporsi, secondo il Tribunale, che, ai sensi dell’articolo 2475-bis del Codice civile, gli amministratori «hanno la rappresentanza generale della società» e che «le limitazioni ai poteri degli amministratori» «anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società», in quanto la riserva di competenza dei soci su queste decisioni risulta direttamente dalla legge e, trattandosi appunto di una limitazione legale, non si presta a trovare regolamentazione nell’articolo 2475-bis del codice civile, dal quale invece pacificamente si desume che non sono tacciabili di invalidità:
- l’atto episodicamente compiuto dall’amministrazione al di fuori del perimetro dell’oggetto sociale (nel caso in esame si ha invece una modifica permanente dell’oggetto sociale);
- l’atto compiuto dall’amministratore in eccesso rispetto ai suoi poteri;
a meno che non si dimostri (ma è notoriamente una probatio diabolica) l’intenzionale agire del terzo ai danni della società.
Gli effetti (negativi) verso i terzi
La decisione del Tribunale di Roma suscita perplessità in quanto rende rilevanti, all’esterno della società, questioni che la Riforma del 2003 ha chiaramente inteso confinare, in quanto ai loro effetti, all’interno della compagine sociale, proprio perché le patologie interne non si riverberino all’esterno, minando la serenità delle contrattazioni: in modo, cioè, che l’operato dell’amministratore, in dispregio alle limitazioni che il suo operato deve avere, non ridondi sui contratti che il medesimo stipula (e, quindi, coinvolgendo terzi estranei alla compagine sociale) ma abbia conseguenze solo a livello di responsabilità dell’amministratore verso la società amministrata (nonché i suoi soci e i suoi creditori) e a livello di giusta causa di revoca dell’amministratore dal suo incarico.
Anche perché non è facile, per i terzi estranei alla società, giudicare se il contratto stipulato dall’amministratore per conto della società che egli rappresenta comporti «una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale» «o una rilevante modificazione dei diritti dei soci»: ad esempio, nel caso esaminato dalla sentenza 1722/2020, si trattava di un’alienazione immobiliare concernente l’intero patrimonio della società e, dando credito alla sentenza, vorrebbe dire che il terzo contraente dovrebbe farsi carico di svolgere indagini sulla consistenza patrimoniale della società con la quale contrae, il che appare un onere francamente eccessivo.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Antiriciclaggio, la Ue richiama l’Italia
7 Agosto 2020
Il Sole 24 Ore 3 luglio 2020 di Alessandro Galimberti
LOTTA AL DENARO SPORCO
La Commissione europea “stringe” sulle politiche antiriciclaggio, richiamando una serie di Paesi alla piena attuazione delle norme e avviando anche un pacchetto di procedure di infrazione.
Tra i destinatari delle comunicazioni c’è anche l’Italia, che ieri ha ricevuto un “parere motivato” – una sorta di avviso informale – per dare piena attuazione alla IV direttiva antiriciclaggio (anche se nel frattempo Roma ha già dato esecuzione pure alla V direttiva).
Insieme all’Italia, che ora avrà tre mesi per adeguarsi ai rilievi della Commissione ed evitare la messa in mora e poi l’eventuale procedura – ci sono anche Repubblica Ceca e Danimarca.
Lettere di costituzione in mora sono state invece recapitate al Lussemburgo, alla Slovacchia e alla Slovenia sempre per mancato o incompleto adeguamento alla IV direttiva antiriciclaggio, paesi che si avvicinano quindi al deferimento. Deferimento che invece da ieri è efficace per Austria, Belgio e Paesi Bassi, chiamati avanti la Corte di giustizia dell’Unione europea, con richiesta di sanzioni pecuniarie, per attuazione incompleta nel diritto nazionale sempre della 4ª direttiva antiriciclaggio.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Fattura da Londra anziché dalla Cina: il costo resta deducibile (se inerente)
13 Luglio 2020
Il Sole 24 Ore lunedì 8 Giugno 2020 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza
ACCERTAMENTO
L’inesistenza soggettiva, se le operazioni sono reali, non pregiudica lo sgravio
Servono prove concrete di acquisto, consegna e pertinenza con il business
Per la Ctr Puglia 464/1/2020, depositata il 21 febbraio scorso (presidente Ancona, relatore Stragapede) il coinvolgimento, anche consapevole, del cessionario in operazioni soggettivamente inesistenti – in cui cioè le fatture sono emesse da un soggetto diverso dall’effettivo cedente – non esclude la deducibilità dei costi relativi a queste operazioni ai fini delle imposte sui redditi.
