Vecchi paradisi addio, Svizzera e Monaco aprono gli archivi

6 Ottobre 2022

Il Sole 24 Ore 4 settembre 2022 di Valerio Vallefuoco

LA COOPERAZIONE

La cooperazione amministrativa fiscale internazionale ormai è una realtà ineludibile di cui contribuenti e consulenti non possono più non tenere conto. La normativa antiriciclaggio già dal 2012 con le raccomandazioni GAFI-FAFT hanno considerato nel novero dei reati presupposto al riciclaggio e autoriciclaggio i reati tributari rilevanti ai fini delle segnalazioni di operazioni sospette. Inoltre i Paesi non trasparenti e non cooperanti possono essere inseriti nelle cosiddette black list o grey list sempre ai fini antiriciclaggio, inserimento che comporta che tutte le operazioni finanziarie da e per questi Stati vengono considerate ad alto rischio dagli intermediari finanziari e assicurativi. Nemmeno le nuove tecnologie come le criptovalute e gli Nft sfuggono ormai ai controlli antiriciclaggio: tutti gli exchanger e i prestatori di servizi in valuta virtuale comunque denominati sono tenuti alla normativa antiriciclaggio e la compliance fiscale dei portafogli virtuali è uno dei principali requisiti di regolarità.

Gli accordi internazionali sullo scambio di informazioni intanto stanno funzionando, come dimostrano le dinamiche del rapporto tra Italia e Svizzera. L’amministrazione finanziaria della Confederazione e quella italiana scambiano informazioni sulle posizioni finanziarie detenute da specifici contribuenti oltralpe. In particolare la collaborazione è centrata sul periodo immediatamente precedente e successivo alla decorrenza dell’accordo sullo scambio di informazioni su richiesta e “di gruppo” e a quello sullo scambio automatico. Il primo accordo (Protocollo di Milano) è del 23 febbraio 2015 e modifica la Convenzione contro le doppie imposizioni tra i due Stati e della roadmap contestualmente firmata sulle questioni fiscali e finanziarie. Quest’ultima prevedeva la possibilità per l’agenzia delle Entrate di presentare alle autorità svizzere le cosidette richieste di “gruppo” riferite a particolari contribuenti “recalcitranti” che fra la data della firma del Protocollo e l’entrata in vigore dello scambio automatico di informazioni (1° gennaio 2017) avessero assunto comportamenti di ostruzione verso il Fisco italiano. Dando piena attuazione questi accordi l’Agenzia ha effettuato richieste di gruppo riguardante i conti detenuti dai residenti in Italia presso gli istituti bancari elvetici dal 23 febbraio 2015 al 31 dicembre 2016.

L’oggetto della richiesta riguarda tutti i contribuenti che, per eludere o aggirare il futuro scambio automatico di informazioni hanno chiuso i loro conti correnti in Svizzera in tale periodo con prelievi massicci ovvero anche attraverso bonifici internazionali verso Paesi considerati in quel periodo dalla Svizzera non black list (ad esempio, paesi Ue, Emirati Arabi , Hong Kong, Bahamas e Singapore). L’accertamento su questi canali internazionali in Italia è per lo più affidato all’Ufficio per il contrasto degli illeciti internazionali (Ucifi) che sta analizzando tutte le posizioni arrivate e sta controllando tutte le posizioni che non risultano aver aderito alla procedura di voluntary disclosure.

La questione in Svizzera è stata al centro di diversi ricorsi sulla fondatezza della richiesta di informazioni italiana, contestando che era da considerarsi nella sostanza un sorta di richiesta esplorativa di pesca a strascico (fishing expedition). Più volte però il tribunale Federale svizzero (sentenze 2C_904/2015 dell’8 dicembre 2016 e di recente 2C_73/2021 del 27 dicembre 2021) ha respinto tali eccezioni sulla base degli accordi internazionali, sulla rilevanza e pertinenza dei dati richiesti, sulla sufficiente specificità della richiesta e infine sulla circostanza che erano state esaurite tutte le procedure di controllo interno in Italia.

