Il socio unico può controllare l’operato dell’amministratore

10 Giugno 2025

Il Sole 24 Ore 26 Maggio 2025 di Cristina Odorizzi

È giuridicamente ammissibile, e legittimamente esperibile, da parte di un socio, detentore del 100% del capitale sociale di una società a responsabilità limitata, l’azione prevista dall’articolo 2476, secondo comma, del Codice civile, essendoci un amministratore unico nominato da tale unico socio?

L’articolo 2476 del Codice civile, rubricato «Responsabilità degli amministratori e controllo dei soci», dispone, al secondo comma, che «i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione».

Si ritiene che tale disposizione sia applicabile in tutti i casi di soci non amministratori, compresa l’ipotesi di socio unico. Infatti, la ratio della norma è quella di consentire l’accesso ai documenti sociali da parte dei soci, che, diversamente, non avrebbero modo di ottenere notizie e informazioni, non facendo parte dell’organo amministrativo. Non si vede la ragione per cui tale diritto debba essere sottratto al socio unico che non è partecipe dell’organo amministrativo.

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Superminimo mantenuto se il lavoratore è promosso

10 Giugno 2025

Il Sole 24 Ore 29 Maggio 2025 di Marcello Bonomo e Enrico D’Onofrio

L’ordinanza 11771/2025 della Corte di cassazione si innesta nell’annosa questione dell’assorbimento del superminimo, ossia l’eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito.

Secondo la giurisprudenza consolidata, infatti, il superminimo è soggetto al principio generale dell’assorbimento, ad esempio a fronte dei miglioramenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva o in caso di passaggio del lavoratore a livelli d’inquadramento superiori.

Le eccezioni al principio dell’assorbimento si possono verificare:

per effetto della contrattazione collettiva, ove quest’ultima escluda l’assorbimento relativamente a determinati istituti;

se l’emolumento è stato attribuito per particolari meriti del dipendente o per specifiche caratteristiche della sua prestazione lavorativa, con onere probatorio a suo carico;

ove le parti abbiano diversamente stabilito nella pattuizione individuale.

È proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi che, nel caso deciso dalla Corte di legittimità, è stato escluso l’assorbimento del superminimo in relazione al riconoscimento al lavoratore di un superiore livello di inquadramento.

Infatti la pattuizione individuale aveva circoscritto l’assorbimento ai casi di futuri aumenti retributivi previsti dal Ccnl, senza alcun riferimento all’ipotesi del riconoscimento di un livello d’inquadramento superiore. Per la Corte, dunque, il contenuto del patto individuale – interpretato restrittivamente e per il suo significato letterale – ha assunto rilievo decisivo nel limitare il principio di assorbimento alle sole ipotesi espressamente indicate dalle parti.

Nella prassi sono molto frequenti clausole, contenute nelle lettere di assunzione o di riconoscimento del superminimo, che correlano l’assorbimento ai futuri aumenti dei minimi tabellari, così derogando al principio generale di assorbimento ed escludendolo (ad esempio) in caso di progressione del trattamento economico derivante da un superiore inquadramento contrattuale.

Gli operatori, dunque, prima di correlare l’assorbimento del superminimo a fattispecie specifiche, dovranno valutare attentamente se ciò corrisponda all’effettiva volontà delle parti e, ove queste ultime intendano invece applicare la regola dell’assorbimento generale, sarebbe preferibile astenersi dal circoscrivere i casi di assorbimento o, quantomeno, avere l’accortezza di indicarli a titolo meramente esemplificativo.

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Il non iscritto Aire e la prova di residenza fiscale all’estero

10 Giugno 2025

l Sole 24 Ore di Emanuele Mugnaini

In caso di contestazione, da parte dell’agenzia delle Entrate, riguardante l’effettiva residenza fiscale estera di una persona fisica, non iscritta all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), l’Agenzia stessa è legittimata a chiedere l’esibizione del permesso di soggiorno nel Paese estero, dopo essere venuta già in possesso del certificato di residenza fiscale rilasciato dalle autorità fiscali di quel Paese?