Con tale pronuncia, i giudici di appello hanno confermato la sentenza di primo grado, che ha annullato l’avviso di accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate nei confronti di un contribuente e con il quale l’ufficio ha contestato maggiori imponibili in capo allo stesso per via della presunta falsità soggettiva delle fatture emesse da società clienti.
Fatture da Hong Kong e Cina
A seguito delle risultanze di una verifica fiscale, l’amministrazione finanziaria ha notificato un avviso di accertamento al contribuente con cui è stata contestata la falsità soggettiva di talune fatture emesse da cessionari stranieri nei suoi confronti.
In particolare, secondo l’ufficio, le fatture emesse da due società, una con sede a Hong Kong e l’altra in Gran Bretagna, sarebbero state riferibili ad altro soggetto con sede in Cina; ciò in quanto è stata riscontrata una sostanziale identità dei costi delle transazioni poste in essere. Dal che sarebbe conseguita l’interposizione fittizia di tali società tra il contribuente e il cedente cinese.
Secondo i giudici tributari, tanto di primo quanto di secondo grado, il contribuente non ha svolto alcuna attività illecita in quanto è stato provato in concreto che le operazioni commerciali contestate sono state effettive e reali.
Pertanto, mediante la produzione di copiosa documentazione (bollette doganali di importazione, distinte di pagamento, ordini, bolle di consegna merci, e così via), il contribuente ha dimostrato che i componenti negativi sottesi alle operazioni contestate sono stati regolarmente dedotti in quanto inerenti.
I requisiti della Cassazione
La pronuncia della Ctr Puglia appare coerente con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità prevalente. In verità, nell’ipotesi in cui l’operazione si riferisca a soggetti diversi da quelli effettivi, la Corte di cassazione ritiene che:
- da un lato, va escluso il carattere fittizio degli elementi passivi laddove il destinatario della fattura abbia adempiuto al pagamento della prestazione, in quanto sussiste un effettivo esborso da parte del soggetto (tra le tante, si vedano le sentenze di Cassazione 27566/2018, 25249/2016 e 24426/2013);
- dall’altro, restano valide le regole generali in tema di deduzione dei componenti negativi del reddito, secondo cui la concreta deducibilità del costo è subordinata alla verifica dei requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi (da ultimo, le sentenze 10916/2020 e 32587/2019).
Ebbene, applicando questi principi, emerge come la difformità soggettiva della fattura non determina di per sé il venire meno dell’inerenza all’attività d’impresa dei costi, effettivamente sostenuti e documentati, sottesi all’operazione soggettivamente inesistente.
L’indeducibilità, dunque, può essere contestata solo alla luce delle regole generali individuate dalla normativa sui componenti negativi del reddito previste dal Testo unico per le imposte sui redditi, per come interpretate dalla giurisprudenza.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
Scambio di partecipazioni con la holding: non c’è abuso
13 Luglio 2020
Il Sole 24 Ore 9 Giugno 2020 di Francesco Paolo Fabbri
Non è abusiva l’operazione di scambio di partecipazioni tramite la quale la maggioranza assoluta del capitale di una Spa viene conferita in una holding di nuova costituzione. È quanto emerge dalla risposta all’interpello 170 del 9 giugno 2020. Nel caso esaminato dall’agenzia delle Entrate, alcuni soci di una Spa partecipata da una pluralità di persone fisiche, legate da vincoli di parentela di vario grado, decidono di conferire il 57,277% delle azioni della medesima società in una holding di famiglia appositamente costituita. A seguito di tale trasferimento delle azioni la holding deterrà quindi la stessa percentuale del capitale (57,277%), integrando il presupposto per l’applicazione del regime di “realizzo controllato” di cui all’articolo 177, comma 2, del Tuir. L’Agenzia conferma che l’operazione illustrata non dà luogo a un disegno abusivo ex articolo10-bis dello Statuto del contribuente, non realizzandosi alcun vantaggio fiscale indebito. Ciò in quanto sussistono tutti i presupposti normativi affinché le partecipazioni ricevute dai conferenti le azioni della Spa siano valutate (ai fini della determinazione del reddito dei medesimi conferenti) in base alla corrispondente quota delle voci di patrimonio netto formata dalla holding conferitaria per effetto del conferimento. Applicando tale criterio risulta del tutto legittimo che possa non emergere alcuna plusvalenza, in particolare qualora il valore di iscrizione delle partecipazioni conferite, al pari dell’incremento di patrimonio netto effettuato dalla società conferitaria, risulti pari all’ultimo valore fiscale – presso i soci conferenti – delle partecipazioni conferite. Tale regime di neutralità fiscale “indotta” dal comportamento contabile della società conferitaria è infatti un effetto implicitamente previsto dal legislatore, che in tal modo ha inteso agevolare le riorganizzazioni societarie. Questo, evidentemente, sia con riferimento alle operazioni di scambio che attuino un’aggregazione di imprese tra soggetti terzi, sia per quelle realizzate all’interno dello stesso gruppo per modificare gli assetti di “governance”, come nel caso di cui alla risposta a interpello n. 170/2020. Occorre segnalare un aspetto di interesse che emerge dal documento di prassi. In particolare, nella fattispecie in esame, nella quale i soggetti conferenti sono persone fisiche non imprenditori, l’Agenzia ha ritenuto di escludere tout court l’applicazione dell’articolo 177, comma 3, del Tuir, vista l’irrilevanza delle disposizioni di cui all’articolo 87 del Tuir.
