Categoria: Dall’Italia
L’e-fattura con San Marino cancella l’Intrastat cessioni
8 Ottobre 2021
Il Sole 24 Ore 28 Settembre 2021 di Matteo Balzanelli Massimo Sirri
Da venerdì avvio facoltativo Obbligo dal 1° luglio 2022 solo per transazioni di beni
Niente elenchi riepilogativi per chi effettua anche vendite intracomunitarie
Uno degli effetti più graditi dell’avvio della fatturazione elettronica negli scambi con San Marino, facoltativa da venerdì 1° ottobre e obbligatoria (ma solo per la compravendita di beni) dal 1° luglio 2022, è senz’altro la scomparsa dell’obbligo di presentare gli elenchi Intrastat delle vendite per chi esegue anche cessioni intracomunitarie (quelli per gli acquisti già non andavano presentati). Altra buona notizia è che la fatturazione elettronica dovrebbe escludere l’esterometro. L’abolizione dell’Intrastat consegue all’entrata in vigore del Dm 21 giugno 2021 che non prevede più l’adempimento. Per tale motivo, l’obbligo dovrebbe sparire anche se è emessa fattura cartacea (finché possibile). Viene meno anche l’obbligo di annotazione nel registro Iva vendite dei riferimenti della fattura vistata dall’ufficio tributario estero. Entrambe le violazioni erano comunque state considerate irrilevanti ai fini del regime di non imponibilità delle cessioni verso San Marino (Cassazione 24479/2018 e 21811/2016). La non imponibilità resta però subordinata (articolo 5 del Dm) alla convalida di regolarità dell’e-fattura da parte dell’ufficio sammarinese o al possesso della fattura cartacea timbrata dallo stesso ufficio. Il cedente nazionale deve disporre delle fatture “validate” entro 4 mesi dall’emissione. In mancanza, occorre regolarizzare le operazioni con nota di variazione in aumento entro il trentesimo giorno successivo alla scadenza dei quattro mesi. Solo così non sono dovute sanzioni né interessi. Visto che l’articolo 1, comma 6 del nuovo decreto prevede che la cessione si consideri effettuata per l’importo fatturato o incassato in anticipo rispetto alla consegna dei beni, è necessario monitorare attentamente il termine dei quattro mesi dall’emissione della fattura non imponibile, tenendo conto che la documentazione necessaria per la disapplicazione dell’imposta è collegata all’importazione a San Marino. Attenzione anche alle fatture cartacee. Con modalità (che è consigliabile siano) tracciate, occorre infatti comunicare all’ufficio di San Marino e per conoscenza alle Entrate la mancata ricezione, nei 4 mesi dall’emissione della fattura, dell’esemplare vistato. Si pone dunque la questione del termine entro cui inviare la comunicazione, visto che l’articolo 4, comma 3 del Dm afferma solo che, se «entro trenta giorni» il cedente non ha ricevuto l’esemplare della fattura vidimata, si deve applicare l’imposta. Una lettura rigida potrebbe significare che l’intera procedura (comunicazione agli uffici e regolarizzazione) debba perfezionarsi entro trenta giorni dalla scadenza dei quattro mesi, sempre che, naturalmente, entro tale termine non sia stato ricevuto il documento vidimato. Pertanto, i cedenti nazionali dovranno attivarsi per eseguire la comunicazione non appena scaduti i 4 mesi dalla fatturazione. Sul fronte acquisti, se il cedente sammarinese ha emesso fattura elettronica con o senza applicazione dell’Iva (le due modalità in uso sono confermate), la detrazione e l’integrazione della fattura sono vincolate all’esito del controllo delle Entrate e al rilascio della fattura estera da parte dello Sdi. La fattura cartacea dev’essere vidimata dall’ufficio di San Marino. Se è stata emessa con Iva, la detrazione è subordinata alla ricezione dell’originale vistato. Se è senz’Iva, l’integrazione va eseguita sempre disponendo dell’esemplare vistato. La mancata ricezione o la ricezione di una fattura irregolare vanno “sistemate” nei termini dell’articolo 6, comma 9-bis del Dlgs 471/97 (reverse charge). Poiché il momento d’effettuazione degli acquisti è ancorato solo all’inizio del trasporto, come negli acquisti intracomunitari, e nulla è previsto (a differenza delle cessioni dall’Italia) per l’anticipazione del momento d’effettuazione in caso di acconti, ne dovrebbe derivare che un pagamento anticipato al fornitore sammarinese non comporti obblighi di regolarizzazione se non è ricevuta fattura, rilevando a tale fine solo la partenza dei beni.