Il certificato di residenza fiscale estera è un documento fondamentale per attestare la residenza fiscale di un contribuente in un Paese estero, consentendo l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia.

Tuttavia, la sola presentazione di tale certificato potrebbe non essere sufficiente per determinare in modo definitivo la residenza fiscale alla luce delle convenzioni.

L’amministrazione finanziaria può chiedere ulteriori documenti o informazioni (ad esempio, il permesso di soggiorno nel Paese estero), per verificare l’effettività della residenza fiscale dichiarata. Questo avviene soprattutto in assenza di iscrizione all’Aire, poiché tale iscrizione è un elemento che contribuisce a comprovare il trasferimento della residenza fuori dall’Italia.

In conclusione, sebbene il certificato di residenza fiscale estera sia un elemento probatorio rilevante, l’agenzia delle Entrate – in sede istruttoria, secondo l’articolo 32 del Dpr 600/1973 – può chiedere l’esibizione del permesso di soggiorno nel Paese estero, e questo per accertare l’effettività della residenza fiscale dichiarata, in conformità con le disposizioni delle convenzioni contro le doppie imposizioni e con la normativa fiscale italiana.

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Quadro RW sempre da compilare anche senza tassazione in Italia

10 Giugno 2025

Il Sole 24 Ore 15 Maggio 2025 di Enrico Holzmiller

Le persone fisiche residenti in Italia devono indicare nel quadro RW della dichiarazione dei redditi gli investimenti all’estero, le attività estere di natura finanziaria e le criptoattività (Dl 167/90, articolo 4, comma 1). Se il concetto in teoria è chiaro, l’applicazione è spesso oggetto di criticità nell’interpretazione di cosa e come debba essere, in concreto, dichiarato fiscalmente. Al riguardo, due recenti sentenze di merito hanno affrontato aspetti del quadro RW meritevoli di attenzione, fornendo un’interpretazione da tenere in considerazione.

I giudici della Cgt di primo grado di Rimini, con la sentenza 63/2025 (presidente De Cono, relatore Gasperi) sono stati chiamati a decidere su un asserita non tassabilità di redditi in Italia e correlato obbligo dichiarativo. Il caso in questione vede un contribuente Italiano, persona fisica, che non ha compilato il quadro RW, a fronte di finanziamenti considerati iuris tantum fruttiferi (senza che il contribuente avesse fornito prova contraria) a favore di società da egli partecipate aventi sede in Francia e Usa. La giustificazione del ricorrente, circa la mancata compilazione del quadro RW, si basa sulla mancata tassabilità dei redditi derivanti dagli investimenti in questione in virtù delle convenzioni bilaterali Italia/Francia e Italia/Usa, secondo le quali gli interessi maturati su crediti da finanziamento soci risulterebbero tassati solo nei Paesi sedi delle due società.

I giudici arrivano ad una conclusione contraria: il contribuente era comunque tenuto alla compilazione del quadro RW. In linea di principio, infatti, tutti i proventi esteri attribuibili sarebbero attratti fiscalmente in Italia, secondo il principio del world wide taxation ex articolo 3, comma 1, del Tuir. Ove anche, in ipotesi, le convenzioni bilaterali consentano la tassazione nei Paesi esteri, il quadro RW va compilato ai fini del monitoraggio fiscale. Inoltre – conclude la Corte – il ricorrente avrebbe dovuto comunque inserire nella propria dichiarazione tali proventi, evidenziando il vantato credito fiscale ex articolo 165 del Tuir, ove maturato.

