Categoria: Dall’Italia
Accertamento da transfer pricing fondato sul divario dal valore normale
9 Febbraio 2021
Il Sole 24 Ore 13 gennaio 2021 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
CASSAZIONE
Non bastano per la rettifica l’antieconomicità o il risparmio d’imposta
Il contribuente è poi tenuto a dimostrare la normalità delle condizioni concordate
Nel trasfer pricing l’antieconomicità o il risparmio di imposta non sono elementi sufficienti per fondare l’accertamento: occorre infatti che l’ufficio provi lo scostamento del prezzo rispetto al valore normale.
Il contribuente è poi tenuto a dimostrare la “normalità” delle condizioni economiche concordate.
Ad affermarlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza 230/2021 depositata ieri 12 gennaio.
La vicenda trae origine dalla contestazione dell’Agenzia di alcuni costi di marketing, partecipazione a fiere estere, promozione aziendale e pubblicità sostenuti e dedotti da una società controllante anche nell’interesse delle partecipate estere.
L’Agenzia, contestando la violazione dei prezzi di trasferimento, recuperava tali costi nel presupposto che fossero privi di una valida giustificazione economica e avessero in concreto consentito un cospicuo risparmio di imposta.
Infatti, poiché anche le società estere avevano beneficiato dei servizi acquistati dalla controllante nazionale, avrebbero dovuto partecipare al relativo costo.
La società impugnava il provvedimento ed entrambi i giudizi di merito confermavano l’illegittimità della pretesa.
L’ufficio ricorreva così in Cassazione lamentando, sul punto, un’errata applicazione della norma.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che la contestazione del transfer pricing introduce una presunzione secondo la quale i componenti di reddito con società estere controllate da un ente residente sono valutati in base al valore normale.
La definizione di valore normale (articolo 9 del Tuir) va individuata nel prezzo praticato per analoghi beni o servizi, in regime di libera concorrenza e nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti.
In proposito, la Cassazione ha precisato che in caso di operazioni infragruppo, l’Ufficio deve provare l’esistenza dell’operazione stessa, della pattuizione di un corrispettivo inferiore e lo scostamento di tale valore rispetto ai normali prezzi di mercato.
In tale contesto, non è necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca la prova che l’operazione sia priva di una valida giustificazione o abbia comportato un risparmio di imposta. Si tratta, infatti, di presupposti della diversa fattispecie dell’abuso del diritto.
La Suprema corte ha così concluso che in mancanza della prova a carico dell’ufficio dello scostamento del prezzo rispetto alla “normalità” non ci sono i presupposti per la contestazione di trasfer pricing.
La decisione è interessante poiché riguarda una situazione che si verifica di frequente.
Di prassi gli uffici contestano i prezzi infragruppo (in realtà anche relativi a società interamente nazionali) nell’unico presupposto che si tratti di operazioni asseritamente antieconomiche ovvero alla presunta esistenza di un risparmio indebito di imposte.
Secondo il principio affermato dalla Cassazione, il provvedimento così motivato è illegittimo poiché ai fini della sua validità, l’ufficio deve provare lo scostamento del prezzo applicato dalla contribuente rispetto al valore normale.
Esemplificando, è verosimile ritenere che una prova in tal senso potrebbe essere l’indicazione nel provvedimento dei prezzi di analoghi prodotti/servizi desunti da listini prezzo, ricerche sul web, eccetera.
Dinanzi a tali prove, il contribuente è poi tenuto a dimostrare che il corrispettivo convenuto corrisponda ai normali valori economici attribuiti dal mercato. Ove invece, manchi il corrispettivo specifico, occorre dimostrare che i servizi/beni di cui le società estere hanno usufruito è stato remunerato attraverso altri accordi (ad es. maggiorazione del prezzo del bene finito.
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Chi posta sui social commenti offensivi rischia la diffamazione aggravata
9 Febbraio 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 11 gennaio 2021 – Giustizia e Sentenze
DIRITTO E WEB
Carcere fino a tre anni o multa: il punto sui confini della rilevanza penale
Si configura anche il reato di sostituzione di persona se si usa un falso profilo
Attenzione a lasciarsi coinvolgere in battibecchi sui social perché lanciare in rete post offensivi può costare una condanna per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità.
Il reato è quello previsto dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale che punisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro) chi offenda l’altrui reputazione comunicando con un mezzo di pubblicità. Per i giudici, infatti, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.
Così, uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se – per tenore letterale o contenuto – sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte.
A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la giurisprudenza.
Le pronunce
Scatta la diffamazione aggravata, ad esempio, per chi con un post visibile a tutti i suoi contatti offenda l’ex accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli (Tribunale di Torino, 299/2020).
Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come «un miserabile» bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020) o per chi, nella spasmodica ricerca di «giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti», denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo (Tribunale di Ascoli Piceno, 90/2020).
Condannato anche chi – riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro – pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo «viscido e senza spina dorsale» (Tribunale di Taranto, 123/2020).
Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno «pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare» per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020).
Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima. Sfuggirà a responsabilità penale, pertanto, chi – interagendo sulla piattaforma di Youtube – auguri a un dottore che aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay, eventualità che nella realtà non riveste un connotato spregievole (Cassazione, 17944/2020).
Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico.
Prova e risarcimento
Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la paternità, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma – diffidato dalla persona offesa – ha provveduto a rimuoverlo.
La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa (Tribunale di Vicenza, 1673/2020).
Falso profilo
Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato (Cassazione, 22049/2020).
Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host).
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Dichiarazione fraudolenta anche senza avere benefici
9 Febbraio 2021
Il Sole 24 Ore 21 gennaio 2021 di Antonio Iorio
CASSAZIONE
Coinvolto il responsabile amministrativo con delega a firmare le dichiarazioni
Anche il responsabile amministrativo della società risponde del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture se ha la delega alla sottoscrizione delle dichiarazioni. A nulla rileva che non sia socio dell’impresa e che quindi non abbia tratto beneficio diretto dall’evasione in quanto il suo coinvolgimento può essere provato anche sotto altri profili. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di Cassazione con la sentenza 2270 depositata ieri.
Nei confronti del direttore amministrativo di una società che aveva sottoscritto la dichiarazione dell’impresa veniva effettuato un sequestro preventivo in considerazione di un ipotizzato reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture. La misura cautelare veniva confermata dal competente tribunale del riesame. L’interessato ricorreva per cassazione, evidenziando, in estrema sintesi, che era direttore amministrativo, anche se dotato di poteri di firma delle dichiarazioni fiscali. In sostanza era un semplice dipendente della società, senza poteri di rappresentanza che non aveva tratto alcun beneficio dalla violazione contestata.
In ogni caso non vi era prova che avesse presentato le dichiarazioni fiscali oggetto di contestazione: nella società si erano avvicendati vari amministratori che avrebbero potuto procedere a tale adempimento. Infine veniva rilevato che si era anche insinuato nel fallimento della società per retribuzioni non ricevute
La Corte di cassazione ha respinto il ricorso confermando la misura cautelare.
Secondo i giudici di legittimità l’interessato non aveva considerato che il tribunale del riesame aveva in realtà valutato anche altre circostanze.
Innanzitutto egli in ambito societario impartiva le direttive ai fini della registrazione e del pagamento delle fatture, inoltre era presente ad incontri nei quali uno dei partecipanti ammetteva che i lavori pagati non corrispondevano a quelli eseguiti e veniva indicato da un testimone quale responsabile della falsità in sede di approvazione dei bilanci
La cassazione ha così ritenuto irrilevante la circostanza lamentata dall’interessato che non vi fosse prova dell’apposizione della firma dell’indagato sulle dichiarazioni fiscali in quanto non presenti in atti
La pronuncia della Suprema corte, che evidentemente attiene una misura cautelare e quindi non è un’affermazione della colpevolezza dell’indagato, tuttavia deve far riflettere sulla circostanza, spesso non ben ponderata, che in prima battuta nei reati dichiarativi la responsabilità dell’illecito penale ricade su colui che ha sottoscritto la dichiarazione.
Nella specie dalla lettura della sentenza sembra emergere che l’interessato avesse effettivamente la delega per tale atto ancorché poi si sia difeso rilevando che l’accusa non avesse allegato tali dichiarazioni ponendo così in dubbio verosimilmente anche la stessa sottoscrizione.
Secondo l’orientamento della Suprema corte colui che sottoscrive la dichiarazione è in prima battuta il responsabile del reato, in quanto si presume la consapevolezza di quanto dichiarato, tanto più se da altri elementi (dichiarazioni testimoniali di terzi e sua partecipazione a riunioni) era confermata la sua consapevolezza.
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Utili esteri, per il Fisco vale l’anno di maturazione
9 Febbraio 2021
Il Sole 24 Ore 13 gennaio 2021 di Alessandro Germani
PAESI WHITE LIST
Dal 2018 i dividendi ordinari sono tassati a titolo d’imposta al 26%
Alessandro Germani
In caso di utili distribuiti da una società estera, occorre verificare se nel periodo di formazione dell’utile la stessa si qualifichi residente in uno Stato a fiscalità ordinaria o meno, secondo le regole vigenti nelle rispettive annualità di imposta.