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Accertamento da studi di settore bocciato senza il contraddittorio
7 Ottobre 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 27 settembre 2021 di Giorgio Emanuele Degani Damiano Peruzza
Strumento per assicurare il rispetto dei principi di collaborazione tra le parti
La Ctr di Reggio Calabria si adegua all’orientamento della Corte di cassazione
In caso di accertamenti standardizzati, l’omesso contraddittorio preventivo comporta la nullità dell’atto impositivo. Questo è il principio di diritto reso dalla Commissione tributaria regionale di Reggio Calabria con la sentenza n. 481/8/2021 (presidente Epifanio, relatore Pagano) in un caso di accertamento standardizzato basato sugli studi di settore. In particolare, i giudici hanno ribadito l’importanza del principio del contraddittorio preventivo tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente, strumento essenziale per assicurare il rispetto dei principi di collaborazione e buona fede tra le parti.
Il caso
L’agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento standardizzato basato sugli studi di settore. Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla Ctp, eccependo, tra gli altri, la nullità dello stesso per non essere stato attivato il contraddittorio di cui all’articolo 5, Dlgs 218/1997. Il primo grado accoglieva il ricorso e l’ufficio interponeva appello. La Ctr ha respinto il gravame, rilevando la mancata attuazione del contraddittorio tra le parti nella fase procedimentale antecedente all’emissione dell’avviso di accertamento. Secondo i giudici di appello, l’accertamento standardizzato si fonda sull’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e suddivisi per categorie; detti dati consentono di determinare il reddito del contribuente. Durante la fase amministrativa–procedimentale, incombe sul contribuente l’onere di allegare e provare la sussistenza delle condizioni che giustificano l’esclusione dello stesso dall’area dei soggetti a cui possono essere applicate le risultanze dell’accertamento standardizzato, ovvero l’argomentazione circa la specifica realtà e situazione economica che giustifichi il conseguimento del minor reddito. Al contempo, spetta all’amministrazione finanziria dimostrare l’applicabilità dello standard prescelto alla fattispecie concreta, con la precisazione delle ragioni per le quali vengono disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
Contraddittorio preventivo
È dunque evidente che l’esperimento del contraddittorio con il contribuente e la puntuale valutazione delle relative risultanze costituiscono elementi essenziali ed imprescindibili da porre a fondamento della ripresa erariale; ciò, in quanto, le risultanze standardizzate devono essere adeguate alla realtà del singolo contribuente, solo così potendo far emergere degli elementi idonei a commisurare la presunzione alla concreta realtà economica dell’impresa. Il contraddittorio preventivo endoprocedimentale diviene un momento essenziale ed imprescindibile, la cui assenza determina la nullità dell’accertamento.
La pronuncia risulta essere corretta e conforme all’orientamento giurisprudenziale di legittimità (da ultimo, Cassazione 2848/2021), secondo cui il contraddittorio è una primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Pertanto, nell’ipotesi di accertamento standardizzato, l’assenza dell’espletamento dello stesso comporta la nullità della pretesa impositiva.
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E-fattura con San Marino, verifica dell’Agenzia per la detrazione Iva
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore 6 agosto 2021 di Matteo Balzanelli Massimo Sirri
Anche il reverse charge sarà applicabile dopo l’ok dei controlli preventivi
Confermata la centralità dei servizi di consultazione delle Entrate per il funzionamento della fatturazione elettronica nell’interscambio italo-sammarinese (facoltativa da ottobre 2021 e obbligatoria, ma solo per le cessioni/acquisti di beni, dal 1° luglio 2022). È quanto prevedono le regole tecniche contenute nel provvedimento 211273 del 5 agosto, emanato in base all’articolo 21 del Dm 21 giugno 2021, per dare attuazione alle disposizioni che dal 1° ottobre 2021 disciplineranno i rapporti con la Repubblica di San Marino.
Dal portale «Fatture e corrispettivi», l’operatore nazionale potrà infatti visualizzare non solo i dati delle fatture elettroniche emesse e ricevute con operatori di tale Stato, ma ottenere anche le informazioni sull’esito dei controlli delle fatture di vendita/acquisto. Per le cessioni a San Marino, la verifica positiva da parte dell’ufficio tributario estero legittima il regime di non imponibilità Iva. L’articolo 3 del Dm prevede che il controllo sia eseguito entro i quattro mesi successivi all’emissione della fattura e che, in caso di esito negativo, il soggetto nazionale regolarizzi l’operazione operando la variazione ex articolo 26 del Dpr 633/1972 nei trenta giorni successivi. Se è eseguita entro tale termine, la regolarizzazione non comporta il pagamento di interessi né di sanzioni. Per gli acquisti da fornitori sammarinesi, l’informazione dell’esito positivo dei controlli effettuati dalla direzione provinciale delle Entrate di Pesaro-Urbino (competente in materia) sulle fatture elettroniche trasmesse dall’ufficio di San Marino consente al cessionario nazionale di esercitare la detrazione dell’Iva (in caso di cessioni con addebito dell’imposta, ai sensi dell’articolo 7 del Dm) ovvero di procedere all’assolvimento del tributo mediante applicazione del meccanismo dell’inversione contabile (cessioni senza addebito Iva, ex articolo 8 del Dm). È confermato che le regole tecniche di predisposizione/trasmissione/ricezione delle fatture elettroniche sono quelle stabilite dal provvedimento 30 aprile 2018 e successive modifiche, così come confermata è la funzione del Sistema d’interscambio (Sdi).