Il quadro RW è spesso foriero di complessità compilative: su tale aspetto è intervenuta la Cgt di Cremona con la sentenza n. 36/2025 (presidente Vacchiano, relatore Grimaldi). Nel caso esaminato, la ricorrente (persona fisica italiana) avente un conto corrente cointestato all’estero, aveva indicato nel rigo RW1 (modello redditi Pf 2018), la giacenza media «pro-quota». L’agenzia delle Entrate, richiamando le circolari n. 45/E/2010 e 38/E/2013 contestava la modalità e l’ammontare dichiarato, precisando che, in caso di attività finanziarie in comunione o cointestate, l’obbligo di compilazione del quadro RW deve ritenersi gravante su ciascun soggetto intestatario con riferimento all’intero valore delle attività e con l’indicazione della percentuale di possesso. Per l’effetto, l’Ufficio aveva eccepito l’infedele dichiarazione del quadro RW.

I giudici rilevano innanzi tutto una contraddizione tra le due circolari richiamate dalle Entrate, sottolineando come la 45/E/2010 sembri fare riferimento a un’indicazione «pro-quota», differentemente dal tenore della 38/E/2013, che esplicita l’indicazione dell’intero valore. Ci sono quindi i presupposti, secondo la Corte, per richiamare le obiettive condizioni di incertezza rilevanti in base all’articolo 6, comma 2, del Dlgs 472/1997 avuto riguardo alle indicazioni, contraddittorie, nella prassi sopra richiamata.

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Antiriciclaggio Usa: sospeso il registro dei titolari effettivi

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 8 Aprile 2025 di Antonio Martino Ernesto Carile

Deregulation. Dopo un solo anno dall’entrata in vigore, il Corporate transparency act non si applicherà più alle società statunitensi

Una marcia indietro che cambia lo scenario della trasparenza societaria negli Stati Uniti. Il 21 marzo scorso il Financial Crimes enforcement network (FinCEN) ha annunciato la rimozione dell’obbligo, introdotto poco più di un anno fa, di comunicare al registro centrale i dati sui beneficiari effettivi delle società statunitensi. La misura, che sospende di fatto l’applicazione del Corporate transparency act per i soggetti americani, è coerente con la nuova linea politica dell’amministrazione Trump, ispirata a una profonda revisione del sistema antiriciclaggio.

«Troppa burocrazia per le Pmi»

Il dipartimento del Tesoro, con un comunicato firmato dal segretario Scott Bessent, ha motivato la decisione come un intervento a tutela delle piccole e medie imprese, ritenute eccessivamente gravate da obblighi formali. Ma la lettura più ampia collega la scelta direttamente al Project 2025: The conservative promise, il manifesto programmatico elaborato dalla Heritage foundation, uno dei think tank conservatori più influenti di Washington.

Nel documento – che supera le 900 pagine e ha ispirato molte delle prime misure del nuovo esecutivo – viene delineata una riforma radicale delle istituzioni federali e una strategia di deregulation estesa, con particolare enfasi sulla revisione del sistema antiriciclaggio. In tale ottica, l’abolizione degli obblighi di trasparenza per i beneficiari effettivi rappresenta un passaggio chiave.

Gli Usa «sistema non conforme»

L’istituzione del registro centrale dei titolari effettivi era stata introdotta nel 2024 in risposta alle pressioni del Financial action task force (Fatf), che già nel 2016 aveva criticato duramente il sistema statunitense, giudicato «non conforme» rispetto agli standard internazionali in materia di trasparenza societaria. Il Cta (Corporate transparency act) aveva colmato una storica lacuna del sistema americano, imponendo per la prima volta obblighi stringenti di comunicazione alle società domestiche ed estere.

Ma la nuova norma in consultazione da parte del FinCEN prevede che solo le entità estere registrate per operare negli Usa siano soggette all’obbligo di comunicazione dei titolari effettivi. Le società costituite negli Stati Uniti – e i loro beneficiari, anche se cittadini stranieri – ne sarebbero esentate. Un ritorno, in sostanza, all’opacità del passato.