La società, residente in Svizzera, ha versato le imposte sui redditi, sia a livello federale che a livello cantonale e comunale, nella misura ordinaria, senza beneficiare di alcun regime speciale.
A seguito di una scissione a favore di una società Alfa il socio persona fisica riceve degli utili, prodotti fra il 2012 e il 2019 e vuole conoscerne la tassazione, ovvero se debbono intendersi provenienti da paesi a fiscalità privilegiata o a tassazione ordinaria.
Per gli utili di fonte estera, l’articolo 47 del Tuir stabilisce un regime fiscale differente a seconda che la società emittente sia residente in un paese a fiscalità privilegiata oppure ordinaria. Nel primo caso l’utile concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile del socio residente, a meno che non sia stato già imputato al socio per trasparenza concorrendo a formare il reddito.
La ritenuta alla fonte sarà a titolo d’acconto (salvo per la partecipazione quotata) e verrà poi indicata dal contribuente nel quadro RL del Modello Redditi PF. Gli utili derivanti da paesi a fiscalità ordinaria fino al 2017 erano assoggettati parzialmente a tassazione, mentre dal 2018 sia per le partecipazioni qualificate sia per le non qualificate è prevista la tassazione a titolo d’imposta con aliquota del 26per cento.
Ciò vale anche per gli utili di fonte estera derivanti da soggetti residenti in Paesi che non sono considerati a regime fiscale privilegiato. Per tali utili occorre individuare dunque la provenienza, considerato che la norma sui paesi a fiscalità privilegiata si è modificata più volte (attualmente articolo 47-bis comma 1 del Tuir a seguito del recepimento della direttiva Atad). In più la legge di bilancio 2018 ha stabilito che non si considerano provenienti da un paradiso fiscale i dividendi distribuiti da una società a fiscalità privilegiata che corrispondono a utili “formati” in annualità in cui la società estera era considerata a fiscalità ordinaria, secondo le regole vigenti nel medesimo periodo di “formazione” dell’utile. Il contribuente dovrà dunque verificare se nel periodo di “formazione” dell’utile, ovvero dal 2012 al 2019, la società si qualifica residente in uno Stato a fiscalità ordinaria secondo le regole vigenti nelle rispettive annualità di imposta, nel quale caso gli utili sono assoggettati a ritenuta d’imposta. Ad esempio, per il triennio 2016-2018 si deve verificare che il livello nominale di tassazione della Svizzera non fosse inferiore al 50% di quello italiano. Idem per il 2019 va effettuato lo stesso check sulle aliquote nominali, unitamente alla verifica del requisito del controllo (articolo 2359 del Codice civile), a in base all’articolo 167 comma 2 del Tuir. Per tutti e sette gli anni la Svizzera non è a fiscalità privilegiata.
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Vendite online, anche la piattaforma risponde per la violazione dei marchi
9 Febbraio 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 18 gennaio 2021 di Gianluca De Cristofaro
PROPRIETÀ INTELLETTUALE
Il gestore del marketplace è responsabile degli illeciti commessi da terzi
Secondo i giudici di Milano ha un ruolo attivo: si occupa di clienti e promozioni
Il Tribunale di Milano riconosce la responsabilità per contraffazione di marchio di un noto marketplace considerandolo hosting provider attivo, con riferimento alle vendite effettuate da terzi sulla propria piattaforma. Una decisione importante che si inserisce in un quadro giurisprudenziale ancora oscillante e che sembra andare nella direzione di escludere il regime di esenzione dalla responsabilità prevista dal Dlgs 70/2003 (articolo 16).
La responsabilità del provider
La Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, con ordinanza cautelare del 19 ottobre 2020, ha deciso un procedimento d’urgenza promosso da due produttori di articoli di profumeria di alta gamma (che avevano implementato un sistema di distribuzione selettiva a tutela del prestigio dei marchi distribuiti) nei confronti della piattaforma Amazon attraverso la quale erano commercializzate – sia direttamente dal gestore, sia tramite venditori terzi – le proprie fragranze.
Il Tribunale, dopo aver valutato la liceità del sistema di distribuzione selettiva delle fragranze (appurando che le modalità di vendita sul marketplace ne ledevano il prestigio), ha prima accertato la vendita diretta dei profumi da parte del provider – stabilendone la responsabilità per contraffazione di marchio –, e, in seguito, ha esaminato le modalità operative relative ai servizi di vendita offerti dal provider, rilevando che quest’ultimo:
gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi (unico servizio di cui il cliente dispone per interfacciarsi con il venditore);
svolge attività promozionale anche tramite inserzioni su siti terzi;
permette ai consumatori di ritenere esistente un legame tra la piattaforma e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla stessa.