Le regole tecniche richiamano la possibilità di emettere fattura elettronica anche per le prestazioni di servizi nei confronti dei soggetti sammarinesi, i quali la riceveranno dal proprio ufficio tributario che a sua volta la riceverà dallo Sdi. Per i servizi, l’e-fattura sarà facoltativa anche a regime (1° luglio 2022) e potrà essere emessa in tale formato per le prestazioni territorialmente rilevanti fuori Ue, come espressamente previsto dall’articolo 20 del decreto del 21 giugno.
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Nelle transazioni tra Italia e San Marino obbligo di e-fattura solo per la cessione di beni
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 23 agosto 2021
Emissione elettronica facoltativa dal 1° ottobre Obbligo dal 1° luglio 2022
Per le prestazioni di servizi, invece, la scelta resta comunque discrezionale
A cura di Massimo Sirri Riccardo Zavatta
Ancora pochi mesi di vita per l’attuale Dm del 24 dicembre 1993 sull’interscambio con San Marino.
Dal 1° ottobre, infatti, entrerà in vigore il decreto 21 giugno 2021 (in Gazzeta ufficiale 168 del 15 luglio 2021) il quale, in conformità all’accordo del 26 maggio scorso, prevede la fatturazione elettronica nelle transazioni con l’Italia. Da quella data, quindi, gli operatori di entrambi i Paesi potranno, se vorranno, emettere le e-fatture, anziché fatture cartacee (le regole d’attuazione sono nel provvedimento 211273/2021). Dal 1° luglio 2022, l’emissione e l’accettazione delle e-fatture diventerà obbligatoria, salvo specifiche esclusioni di legge (per esempio, i soggetti nazionali in regime forfettario). L’obbligo, però, riguarderà solo le cessioni di beni, mentre, per le prestazioni di servizi rese dai soggetti nazionali, l’e-fattura sarà facoltativa anche dopo il 30 giugno 2022.
Si tratta di un aspetto che merita attenzione, perché la fatturazione elettronica per i servizi agli operatori economici sammarinesi che abbiano comunicato il proprio identificativo è riservata, a norma dell’articolo 20 del decreto, unicamente alle operazioni fuori campo Iva in quanto rilevanti fuori della Ue, per le quali è obbligatoria l’emissione della fattura ex articolo 21, comma 6-bis, lettera b), Dpr 633/1972. In tal caso, la fattura elettronica è inviata al sistema d’interscambio, che la trasmette all’ufficio tributario sammarinese che la recapita al proprio operatore, al pari di quanto avverrà per quelle relative alle cessioni di beni.
Questi limiti impongono che le prestazioni diverse da quelle di cui sopra, com’è nel caso della locazione di un immobile in Italia, non possano essere oggetto di e-fattura, salvo che l’operatore italiano non decida di utilizzare tale formato indicando sette “X” nel codice destinatario, come per tutte le transazioni con operatori esteri. In questo caso, tuttavia, la fattura elettronica “si ferma” allo SdI (adempiendo l’obbligo comunicativo dell’esterometro) e non sarà trasmessa all’ufficio tributario sammarinese, mentre l’operatore nazionale dovrà mettere a disposizione del committente estero una copia cartacea della fattura.
Le regole da applicare
Tornando alle cessioni di beni, il decreto rivisita, confermandone l’impianto, la procedura per gli acquisti da San Marino che possono essere con o senza applicazione dell’Iva in fattura (in quest’ultimo caso l’Iva è assolta in inversione contabile). Al riguardo, si osserva che, per le fatture elettroniche ricevute con addebito del tributo, il soggetto nazionale può esercitare la detrazione solo dopo aver ricevuto dalle Entrate la conferma telematica di regolarità dell’operazione, visualizzabile con i servizi di consultazione sul portale Fatture e Corrispettivi. Per le fatture cartacee continua a rilevare l’originale timbrato dall’ufficio sammarinese. In caso di mancata ricezione della fattura o di ricezione di un documento irregolare, il decreto prevede la regolarizzazione nei termini di cui all’articolo 6, comma 9-bis, Dlgs 471/97 in materia di violazioni al regime del reverse charge ossia entro il 30esimo giorno successivo alla scadenza dei 4 mesi dalla data d’effettuazione dell’operazione (in caso di mancata ricezione della fattura), data che, per le cessioni/acquisti di beni, coincide con l’inizio del trasporto/spedizione. Eventuali regolarizzazioni oltre detti termini non sarebbero più gratuite, ma si ritiene applicabile il ravvedimento operoso.