Se da un lato il provvedimento è presentato come un gesto a favore della competitività e della semplificazione per le imprese americane, dall’altro rischia di compromettere l’efficacia del sistema di prevenzione dei reati finanziari, proprio nel momento in cui a livello globale si rafforza l’azione per contrastare i flussi illeciti e le strutture societarie schermate.

Il Project 2025 di Heritage foundation

Il messaggio che arriva da Washington è chiaro: meno vincoli, più autonomia. E il Project 2025, pubblicato dalla Heritage foundation in vista delle elezioni presidenziali e già riferimento politico della nuova amministrazione, contiene indicazioni molto esplicite sulla necessità di “riformare” – ovvero ridurre – le funzioni del FinCEN e l’impianto normativo dell’Aml statunitense. Proprio nel paragrafo dedicato al Tesoro si auspica la rimozione degli obblighi di trasparenza e una profonda revisione dei poteri dell’autorità di contrasto ai flussi illeciti.

La decisione statunitense è destinata a creare frizioni anche con l’Unione europea, che con la nuova direttiva Aml sta rafforzando l’architettura antiriciclaggio continentale, prevedendo un registro centralizzato europeo e obblighi stringenti per le imprese. Il rischio è quello di un disallineamento normativo tra i due blocchi, con ricadute sui meccanismi di cooperazione e sulle procedure di due diligence per gli operatori transatlantici.

In attesa dell’entrata in vigore della norma definitiva, prevista entro fine anno, appare chiaro che gli Stati Uniti si stanno allontanando da un sistema multilaterale di lotta al crimine economico.

Una scelta che, pur nel nome della semplificazione, potrebbe riaprire spazi a opacità e arbitraggi regolatori, in un contesto globale che richiederebbe, al contrario, più coordinamento e trasparenza.

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Assegni per conto altrui, paga chi firma se manca l’indicazione della delega

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 28 Aprile 2025 di Antonino Porracciolo

Il delegato alla firma di un assegno bancario risponde in proprio se al momento della sottoscrizione non aggiunge la dicitura «nella qualità», e dunque non può liberarsi dall’obbligazione cartolare prospettando di aver agito in forza di una delega che gli aveva conferito il potere di emettere il titolo.

Lo afferma la Corte di cassazione nella sentenza 8426/2025 pubblicata lo scorso 31 marzo.

La vicenda giudiziaria prende le mosse dall’opposizione a un precetto del maggio 2002, con il quale il prenditore di diversi assegni bancari aveva intimato il pagamento dei relativi importi sia alla società titolare del conto corrente, sia alla persona che aveva sottoscritto quei titoli. L’opposizione era stata proposta dal sottoscrittore, che aveva affermato che la pretesa creditoria avrebbe potuto essere avanzata solo nei confronti della società titolare del conto corrente, risultato peraltro incapiente, ma non poteva essere diretto nei suoi confronti perché semplice delegato della società.

Il Tribunale aveva accolto l’opposizione, ma la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione, ritenendo che la mancanza del timbro della società o comunque dell’inciso «quale delegato» (o «nella qualità» o similari) comportasse l’obbligo di pagamento della persona fisica firmataria degli assegni.

Gli eredi del traente hanno quindi proposto ricorso per cassazione, sostenendo che era incorso in errore il giudice di secondo grado nel ritenere che l’articolo 14 della legge assegni (regio decreto 1736/1933) imponesse al loro dante causa, per andare esente da responsabilità, di specificare di agire in forza di delega. Inoltre, hanno dedotto che lo stesso articolo 14 non richiede che la spendita del nome avvenga mediante una formale dichiarazione di agire in nome e per conto di un terzo, e comunque che la delega all’emissione di assegni in nome altrui non presuppone l’esistenza di un atto scritto o di una procura a favore del delegato.