Secondo il Tribunale, l’insieme di queste azioni attribuisce al gestore della piattaforma – nella sua veste di hosting provider – un ruolo attivo, escludendolo dall’esenzione di responsabilità previsto dall’articolo 16 del Dlgs 70/2003 solo in caso di servizio «consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio», definito negli ultimi anni dalla giurisprudenza “passivo”. L’attività del gestore del marketplace, infatti, non si è limitata alla prestazione di un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, per la quale la piattaforma non conosce, né controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i servizi.
Il Tribunale ha quindi ritenuto il provider responsabile di contraffazione di marchio anche quando svolge il ruolo di intermediario tra il consumatore e i venditori terzi che sfruttano la piattaforma per la propria attività commerciale, inibendo l’ulteriore commercializzazione delle fragranze tramite il proprio marketplace.
La giurisprudenza
La decisione di Milano arriva pochi mesi dopo una sentenza della Corte di giustizia europea del 2 aprile 2020 che, all’opposto, aveva riconosciuto la natura di hosting provider passivo di Amazon (C-567/18, Coty c. Amazon). In quel caso, tuttavia, la Corte si era limitata a considerare (alla luce però delle circostanze di fatto delineate dal giudice del rinvio) la mera attività di stoccaggio svolta dalla piattaforma.
L’indagine del Tribunale di Milano ha, invece, esaminato nel dettaglio le attività svolte in concreto dal gestore del noto marketplace al fine di individuare la linea di confine tra prestatore di servizi della società dell’informazione neutrale e non neutrale.
La responsabilità del provider è, ormai, da tempo al centro del dibattito giurisprudenziale (e non solo), ma è quantomai attuale; la regolamentazione della responsabilità delle piattaforme è anche oggetto del Digital Service Act, parte della proposta presentata dalla Commissione europea lo scorso 15 dicembre per regolamentare l’offerta di servizi digitali.
La distinzione tra hosting “attivo” e “passivo” passa, ormai e inevitabilmente, sempre più da una verifica in concreto e caso per caso della condotta e delle attività svolte dai provider. Così, alcune decisioni di merito hanno ritenuto attiva la condotta del provider sulla base di attività quali organizzazione di un servizio clienti, controllo sui prodotti, profilazione e manipolazione del materiale caricato dall’utente (Tribunale di Milano, ordinanza del 13 luglio 2020; Tribunale di Roma, sentenze del 12 luglio 2019 e del 10 gennaio 2019); altre hanno invece ritenuto passivo il ruolo del provider sulla scorta della mera ospitalità di contenuti, senza manipolazione dei dati (Tribunale di Milano, sentenza del 17 giugno 2020; Cassazione, sentenza del 19 marzo 2019; Tribunale di Torino, sentenza 7 aprile 2017).
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Stabile organizzazione anche le attività di supporto
12 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore 2 dicembre 2020 di Cecilia Breviglieri e Maricla Pennesi
CASSAZIONE
Le attività devono dare vita a un ciclo completo con risultati rilevanti
La Corte di cassazione, con l’ordinanza 21693 dell’8 ottobre 2020, ha recentemente affermato che si configura la stabile organizzazione di una società estera sul territorio italiano se, per il tramite di un amministratore di fatto, vengono svolte una pluralità di attività da rappresentare un ciclo completo con un proprio risultato economicamente rilevante per il soggetto estero.
Lo svolgimento dell’attività d’impresa deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendo anche tutte quelle prestazioni di servizi o, più in generale, qualunque attività riferibile all’interesse economico del soggetto estero sul territorio italiano.
Pertanto una volta individuata in via sostanziale l’esistenza di una stabile organizzazione, quand’anche vi fossero attività preparatorie o accessorie queste sarebbero comunque da ricomprendere nell’insieme di operazioni che rappresentano l’attività di impresa, in una sorta di vis attractiva, ricondotta a unità dalla rilevanza economica nell’interesse della società estera.
La Suprema corte, nell’ordinanza, ribadisce i criteri cardine per l’individuazione, su base sostanziale e fattuale, di una stabile organizzazione; infatti chiarisce che l’articolo 162 del Tuir (per gli esercizi ante 2004 si deve far riferimento al contenuto sostanzialmente analogo all’articolo 20 del Tuir vigente ratione temporis, come integrato dall’articolo 5 del commentario Ocse) prevede che l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di un’impresa estera ricorre:
- quando ci sia una sede localizzata sul territorio stabile e connessa a un esercizio normale di attività economica d’impresa idonea a produrre reddito;
- quando l’attività viene svolta per il tramite di un rappresentante dotato del potere di concludere contratti per conto dell’impresa non residente nel territorio dello Stato.