Per le vendite dall’Italia, la mancata convalida di regolarità della fattura elettronica o la mancata ricezione dell’esemplare cartaceo vidimato dall’ufficio di San Marino implicano l’obbligo di regolarizzare il documento emesso in regime di non imponibilità. La regolarizzazione avviene con nota di variazione in aumento e senza pagamento di sanzioni e interessi, se eseguita nei 30 giorni successivi allo scadere dei quattro mesi dall’emissione della fattura. Da notare che, fra le condizioni per la non imponibilità delle cessioni a operatori sammarinesi, il Dm non prevede più l’annotazione sul registro ex articolo 23, Dpr 633/72, né la redazione e presentazione del modello Intrastat delle vendite per tali operazioni (adempimento a suo tempo illustrato dalla risoluzione 83/1997). Gli unici obblighi comunicativi competono all’ufficio tributario sammarinese per le fatture cartacee emesse/ricevute da operatori economici dello Stato.
1
L’emissione
Dal 1° ottobre è possibile emettere e ricevere e-fatture per le operazioni
con San Marino. Per le cessioni di beni fra operatori economici dei due Stati, l’e-fattura diviene obbligatoria dal primo
luglio 2022. Nessun obbligo è invece previsto in caso
di prestazioni di servizi.
I soggetti nazionali
potranno emettere fatture elettroniche in relazione ai servizi extraterritoriali, come previsto dall’articolo
21, comma 6 bis,
lettera b), del Dpr 633/72
2
Iva o reverse charge
La tassazione degli acquisti da San Marino continua ad avvenire secondo le due modalità in uso: applicazione dell’Iva in fattura da parte del fornitore sammarinese o assoggettamento a reverse charge a opera del cessionario. Se il fornitore estero emette fattura elettronica con applicazione dell’imposta, l’acquirente nazionale può esercitare il diritto di detrazione solo dopo il riscontro positivo del riversamento del tributo comunicatogli dalle Entrate
3
L’imposta
Il regime di non imponibilità delle vendite a San Marino, anche se documentate da fattura elettronica, è subordinato alla verifica dell’assolvimento dell’imposta all’importazione in tale Stato. L’agenzia
delle Entrate mette a disposizione dell’operatore un canale telematico
per accertare l’esito del controllo eseguito
dall’ufficio tributario sammarinese sulla regolarità della fattura emessa elettronicamente
4
Fattura cartacea
In caso di emissione di fattura cartacea, la cessione si considera non imponibile Iva se il cedente nazionale è in possesso della fattura restituita dal cessionario estero, datata e munita del timbro a secco con lo stemma sammarinese. L’emissione del documento di trasporto è obbligatoria sia in caso di fattura elettronica sia se è emessa fattura cartacea. Ai fini della non imponibilità delle vendite a San Marino non è più richiesta la presentazione del modello Intrastat delle cessioni
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Frodi Iva, il destinatario si presume in buona fede
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore 18 agosto 2021 di Laura Ambrosi Antonio Iorio
Per la Cassazione va provata la consapevolezza di evadere l’imposta
Per la contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti l’amministrazione deve provare, anche se in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta.
A confermare il principio è la Cassazione, con l’ordinanza 22969/2021 depositata ieri. La pronuncia è importante perché concerne contestazioni molto diffuse: in presenza di cessioni e/o prestazioni realmente avvenute, se il fornitore ha commesso delle violazioni (omesso versamento d’imposte, assenza di struttura idonea eccetera) l’Agenzia, pressochè automaticamente, ritiene responsabile anche l’acquirente, riprendendo a tassazione l’Iva detratta. Salvo che l’acquirente non fornisca prova della sua buona fede, che normalmente non viene riconosciuta dagli Uffici con la conseguente necessità di intraprendere un contenzioso.
La sentenza, oltre a ribadire che l’onere probatorio in queste ipotesi incombe sul fisco e che occorre tutelare la buona fede del contribuente acquirente, ha condannato l’Agenzia, che ha proseguito il contenzioso nonostante la ripetuta soccombenza nei gradi di merito, al pagamento delle spese legali.
Nella specie, l’ufficio contestava a una società l’indebita detrazione Iva per l’asserita consapevole contabilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti. Sia in primo grado, sia in appello la rettifica era annullata per difetto di motivazione circa la consapevole partecipazione della società agli illeciti di chi aveva emesso le fatture. Nonostante la doppia soccombenza, l’ufficio ricorreva per Cassazione.
I giudici di legittimità hanno confermato la decisione favorevole al contribuente. Secondo la Cassazione, in tema di Iva quando l’amministrazione ritenga sussistenti operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti ha l’onere di fornire elementi probatori sul fatto che l’operazione non sia stata effettuata, o sia stata emessa, da un soggetto non controparte. In relazione, poi, alle operazioni soggettivamente inesistenti, sorge la tutela della buona fede del contribuente anche in applicazione della giurisprudenza Ue e, a tal fine, l’ufficio ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione di imposta.