Nel respingere il ricorso, il giudice di legittimità ricorda che l’essenza dei titoli astratti, qual è l’assegno bancario, sta nel fatto che essi non recano alcuna menzione della causa che ha dato luogo alla loro emissione; aggiunge che il diritto incorporato nel titolo di credito si trasferisce secondo le regole sulla circolazione dei beni mobili, sicché la proprietà del titolo si può acquistare anche a titolo originario in forza del possesso di buona fede, secondo la regola generale dell’articolo 1153 del Codice civile.

Da ciò discendono due (tra loro connesse) conseguenze in tema di assegni bancari tratti da conto corrente intestato a società e risultato sprovvisto di fondi.

La prima: il prenditore ha facoltà di agire esecutivamente in danno del traente che abbia apposto in calce agli assegni la sua personale sottoscrizione, a meno che dal titolo risulti che il firmatario abbia «espressamente e univocamente dichiarato di agire in nome e per conto della società correntista».

La seconda: il sottoscrittore dell’assegno che non abbia agito in nome e per conto del correntista spendendo esplicitamente il nome di quest’ultimo «è cartolarmente obbligato e non può liberarsi né allegando i rapporti causali sottostanti, né prospettando di aver agito in forza di una delega che gli aveva conferito il potere di emettere il titolo nell’interesse del terzo».

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Fisco. Italia appetibile per i ricchi e per l’arte

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 5 Aprile 2025 di Marilena Pirrelli

La flat tax attrae i miliardari stranieri, sono collezionisti che amano il bello

Perché ora l’Italia dovrebbe modificare il suo sistema normativo e fiscale legato all’arte? Perché si è a un momento di non ritorno? Il BelPaese e, in particolare, Milano è diventata una destinazione privilegiata per i migranti di lusso grazie alla flat tax sul reddito introdotta nel 2017, che prevede una tassa forfettaria annuale sui redditi esteri per i nuovi residenti, all’inizio fissata a 100mila euro e nel 2024 raddoppiata a 200mila.

Briciole per i ricchi miliardari stranieri in fuga da Londra dopo l’abolizione del regime fiscale dei «non-domiciliati», che permetteva di non pagare tasse britanniche sui redditi esteri. Il governo laburista ha poi posto termine anche all’uso di trust off hore per evitare di pagare la tassa britannica sulle successioni, pari al 40%. Insomma per i miliardari stranieri è la fine del paradiso fiscale britannico.

È aperta la caccia a paesi fiscalmente vantaggiosi. Il magnate indiano dell’acciaio Lakshmi Mittal, potrebbe trasferirsi in Italia, in competizione con destinazioni come Emirati Arabi Uniti e Svizzera. Il nostro Paese si stima abbia già attratto 4.500 Hnwi: è sotto gli occhi di tutti la domanda di immobili di lusso e l’impatto sui prezzi, con effetto domino sino alla periferia a Milano. Questi ricchi signori spessissimo amano l’arte e ne collezionano e sarebbero disposti a trasferire in Italia le loro collezioni. Anche il grande collezionista Bernard Arnault, presidente e ceo di Lvmh, ha acquisito la storica Casa degli Atellani a Milano in Corso Magenta e potrebbe, secondo i ben informati, trasferire qui residenza e domicilio fiscale. Anche la sua collezione? Chissà.

Non a caso diverse gallerie straniere hanno fiutato l’aria e stanno aprendo a Milano, dov’è in corso Miart con l’Iva sulle transazioni al 22% e al 10% sull’import. E se da queste pagine abbiamo sempre sostenuto che l’Iva ridotta sull’arte è una richiesta sacrosanta perché l’arte è un prodotto culturale (i libri hanno l’Iva al 4%), è bene anche non nascondere le evidenze: la flat tax, la nuova politica britannica e l’esercizio della Delega di rimodulazione dell’Iva (dall’ordinaria alla ridotta) che scade ad agosto. Ecco la necessità di rendere subito la circolazione dell’arte più libera in Italia – ne entrerebbe tanta – e di ridurre l’Iva sugli scambi (si chiede il 5%) per essere più competitivi in Europa – la Francia l’ha ridotta al 5,5% e la Germania al 7% – promuovendo valore e volumi delle transazioni e di riflesso del gettito. Il Ministro della Cultura Alessandro Giuli ha dichiarato la scorsa settimana che la riforma si farà, ci sono le copertura e la convergenza con il Mef. La maggioranza al suo interno pare compatta. Si sta cercando il veicolo dove inserire la riforma, sperando sia ampia. Gli operatori del mercato dell’arte sono fiduciosi. Se il governo ha deciso di rendere l’Italia appetibile fiscalmente ai ricchi perché non renderla tale anche per l’arte. Coerenza lo richiederebbe, questo sì che porterebbe lavoro e risorse al sistema dell’arte, artisti e musei compresi.