L’articolo 177, comma 3, del Tuir, richiama infatti il comma 2 dell’articolo 175 del medesimo testo unico, che reca una norma di carattere antielusivo finalizzata ad evitare che lo scambio di partecipazioni possa essere “strumentalizzato” per trasformare partecipazioni plusvalenti estranee all’ambito applicativo della Pex (articolo 87 del Tuir) in quote partecipative idonee a fruire di tale regime di esenzione parziale.
Iscriviti alla newsletter di HLB San Marino
L’azienda chiusa per lockdown può non pagare l’affitto
13 Luglio 2020
Il Sole 24 Ore lunedì 15 Giugno 2020 di Antonino Porracciolo
IMMOBILI
Escluso l’inadempimento colpevole se si è stati colpiti dalle norme emergenziali
Il fermo dell’attività d’impresa dovuto alla decretazione d’urgenza emanata per evitare la diffusione del Covid-19 esclude l’inadempimento colpevole delle aziende che, a causa del blocco, non hanno potuto eseguire le prestazioni dovute. È quanto può leggersi in filigrana in due recenti decreti dei tribunali di Bologna (giudice Marco Gattuso) e di Rimini (giudice Silvia Rossi), rispettivamente del 12 e del 25 maggio.
Entrambe le controversie sono state promosse dalle conduttrici di immobili adibiti a uso commerciale per ottenere, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, una pronuncia d’urgenza che inibisse alle società locatrici di mettere all’incasso gli assegni detenuti a garanzia del pagamento dei canoni delle locazioni.
Le ricorrenti (difese dallo studio legale Angelini e Balzi) hanno puntato sul fatto che l’articolo 3, comma 6-bis, del decreto legge 6/2020 (convertito nella legge 13/2020) dispone che il rispetto delle misure di contenimento dirette a evitare il diffondersi del Covid-19 «è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del Codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». Dunque, secondo le conduttrici, la norma esclude, per tutta la durata del lockdown, l’inadempimento nel pagamento dei canoni dovuti dalle imprese coinvolte nel blocco dell’attività. Blocco che si era verificato nelle vicende in esame, giacché un immobile era adibito a centro fitness ed estetica, mentre l’altro ospitava una struttura alberghiera.
Nell’accogliere provvisoriamente, con provvedimento pronunciato prima della convocazione delle parti (articolo 669-sexies, comma 2, del Codice di procedura civile), le richieste delle ricorrenti, i giudici danno atto che queste ultime avevano esposto di aver sospeso la propria attività a causa delle misure restrittive emanate per contrastare la diffusione del Covid-19; rilevano quindi che le stesse conduttrici avevano emesso assegni postdatati a garanzia dell’obbligazione di pagamento dei canoni.
In particolare, il giudice di Rimini afferma che sussiste il «fumus boni iuris» della pretesa della ricorrente (cioè la verosimile fondatezza del diritto) «alla luce delle disposizioni emergenziali e della situazione di fatto in cui si trova ora a operare l’attività di ricezione turistica». Inoltre, l’incasso degli assegni potrebbe provocare alle imprenditrici un pregiudizio irreparabile, giacché dal mancato pagamento dei titoli segue la segnalazione alla Centrale d’allarme interbancaria (Cai), e quindi la revoca di ogni autorizzazione a emettere assegni e il conseguente divieto per qualunque banca e ufficio postale di stipulare nuove convenzioni di assegno con il traente.
Così i tribunali hanno ordinato alle società locatrici di non mettere all’incasso gli assegni bancari detenuti a titolo di garanzia. In entrambi i procedimenti è stata quindi fissata l’udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto (in base al comma 2 dell’articolo 669-sexies): al Tribunale di Rimini l’udienza si terrà da remoto, mentre a Bologna con il deposito di note scritte.