In sostanza occorrono indizi sul fatto che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale o che comunque egli disponeva di indizi idonei a porre nell’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente. Nella specie tali elementi erano del tutto assenti e pertanto la Corte ha rigettato il ricorso dell’Agenzia.
Si spera che ulteriori pronunce della specie (e condanne alle spese legali) possano far soprassedere gli uffici da contestazioni analoghe, spesso immotivate, che comportano oneri significativi in capo ai contribuenti i quali, di sovente, hanno la sola colpa di aver intrattenuto rapporti con fornitori poi rivelatisi evasori fiscali, senza ottenere comunque alcun beneficio.
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Tassazione del trust, cambio di rotta dopo 13 anni e oltre cento Cassazioni
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore lunedì 30 agosto 2021 di Angelo Busani
L’Agenzia ha accettato che l’imposta di donazione non si applica all’atto di dotazione
La circolare sarà operativa dopo il 30 settembre al termine della consultazione
Se si toglie la questione della tassazione dell’atto di dotazione del trust, non c’è mai stato un altro caso, nella storia dell’imposta di registro e dell’imposta di donazione, nel quale siano occorse più di 100 decisioni della Cassazione, per “strappare” all’amministrazione finanziaria un documento che contenesse un’inversione di rotta rispetto a un suo precedente orientamento.
Con la pubblicazione, avvenuta l’11 agosto 2021 (si veda Il Sole 24 Ore del 12 agosto), del documento di consultazione che, dopo la scadenza del 30 settembre prossimo, diventerà una circolare “vera e propria”, il Fisco dunque ha preso atto, finalmente che non c’è più spazio per la sua originaria interpretazione, formulata all’indomani della reintroduzione, nel nostro ordinamento, dell’imposta di donazione (con il decreto legge 262/2006).
L’interpretazione iniziale
Nelle circolari dell’agenzia delle Entrate n. 48/E del 6 agosto 2007 e n. 3/E del 22 gennaio 2008, l’atto di dotazione del trust era stato inteso come un presupposto di applicazione dell’imposta di donazione: l’argomento fondante di questo ragionamento era che, avendo il legislatore aggiunto (innovando rispetto alla normativa previgente) i “vincoli di destinazione”, accanto alle donazioni, quali presupposti di applicazione dell’imposta di donazione, doveva allora discendersene che anche la dotazione del trust – il quale è, per così dire, il “principe” dei vincoli di destinazione – avrebbe dovuto essere percossa con l’imposta di donazione.
La Cassazione in un primo tempo aderì a questo orientamento, con le ordinanze 3735/2015, 3737/2015, 3886/2015 e 5322/2015 e con la sentenza 4482/2016, con ciò sconfessando l’opinione (sostenuta nella maggioritaria giurisprudenza di merito e dalla dominante dottrina) secondo cui l’incremento patrimoniale che il trustee ottiene con l’atto di dotazione del trust non avrebbe dovuto ricevere tassazione per la ragione che si tratta di un incremento non definitivo, ma transitorio, in quanto strumentale all’attuazione del programma delineato dal disponente nell’atto istitutivo del trust.
Quest’ultima tesi fece bensì un timido capolino in Cassazione (nella sentenza 21614/1016) ma senza riuscire nemmeno a scalfire l’orientamento espresso in precedenza, poiché la giurisprudenza di legittimità solo nel 2018 compì un parziale dietro-front; con la sentenza 13626/2018 e le ordinanze 31445/2018 e 734/2019 si ammise infatti che non avrebbe dovuto applicarsi l’imposta di donazione solo al trust autodichiarato (quello nel quale il disponente si auto-nomina quale trustee) e al trust traslativo con attribuzione transitoria al trustee (si pensi al trust liquidatorio, istituito al fine di gestire le spettanze creditorie verso un soggetto indebitato), restando invece applicabile l’imposta di donazione ad ogni altro tipo di trust (e così, ad esempio, ai trust di passaggio generazionale). L’agenzia delle Entrate comunque non battè ciglio e continuò con la tassazione di qualsiasi atto di dotazione del trust.
L’inversione di rotta
Si è giunti così alla terza e decisiva “fase” della giurisprudenza di Cassazione, che ebbe inizio con la sentenza 1131 del gennaio 2019 nella quale l’atto di dotazione di qualsiasi tipo di trust venne dichiarato non tassabile con l’imposta di donazione, in quanto si intese non più considerarlo in termini di manifestazione di capacità contributiva: quando la legge sull’imposta di donazione menziona i vincoli di destinazione, si deve leggere la norma nel senso di applicare l’imposta di donazione non in ogni caso, ma solo nel caso in cui l’attuazione del vincolo di destinazione produce un incremento stabile (a titolo gratuito) del patrimonio di un dato soggetto.