Nel ribadire i principi base, la Corte di cassazione si spinge oltre a qualificare le attività ausiliarie e preparatorie e il discrimen per essere qualificate come tali, sostenendo che ai fini della definizione di attività meramente ancillari è necessario che le stesse siano rivolte esclusivamente all’impresa e al suo funzionamento interno, senza rappresentare un centro d’imputazione autonoma di reddito.
Pertanto non possono essere qualificate tali le prestazioni di servizi effettuate nei confronti di terzi (clienti) ovvero a favore di altre imprese facenti parte del gruppo.
Attività diverse da casa madre
Degna di nota l’ulteriore annotazione da parte della Cassazione in cui si sottolinea che una sede fissa per essere considerata una stabile organizzazione deve essere utilizzata dall’impresa residente per l’esercizio in tutto o in parte della “sua” impresa, il che non implica necessariamente che l’attività da svolgere per mezzo della sede debba essere del tutto simile a quella della casa madre, essendo, invece, requisito fondamentale che sia svolta una qualunque attività d’impresa comparabile o del tutto diversa da quella esercitata dal soggetto estero purchè riconducibile all’interesse economico diretto dello stesso con il conseguente ottenimento di un autonomo risultato tassabile.
A questo quadro di attività funzionalmente interconnesse si aggiunge un elemento fondante l’intera contestazione ovvero il ruolo assunto, in Italia, dall’amministratore di fatto, il quale poneva in essere una serie di attività riconducibili al ruolo di “agente” ( comma 6 articolo 162 Tuir) per conto della casa madre, quali il perfezionamento di contratti di acquisto e vendita, il reimpiego di denaro ottenuto dall’attività caratteristica di investimenti, finanziamenti e mutui a beneficio suo o di soggetti terzi, e attività di acquisto per conto delle consociate.
L’emissione delle fatture
Non solo. La stessa persona emetteva fatture per conto della società nei confronti dei clienti italiani, apponeva la propria firma nel siglare i contratti e i documenti rilevanti, procedendo alla conservazione degli stessi nell’interesse del soggetto estero, curava i rapporti con gli intermediari bancari presso cui erano accesi i conti correnti societari, pagava i fornitori emettendo assegni sia sui conti bancari della società sia come persona fisica e dava disposizioni per l’incasso delle fatture.
La Corte conclude con quello che dovrebbe essere un auspicabile invito all’analisi concreta dei rischi fiscali in relazione ai fenomeni di stabile organizzazione occulta ovvero a esaminare tutti i fatti rilevanti e decisivi ai fini della valutazione della natura dell’attività svolta nel contesto del modello di business del soggetto estero tenendo conto delle peculiarità ed articolazioni dello stesso sul territorio italiano nonché ai soggetti in esso attivamente coinvolti nella realizzazione del risultato economico.
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Brexit, il rappresentante fiscale dribbla gli effetti Iva più pesanti
11 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 28 dicembre 2020 Matteo Balzanelli e Massimo Sirri
IMPOSTE INDIRETTE
Alcuni fornitori Uk scelgono di registrarsi in uno Stato Ue per agevolare i propri clienti
L’iter può essere usato anche per le cessioni «assimilate» alle intraUe
Per agevolare i propri clienti nel dopo Brexit, i fornitori britannici possono decidere di “registrarsi” ai fini Iva, nominando un rappresentante fiscale in un qualsiasi Stato membro. Una soluzione che resta valida anche dopo l’accordo del 24 dicembre tra Regno Unito e Unione europea e che offre il vantaggio di eseguire nello Stato Ue prescelto l’importazione dei beni provenienti da Uk o da altri Paesi extraUe, così da realizzare poi una cessione intracomunitaria nei confronti del cessionario soggetto passivo Ue.
È allora bene che gli operatori nazionali siano a conoscenza delle regole che governano tali operazioni.
- Innanzitutto, va ricordato che l’introduzione di beni nel territorio dell’Ue con relativa immissione in libera pratica può avvenire senza pagamento dell’imposta, fruendo della possibilità riconosciuta dall’articolo 143 direttiva 2006/112 di “sospendere” il pagamento dell’Iva all’importazione se i beni sono destinati a proseguire verso altro Stato membro nel quale sarà assolto il tributo.
- Una volta scelto il paese Ue in cui sdoganare i beni di provenienza extracomunitaria, gli operatori Uk lì nomineranno un rappresentante fiscale per dar corso all’immissione senza pagamento dell’imposta e al successivo trasferimento intraUe. In tal modo, pur rifornendosi da un fornitore inglese, l’acquirente nazionale continua a effettuare acquisti intracomunitari soggetti a Iva con applicazione del reverse charge.