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Prestazione di servizi, il pagamento determina il termine per versare l’Iva

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 25 Aprile 2025 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce

Nelle prestazioni di servizi, il pagamento del corrispettivo non identifica il fatto generatore dell’Iva, che si è già verificato al momento dell’esecuzione, ma determina l’esigibilità dell’imposta, ovvero il termine ultimo entro il quale l’Iva va pagata all’erario e occorre fatturare. Se l’Amministrazione finanziaria contesta al prestatore l’omessa fatturazione dei servizi in questione deve anche provare che il pagamento, pure per equivalente, è avvenuto oppure che il contribuente ha l’intenzione di evadere l’imposta.

Con la sentenza n. 10693 di ieri la Cassazione pone un ulteriore tassello all’interpretazione dell’articolo 6, comma 3, del decreto Iva sulla dicotomia fatto generatore-esigibilità dell’imposta in riferimento ai servizi. La norma secondo cui «le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo» aveva posto un problema di compatibilità con la disciplina unionale che, identificando il fatto generatore dell’imposta con l’esecuzione della prestazione, consente agli Stati membri di stabilire che l’imposta diventi esigibile con l’incasso del corrispettivo. L’interpretazione della giurisprudenza unionale e interna ha fatto salva la norma interna, intendendo la stessa con esclusivo riferimento all’esigibilità dell’imposta, in quanto ove la norma si riferisse al fatto generatore dovrebbe considerarsi incompatibile con il diritto UE (Corte UE, sentenza C-144/94 e Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 8059/16).

In altre parole, sul piano Iva esistono due momenti: i) il fatto generatore dell’imposta (che determina l’imponibilità dell’operazione che è indice di capacità contributiva) da cui scaturisce l’obbligazione tributaria e gli altri obblighi, compreso quello di fatturazione, a essa collegati; ii) l’esigibilità, da intendersi come momento ultimo in cui l’erario ha diritto a riscuotere l’imposta (estremo limite temporale per l’adempimento). Se, in teoria, questi due momenti dovrebbero coincidere, nella pratica, in riferimento alle prestazioni di servizi, il fatto generatore dell’imposta sorge con l’esecuzione della prestazione anche se il versamento dell’imposta, nonché la fatturazione, è possibile fino al pagamento del corrispettivo.

Ma quali effetti sull’obbligo di versamento dell’Iva può avere il mancato pagamento? In questo caso – ed è forse questo il punto che richiede maggiore attenzione della sentenza – se il Fisco non dà prova, anche solo sulla base di elementi presuntivi, che il pagamento in realtà è stato compiuto, anche per equivalente, oppure che esiste un intento del contribuente di sottrarsi all’adempimento dell’obbligo di fatturare e di assolvere l’Iva, non può contestarsi l’omessa fatturazione. Il fatto che dalla contabilità emergano prestazioni di servizi, dapprima in un conto «fatture da emettere» e poi in un conto relativo a crediti da riscuotere, non è un elemento sufficiente per riscuotere l’Iva non versata mancando l’incasso del corrispettivo.