Di lì in avanti, fino ai giorni nostri, una travolgente valanga di pronunce di Cassazione pressoché tutte eguali, ad iniziare dalla prima decina pubblicata nei mesi di giugno e di luglio del 2019 (le sentenze 15453, 15455, 15456, 16700, 16701, 16705, 19167, 19319 e 22754 e l’ordinanza 19310) ha dunque sospinto l’Agenzia a diramare il documento di consultazione che preannuncia il superamento delle circolari 48/E/2007 e 3/E/2008.
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Il contribuente può sempre opzionare la disciplina Ue più favorevole
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore 2 settembre 2021 di Marco Piazza
La Cassazione dopo quasi 20 anni mette fine a un caso di doppia imposizione
No del Fisco a una società Uk nonostante la disciplina della circolare 151/E/2004
Una recente sentenza della Cassazione ( 20646/2021) ha riconosciuto il diritto di una società inglese a beneficiare della previsione contenuta nell’articolo 10, comma 4, lettera b) della convenzione contro le doppie imposizioni fra Italia e Regno Unito in relazione a dividendi distribuiti da una società italiana e percepiti nel 2003.
Colpisce il fatto che questo lungo contenzioso riguardi una casistica già disciplinata sul piano procedurale da una circolare (151/E del 2004) che aveva confermato la sussistenza del diritto.
L’articolo 10, comma 4, lettera b) della convenzione Italia Inghilterra stabilisce in sostanza che una società residente del Regno Unito che detiene, anche insieme a società collegate, almeno il 10% della società italiana che eroga il dividendo ha diritto a un importo pari al 50% del credito d’imposta che sarebbe spettato se il dividendo stesso fosse stato percepito da una persona fisica italiana (all’epoca 9/16 del dividendo). Il diritto è subordinato alla duplice condizione che il dividendo concorra a formare l’imponibile della società inglese e che sia applicata la ritenuta prevista dalla convenzione (5%).
Questa parte della convenzione non è più appellabile oggi perché una persona fisica residente in Italia non ha più diritto al credito d’imposta sui dividendi.
La circolare 151/E aveva illustrato le modalità di richiesta dell’importo all’erario (presentazione di una istanza di rimborso al Centro operativo di Pescara ex articolo 38 del Dpr 602 del 1973) e aveva precisato che la ritenuta del 5% doveva applicata sia sul dividendo sia sull’importo corrispondente alla metà del credito d’imposta.
La circolare aveva anche regolato il caso, che è quello in esame, in cui l’emittente (società “figlia” italiana) non avesse operato la ritenuta in uscita sul dividendo, come previsto dall’articolo 27-bis del Dpr 600/73 di recepimento della “direttiva madre-figlia”. In tal caso, precisava la circolare, la società inglese aveva ugualmente diritto al pagamento della somma prevista dalla convenzione, ma l’erario, avrebbe dovuto trattenere dall’importo erogato, la ritenuta del 5% calcolata sia sull’importo dei dividendi sia sul credito d’imposta (rimborso 21,72%).
Nonostante le chiare indicazioni degli uffici centrali Il Centro operativo di Pescara non ha accolto l’istanza della società inglese. Ne è scaturito un lungo contenzioso che si è chiuso ora. La discussione si è incentrata sulla questione (che, come si è detto era già stata risolta dalla circolare 151/E in linea con la prassi internazionale), se, in presenza di una direttiva volta ad attenuare il fenomeno della doppia imposizione economica e giuridica sui dividendi fosse consentito al contribuente che già avesse percepito i dividendi in esenzione dalla ritenuta di “scambiare” tale regime con quello del rimborso del credito d’imposta previsto dalla convenzione. La Cassazione, con una sentenza che richiama numerosi precedenti di Cassazione e della Corte di Giustizia, ha stabilito un principio che potrebbe essere valido anche in circostanze diverse da quelle in esame: ossia che non esiste, a meno che non sia espressamente previsto dalla direttiva o dalla norma convenzionale, un generale principio di “alternatività” fra le direttive e le convenzioni contro le doppie imposizioni e che quindi un contribuente che abbia inizialmente fruito degli effetti di una direttiva può, in un secondo momento, attraverso una istanza di rimborso, applicare la convenzione internazionale più favorevole.
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Criptovalute. «Gestori di fondi Esg state alla larga dai Bitcoin»
14 Settembre 2021
Il Sole 24 Ore 14 agosto 2021 di Vitaliano D’Angerio
Altissimo rischio reputazionale per gli investitori, l’allarme di Candriam
«Criptovalute e Esg: una contraddizione in termini?». Basterebbe il titolo della ricerca per aprire e chiudere il dibattito; gli analisti di Candriam (Lucia Meloni e Vincent Compiègne) hanno invece argomentato in una trentina di pagine i motivi per cui gli investitori Esg devono stare, per ora, alla larga da Bitcoin e affini: «Crediamo che le criptovalute abbiano una lunga strada da fare prima di soddisfare i criteri Esg. Fino a quando non vi sarà una seria modalità per risolvere le preoccupazioni dichiarate nel nostro documento, un investimento diretto significativo in criptovalute può causare gravi danni alla reputazione Esg di un gestore o di un investitore istituzionale».