- Dal punto di vista reddituale, il fornitore resta extraUe. Il cessionario nazionale tuttavia, ai fini Iva, deve integrare e registrare la fattura emessa dal rappresentante fiscale e collaborare con tale soggetto per fornire la prova dell’avvenuto trasferimento dei beni dallo Stato d’immissione in libera pratica all’Italia.
Per prassi dello Stato d’importazione, tuttavia, potrebbe darsi che il rappresentante non sia tenuto a emettere fattura e possa limitarsi a compilare l’elenco riepilogativo delle cessioni. Tale mancanza va sanata dal cessionario nazionale con autofattura da regolarizzazione ex articolo 46, comma 5, Dl 331/93, indicando l’identificativo Iva del rappresentante fiscale che dev’essere quindi noto all’acquirente.
- In ogni caso, è opportuno che il cessionario nazionale si faccia rilasciare idonea documentazione (compresa quella doganale, se possibile) che comprovi la regolarità dell’intera operazione.
La cessione assimilata
La procedura illustrata può essere seguita anche se i beni immessi in libera pratica non formano oggetto di una successiva “vera” cessione intraUe, ma di un trasferimento per esigenze del fornitore Uk, il quale potrebbe voler disporre dei beni in Italia, magari presso un proprio deposito. In tal caso, si avrebbe una cessione intracomunitaria “assimilata” dal rappresentante (di Uk) nello Stato d’importazione ad altro rappresentante (di Uk) in Italia, il quale assolverà comunque l’imposta in reverse.
Il rappresentante in Italia
L’operatore inglese potrebbe anche decidere di nominare un rappresentante fiscale in Italia per ivi immettere in libera pratica beni provenienti da fuori Ue. In questo caso, se i beni sono destinati al trasferimento in altro Stato membro, l’articolo 67, Dpr 633/72 prevede una procedura analoga a quella sopra descritta.
In base al comma 2-ter di tale norma e diversamente da quanto prevede la direttiva, è tuttavia richiesto che il bene sia oggetto di una vera cessione intraUe (che il rappresentante dovrà regolarmente fatturare) e che il cessionario sia effettivamente stabilito in altro Paese Ue.
Se i beni non sono destinati ad altro Stato comunitario, ma restano in Italia, l’imposta è assolta (salvo deposito Iva o plafond) dal rappresentante inglese presso la dogana nazionale. Tale soggetto non emetterà però fattura per la successiva vendita a soggetti passivi Iva nazionali, trattandosi pur sempre di un acquisto da extraUe da autofatturare a cura del cessionario nazionale.
Quale che sia lo Stato comunitario scelto, il rappresentante fiscale dell’operatore Uk potrebbe essere coinvolto in operazioni complesse (triangolari o vendite a catena). Vanno quindi rispettate le regole previste per tali operazioni e le indicazioni della giurisprudenza comunitaria.
Per esempio, in caso di rappresentante fiscale nominato in Italia che “acquisti” beni presso un fornitore Ue per cederli a un cliente soggetto passivo nazionale, occorre prestare attenzione al trasporto dei beni. Se il trasferimento in Italia è eseguito dal cessionario residente, il fornitore inglese, sebbene già registrato in Italia, dovrebbe infatti nominare un rappresentante fiscale anche nello Stato Ue di partenza dei beni per realizzare una cessione intracomunitaria nei confronti del soggetto nazionale (sentenza C-628/16).
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La partecipazione minoritaria «salva» l’impresa dalle norme di transfer pricing
11 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 21 dicembre 2020 di Massimo Bellini
FISCO INTERNAZIONALE
La Ctr di Bolzano esclude l’applicazione e dà ragione all’azienda con 48% di quote
I mutui infruttiferi possono rispondere comunque alle logiche del mercato
Nella sentenza 55/2 del 4 dicembre 2020 i giudici della Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano (presidente Rispoli, relatore Fleischmann) si sono espressi sull’applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento a un finanziamento infruttifero tra società con vincolo di partecipazione del 48 per cento.
La vicenda
Il caso riguarda un contribuente italiano cui sono stati notificati tre avvisi di accertamento relativi agli anni 2016, 2017 e 2018 per violazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir, dovuta all’omessa applicazione di interessi su un finanziamento concesso ad una società cilena controllata al 48 per cento. In particolare, l’ufficio aveva ripreso a tassazione il valore degli interessi che sarebbero stati dovuti in applicazione del principio di libera concorrenza.
La decisione
I giudici di secondo grado hanno rigettato l’appello dell’ufficio contro la sentenza di primo grado, favorevole al contribuente. Le motivazioni riguardano sia il requisito soggettivo che oggettivo per l’applicazione della normativa di transfer pricing.