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Se l’assemblea della Srl si è svolta senza convocazione

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 26 Aprile 2025 di Cristina Odorizzi

Sono amministratore unico di una Srl. Vorrei sapere se l’assemblea riunitasi lo scorso anno alla presenza di tutti i soci, rappresentanti l’intero capitale sociale, che ha deliberato l’approvazione del bilancio con la maggioranza dei presenti, possa essere considerata regolarmente costituita anche in mancanza dell’invio della comunicazione con raccomandata con avviso di ricevimento, come è previsto dallo statuto.

L’assemblea è valida anche in assenza di convocazione se ha le caratteristiche per essere considerata totalitaria. In particolare, per quanto attiene alle Srl, l’articolo 2479-bis del Codice civile prevede che «in ogni caso la deliberazione s’intende adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento».
Pertanto, l’assemblea tenutasi lo scorso anno in assenza di convocazione, ma con la presenza dell’intero capitale sociale e dell’organo amministrativo al completo, è validamente tenuta, ex articolo 2479-bis, del Codice civile.

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Imposte all’estero, sì alla detrazione anche se il credito è stato omesso

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 28 Aprile 2025 di Davide Settembre

Il contribuente ha diritto a detrarre l’imposta pagata all’estero anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni. Lo hanno affermato i giudici della Corte di giustizia tributaria del Lazio con la sentenza n. 7484/13/2024 (presidente e relatore Passero), allineandosi ai principi recentemente espressi dalla Corte di Cassazione.

La vicenda

Nel caso esaminato dai giudici laziali, una società chiedeva il rimborso delle imposte versate sui proventi percepiti all’estero in base alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Grecia.

Formatosi il silenzio-rifiuto, la società proponeva ricorso dinanzi la Ctp che lo accoglieva, ritenendo, tra l’altro, che il diritto alla detrazione doveva essere riconosciuto anche se il credito non era stato indicato dalla ricorrente nella dichiarazione dei redditi, come richiederebbe l’articolo 165 del Tuir.

L’appello dell’ufficio veniva accolto, ma la società ricorreva in Cassazione.

I giudici di legittimità accoglievano il ricorso e cassavano la sentenza con rinvio, sostenendo che i giudici di appello con una affermazione meramente apodittica si erano limitati a condividere astrattamente l’operato dell’ufficio. La società riassumeva così il giudizio in appello.

La decisione

I giudici di appello hanno accolto il ricorso in riassunzione, ricordando in primis che il diritto alla detrazione delle imposte assolte all’estero trova fondamento sia nell’articolo 165 del Tuir che nell’articolo 24 della Convenzione Italia-Grecia in base al quale, se il contribuente assoggetta a tassazione nel proprio paese gli elementi di reddito percepiti all’estero, deve dedurre dalle imposte così calcolate l’imposta sui redditi pagata in Grecia.

In particolare, i giudici hanno affermato che, sulla base dell’analisi delle clausole dei contratti sottoscritti in relazione ad alcuni progetti, la ricorrente si era impegnata a fornire il know-how necessario alla realizzazione delle opere e servizi previsti. Pertanto, i redditi percepiti dalla ricorrente dovevano essere inquadrati nella categoria delle royalty. Conseguentemente, tali redditi erano stati correttamente assoggettati alla ritenuta convenzionale del 5% dai committenti greci della società e ciò, in virtù del citato articolo 24, dà luogo al riconoscimento di un credito. Peraltro, la qualificazione dei redditi quali royalties era stata ritenuta corretta dallo stesso ufficio in sede di accertamento di adesione con riferimento all’annualità 2008.

Infine, i giudici hanno evidenziato che, sulla base della recente sentenza della Corte di cassazione n. 24160 del 2024, la detrazione delle imposte assolte all’estero deve essere riconosciuta anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia, come nel caso esaminato, una convenzione contro le doppie imposizioni. In sostanza gli accordi internazionali prevalgono sulle norme interne, salvo queste siano concretamente più favorevoli al contribuente.

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