Riciclaggio e non solo
Ma quali sono le preoccupazioni degli esperti di Candriam (140 miliardi di euro in gestione – gruppo New York Life Investments)? «Le criptovalute sono spesso usate per riciclare denaro sporco. Un rapporto di CipherTrace ha rivelato che, nel 2020, i principali furti di criptovalute, le operazioni degli hacker e le frodi hanno totalizzato 1,9 miliardi di dollari, stime che probabilmente rappresentano una piccola parte di ciò che viene effettivamente riciclato attraverso le monete virtuali, perché i criminali con maggiori risorse sono difficili da identificare».
Ecco uno degli elementi sotto accusa da parte degli analisti Esg. Senza dimenticare, viene sottolineato che «l’anonimato offerto dal mercato delle criptovalute ha permesso la diffusione di truffe ingegnose». E viene aggiunto: «Con facili trasferimenti transfrontalieri, la crescita della criminalità informatica legata alle criptovalute evidenzia l’urgente necessità di un intervento politico e di un allineamento normativo internazionale».
Energia a carbone cinese
Altro elemento evidenziato è l’attività di produzione di criptovalute, ad alta intensità di energia, e i luoghi di produzione: «Il mining (l’estrazione, ndr) di Bitcoin utilizza circa lo 0,4% del consumo energetico globale. Più ci si avvicina al limite dei 21 milioni di Bitcoin esistenti, più i puzzle (sistemi che garantiscono l’integrità dell’emissione di nuove unità) sono complessi, e richiedono energia. Secondo l’Università di Cambridge il consumo annuale di elettricità del mining di Bitcoin supera quello di alcune nazioni, e il 75% dell’estrazione globale di Bitcoin avviene in Cina, in aree in cui l’elettricità è prodotta attraverso la combustione di carbone termico». Bitcoin-Cina-carbone: un triangolo esplosivo per i cambiamenti climatici. Come può un gestore Esg giustificare l’investimento in criptovalute?
Cosa c’è da salvare
Ci sono criptovalute pulite almeno dal punto di vista ambientale? La risposta è affermativa: «Esistono le cosiddette criptovalute “non mining“, come Ripple, che non hanno bisogno del supporto di computer ad alta potenza per convalidare i blocchi delle transazioni, quindi più efficienti dal punto di vista energetico». Però anche qui vi è da risolvere un problema: «Il tipo di controlli per convalidare i blocchi di transazione di queste criptovalute pone un problema di governance. Usano infatti un sistema in cui se un’entità riesce a comprare il 51% di tutte le monete può, in teoria, tenere in ostaggio il network e i suoi stakeholder». Le criptovalute hanno veramente tanta strada da fare per diventare Esg.
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Noleggi a lungo termine, tassato in Italia il canone dei veicoli con targa estera
6 Agosto 2021
Il Sole 24 Ore 24 luglio 2021 di Antonio Veneruso
Il luogo di utilizzo può essere dimostrato su un apposito elenco
Tra le incombenze dell’impresa che utilizza in Italia un veicolo estero si annovera l’applicazione della ritenuta fiscale alla fonte a titolo d’imposta cui è soggetto l’importo del canone di noleggio corrisposto all’impresa di leasing e/o noleggio non residente.
La circolazione in Italia di veicoli con targa estera è ammessa, senza limiti di tempo, a condizione che il veicolo sia preso in leasing o a noleggio a lungo termine da un operatore economico con sede in un altro Stato Ue o See, che non ha stabilito in Italia una sede secondaria (con esclusione, dal 1° gennaio 2021, del Regno Unito).
Va ricordato, agli operatori domestici, l’obbligo di applicare la ritenuta fiscale alla fonte sul noleggio di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche, tra cui rientrano anche gli autoveicoli, utilizzati in Italia e i cui canoni sono corrisposti a favore di soggetti non residenti. Ciò in quanto in base all’articolo 23, comma 1, lettera f) del Tuir, per i soggetti non residenti si considerano prodotti in Italia, tra l’altro, i redditi diversi di cui al successivo articolo 67, comma 1, lettera h), derivanti dall’affitto, locazione, noleggio o concessione in uso nel territorio dello Stato di veicoli, macchine o altri beni mobili.
L’articolo 25, comma 4, secondo periodo, del Dpr 600/1973, stabilisce che su tali compensi si applica una ritenuta alla fonte del 30% a titolo d’imposta sull’ammontare dei compensi corrisposti a non residenti a condizione che tali beni si trovano nel territorio dello Stato, con la sola esclusione dei compensi versati a stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti.