In relazione al primo aspetto, secondo i giudici la partecipazione del 48% è una partecipazione minoritaria che non consente di esercitare il controllo né di diritto né di fatto sulla società cilena. In particolare, la partecipata era amministrata da tre direttori che dovevano prendere decisioni all’unanimità, di cui solo uno era nominato dalla contribuente. L’esistenza di tale rapporto partecipativo consentiva di esercitare una certa influenza, ma non integrava il requisito del controllo. Per tali motivi le due società non potevano essere considerate come imprese associate facenti parte dello stesso gruppo e di conseguenza l’articolo 110, comma 7, del Tuir non era applicabile.
Il principio
Il principio è condivisibile. Non vi sono dubbi che una partecipazione inferiore al 50%, in assenza di ulteriori elementi, non integra il requisito soggettivo. Dovrebbe esserci infatti influenza dominante sulla base di vincoli azionari o contrattuali secondo quanto previsto dal Dm del 14 maggio 2018 o influenza sulle decisioni imprenditoriali secondo quanto indicato in precedenza dalla circolare 32/1980. Tali elementi dovevano essere provati dall’ufficio (Cassazione 28335/2018) ma non sembrano emergere dai fatti descritti nella sentenza.
Il requisito oggettivo
Anche se tali considerazioni bastano a risolvere la controversia vi è qualche perplessità sulla conclusione dei giudici in relazione al requisito oggettivo. Secondo la Ctr l’ufficio non ha provato l’esistenza di componenti reddituali ai quali sarebbe applicabile l’articolo 110, comma 7, del Tuir arrivando così a tassare proventi figurativi ed ipotetici. In senso contrario si è espressa di recente la Cassazione (21828/2020) secondo cui l’eventuale infruttuosità del finanziamento concordata tra le parti non esclude di per sé l’applicazione delle regole sui prezzi di trasferimento.
Più convincente è invece il passaggio in cui i giudici sottolineano che nel nostro ordinamento giuridico non vi è una presunzione assoluta di onerosità, per cui anche un finanziamento non oneroso può essere conforme con il principio di libera concorrenza. Vi possono infatti essere vari casi in cui la stipula di un prestito infruttifero risponde a logiche di mercato come facilitare lo sviluppo in nuovi mercati (Ctp Milano 7019/12/17).
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Arte, sport e cultura: per eventi e servizi si paga l’Iva nello Stato del committente
11 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 21 dicembre 2020 di Raffaele Rizzardi e Benedetto Santacroce
Vanno considerate anche le norme sulle prestazioni relative agli immobili
L’eccezione principale è il caso di un servizio di locazione autonomo
Le manifestazioni artistiche, sportive, culturali e scientifiche, con le relative forniture di servizi, seguono regole di tassazione Iva che, negli ultimi anni, sono state oggetto di numerose pronunce della Corte di giustizia Ue e della prassi nazionale ed estera con risultati non sempre del tutto lineari, lasciando gli operatori in balia di interpretazioni locali non del tutto coerenti con il sistema unionale.
Lo sforzo che l’interprete è chiamato a realizzare per fornire una lettura integrata del sistema e delle richiamate pronunce deve partire dall’evoluzione della disposizione unionale, nonché dalla stretta relazione che esiste tra le disposizioni della Direttiva Iva (Dir 2006/112/Ce) che si occupano di queste manifestazioni e quelle che si occupano della tassazione delle prestazioni relative agli immobili. Proprio nella relazione tra queste disposizioni nascono le maggiori problematiche interpretative.
In particolare, mentre in riferimento alle prime la tassazione segue in via generale la tassazione nello Stato del committente (se non nel caso di accesso fisico alla manifestazione ovvero di prestazione realizzata nei confronti di un privato), nelle seconde la tassazione segue il luogo in cui si trova l’immobile.
Se volessimo individuare una chiave di lettura delle disposizioni unionali potremmo sintetizzare questi principi:
in tutti i casi in cui il prestatore fornisce l’evento, per così dire “chiavi in mano” al destinatario soggetto passivo, il servizio va tassato nello Stato membro del committente (in questo senso Risposta a interpello 35/E/2020, in senso contrario Principio di diritto 2/E/2018);
non va trascurata la volontà contrattuale delle parti che, in generale, in riferimento alla realizzazione di un evento, non intendono acquisire la mera disponibilità di un immobile (quale prestazione principale) e usufruire di ulteriori servizi (accessori), bensì sono interessati all’organizzazione dell’evento/manifestazione nella sua complessità. Quest’ultima fattispecie va dunque qualificata come servizio unitario, sebbene complesso (costituito in via principale dall’attività culturale, artistica, sportiva eccetera e in via secondaria da ulteriori servizi) territorialmente rilevante nel Paese di stabilimento del committente, in quanto – si ribadisce – sul piano normativo, la deroga alla regola generale della territorialità opera solo se la stessa è resa nei confronti di un destinatario soggetto privato;
i servizi relativi all’accesso all’evento implicano l’acquisto del diritto di entrare nel luogo in cui la manifestazione si svolge nonché di partecipare all’evento in un ruolo “passivo o semiattivo” (in senso conforme Corte di giustizia, sentenza C-647/17, per un corso di formazione professionale, in senso difforme Risposta a interpello 62/E/2020). Al contrario, la partecipazione attiva di un soggetto (artista, sportivo, eccetera) alla realizzazione dell’evento fuoriesce dalla regola di tassazione nel luogo in cui si svolge l’evento (dettata per l’accesso alla manifestazione) e tornano applicabili le regole generali in termini di territorialità dell’Iva.