La base imponibile dei compensi su cui applicare la ritenuta d’imposta ordinaria del 30%, è costituita dall’intero ammontare del canone corrisposto, senza riconoscimento di deduzione alcuna, così come precisato dalle entrate con la circolare 47/E/2005, considerato che per i non residenti si esclude la possibilità di dedurre le spese per la produzione del reddito, ex articolo 71, comma 2 del Tuir, consentita invece per i soggetti residenti.
Ai fini della corretta individuazione del requisito della territorialità, presupposto necessario per la tassazione dei canoni, ci viene in soccorso la circolare 47/E/2005 che evidenzia che l’utilizzatore del veicolo può dimostrare l’effettivo luogo di utilizzo del mezzo di trasporto compilando un apposito elenco in cui siano riportati i dati riguardanti gli estremi del contratto di utilizzo, la durata, il relativo importo, nonché gli elementi di individuazione che per esempio per le autovetture sono costituiti dalla targa.
Il soggetto non residente beneficiario effettivo dei canoni, può invocare l’applicazione della Convenzione per evitare la doppia imposizione stipulata tra l’Italia e lo Stato membro o See interessato, se più favorevole. Infatti, nelle Convenzioni pattizie stipulate dall’Italia, tale previsione è disciplinata dall’articolo 12 che tratta dei canoni.
A dire il vero le Convenzioni stipulate dall’Italia si discostano dal modello Ocse del 2017, in quanto per l’appunto nella definizione di canone comprendono non solo intangible assets ma anche la concessione in uso di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche.
Al riguardo, giova ricordare che il sostituto d’imposta italiano sotto la propria responsabilità, ha facoltà di applicare il regime fiscale pattizio più favorevole per le singole fattispecie reddituali (aliquota agevolata o esonero), come ricordato dalle Entrate con il provvedimento direttoriale n. 84404/2013. Quindi, se si decide per l’applicazione diretta, il sostituto d’imposta deve obbligatoriamente acquisire e verificare la corretta compilazione della documentazione prescritta dal provvedimento n. 84404/2013.
In merito alla modulistica, si evidenzia che attualmente l’agenzia delle Entrate riconosce l’utilizzo di modelli alternativi a quelli direttoriali, atteso che l’amministrazione finanziaria del Paese di residenza del beneficiario effettivo del reddito spesso rilascia l’attestato di residenza fiscale utilizzando una propria modulistica da allegare alla domanda di rimborso o di applicazione diretta della Convenzione per l’esonero o l’aliquota convenzionale. Ad ogni buon conto, l’attestazione dell’amministrazione estera contenuta nel modello ha validità a decorrere dalla data di rilascio e fino al termine del periodo d’imposta indicato nel modello stesso.
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Il lavoratore non vuole vaccinarsi? Sospensione e stop alla retribuzione
6 Agosto 2021
L’azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19. Questa volta lo ha stabilito il Tribunale di Modena, Presidente Emilia Salvatore, con l’ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio che fa il punto sui diversi diritti contrapposti in tempo di pandemia.
“Il datore di lavoro – si legge nella pronuncia – si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori”.
Il Tribunale ricorda come la direttiva UE 2020/739 del 3 giugno 2020 abbia incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra quindi tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, dettati dal Dlgs 81/2008, quello di tutelare i lavoratori da agenti di rischio esterni. Non basta più l’uso delle mascherine, come invocato dalle due ricorrenti, per proteggersi adeguatamente. Così come il datore di lavoro non è tenuto a fornire al lavoratore ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione, trattandosi di informazioni ormai notorie.
Nel caso di specie, a presentare il ricorso erano state due fisioterapiste di una RSA assunte da una cooperativa di Modena che le aveva sospese senza retribuzione a seguito del loro rifiuto di vaccinarsi. La sospensione era avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legge 44/2021 che ha imposto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, che quindi non avendo efficacia retroattiva non poteva applicarsi in questo caso.
Il Tribunale ricostruisce allora la vicenda in via generale, delineando il quadro della normativa esistente. Anche se il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può comportare però conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell’idonenità alla mansione. Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiuso vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione.
Non trova pregio neppure l’asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l’inidoneità del lavoratore alla mansione.
Il diritto alla libertà di autodeterminazione – spiega l’ordinanza- deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’articolo 41 della Costituzione.
Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l’utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.
Tutti gli studi clinici condotti finora, conclude il provvedimento, hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19. La circostanza che le autorità regolatorie abbiano autorizzato la somministrazione del vaccino a partire da 12 anni serve ad escludere la natura sperimentale dello stesso, rafforzata dal fatto che allo stato non ci sono evidenze scientifiche che provino il rischio di danni irreversibili a lungo termine.