In linea con questi principi, oltre alle citate posizioni della Corte di giustizia, si segnala l’articolata circolare 29 del 5 aprile 2011 della direzione generale delle finanze pubbliche francese che esemplificando le diverse ipotesi, sottolinea che la tassazione per essere riferita all’immobile (che solitamente è una componente tipica delle manifestazioni) deve avere per oggetto un servizio di locazione autonomamente considerato e non incluso in una prestazione unica di cui l’immobile non è per le parti e per la finalità del contratto un elemento predominante.
Principio-interpretazione-a cura del CTS Sole 24 Ore
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Dal 1° luglio addio alle soglie di protezione
11 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore 5 gennaio 2021 di Raffaele Rizzardi
LE VENDITE ALL’ESTERO
Lo sviluppo esponenziale delle vendite online ai privati, accentuato dalle difficoltà di movimento delle persone per l’emergenza sanitaria, ha portato non poche piccole e medie imprese a spedire merce in altri Stati membri superando la cosiddetta soglia di protezione, normalmente di 35mila euro per la sommatoria delle cessioni a non soggetti di imposta del singolo Stato, che comporta l’applicazione dell’Iva dello Stato di destinazione, con un adempimento oggi necessariamente di identificazione in quel Paese, computando l’aliquota Iva di tale Stato.
Se l’invio è invece rimasto nei limiti, le vendite dirette ai consumatori sono state assoggettate all’imposta dello Stato in cui è iniziata la spedizione, nel nostro caso l’Italia.
Dal 1° luglio prossimo verranno meno le soglie di protezione, salvo una di 10mila euro per l’insieme delle operazioni territorialmente rilevanti in tutti gli altri Stati. Potrebbe essere il caso di un artigiano edile, cui capita raramente di essere chiamato ad eseguire dei lavori su un edificio all’estero. Se sta in questi limiti la sua prestazione sarà effettuata con l’Iva italiana. Per chi vende online questo limite è del tutto inconsistente, e pertanto avrà, in primo luogo l’opportunità di non dover aprire partite Iva all’estero, utilizzando il sistema dello sportello unico, Oss (One stop shop), che consente di versare alla propria amministrazione finanziaria anche l’Iva di un altro Paese, ovviamente mettendo a disposizione i dati che consentono di individuare ciascuno Stato di destinazione della merce.
Il serio rovescio della medaglia riguarda l’individuazione dell’aliquota pertinente per il singolo prodotto in ciascuno degli altri 27 Paesi aderenti al regime Iva intraunionale.
Non abbiamo dimenticato la Brexit, lasciando invariato il numero degli attuali partners, in quanto le aliquote della Gran Bretagna dovranno essere applicate alle vendite con destinazione Irlanda del Nord.
La Commissione europea ha messo a disposizione un database “Vat search”, che richiede l’inserimento della voce doganale della Nomenclatura comune europea.
A quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore dell’Iva nel nostro Paese le tabelle delle aliquote ridotte continuano a indicare la vecchia voce doganale. Ma anche commutando il riferimento, abbiamo voluto fare una prova con il prodotto di cui parla la risposta ad interpello del 10 dicembre 2020, n. 579, da classificare nella Nc 2106 90. La risposta dell’Agenzia è per l’aliquota 10%, in base alla voce 80 – prodotti alimentari vari (v.d. ex 21.07) della tabella A, parte III, ma la consultazione europea indica l’aliquota ordinaria del 22%.
Il sistema dello sportello unico era partito nel 2003 solo per i servizi online, solo con l’aliquota ordinaria, e ci è voluto molto per la riduzione relativa a libri e periodici online.
Dal 1° luglio prossimo bisognerà conoscere l’aliquota in ciascuno Stato di ogni prodotto venduto ai consumatori. Ma dopo 12 mesi il problema tornerà con il nuovo regime delle vendite ai soggetti di imposta.