Risulta che simili richieste siano state effettuate anche per lo stato di Monaco, Dubai e diversi altri Stati contenuti nella black list italiana che hanno stipulato accordi di scambio di informazioni del medesimo tenore della Svizzera. Quest’ultima pur cooperando attivamente non è stata ancora espunta dalla black list delle persone fisiche, cosa che è ormai considerata un’anomalia da tutti gli esperti del settore. Alla luce dello stato attuale della cooperazione amministrativa internazionale, pertanto al contribuente “recalcitrante” non rimane che avvalersi delle procedure conciliative spontanee di regolarizzazione previste dal nostro ordinamento che prevedono ancora una riduzione significativa delle sanzioni amministrative e la non punibilità per chi ancora non è stato raggiunto da un accertamento.

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Rinunce ai crediti dei soci da formalizzare con cura per allargare la base Ace

6 Ottobre 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 5 settembre 2022 di Fabio Giommoni e Giorgio Gavelli

Serve una comunicazione esplicita altrimenti si genera una sopravvenienza attiva

Secondo la Cassazione, l’enunciazione fa scattare il prelievo del 3 per cento

Per far fronte alla sottocapitalizzazione delle società italiane – aggravata anche dalle perdite causate dalla pandemia – una delle soluzioni più immediate è quella della rinuncia da parte dei soci ai crediti per finanziamenti già erogati alla società per sopperire alle necessità finanziarie di quest’ultima. Tale operazione comporta anche un beneficio ai fini dell’Ace in quanto «la rinuncia incondizionata dei soci al diritto alla restituzione dei crediti verso la società» rileva come incremento del capitale proprio (articolo 5, comma 2, Dm 3 agosto 2017).

L’impatto contabile

Dal punto di vista giuridico si tratta di una remissione di debito (articolo 1236 del Codice civile) che non richiede una forma specifica; tuttavia, la formalizzazione per iscritto della rinuncia è più che opportuna in base alle regole contabili e fiscali. In base al principio Oic 28, se la rinuncia del credito da parte del socio è finalizzata ad un rafforzamento patrimoniale della società (come generalmente avviene), il debito oggetto di rinuncia deve essere contabilmente trasformato in una posta patrimoniale, senza incidere a conto economico.

Il paragrafo 36 del principio contabile dispone che la volontà del socio deve essere desumibile dalle «evidenze disponibili» e dunque occorre una comunicazione scritta in cui il socio esplicitamente rinuncia al credito, indicando le ragioni che stanno alla base di tale decisione. In ambito fiscale la nuova disciplina introdotta dal Dlgs 147/2015 e contenuta nell’articolo 88, comma 4-bis del Tuir, prevede che costituisce sopravvenienza attiva per la società il valore del credito rinunciato per la quota eccedente il valore fiscalmente riconosciuto dello stesso in capo al socio.

Disallineamento da tassare

Poiché la società è estranea alle vicende che hanno comportato l’eventuale disallineamento in capo al socio tra valore nominale e fiscale del credito (ad esempio per acquisto da terzi del credito ad un prezzo inferiore al nominale o per svalutazione deducibile del credito), la norma prevede:

che il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio (Dpr 455/2000), debba comunicare alla società il valore fiscale del credito;

in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero, con la conseguenza che la società beneficiaria assoggetterà a tassazione l’intero importo della sopravvenienza attiva.

Con la risoluzione 124/E/2017 è stato chiarito che queste regole non si applicano ai crediti vantati verso una società partecipata da soggetti non imprenditori (persone fisiche), per i quali non potrebbero sussistere, secondo l’Agenzia, differenze tra valore nominale e fiscale del credito.

Pertanto, il socio persona fisica non esercente attività di impresa non sarebbe tenuto agli obblighi di comunicazione del valore fiscale del credito. È comunque necessaria la formalizzazione per iscritto della rinuncia, anche se va prestata particolare attenzione alle conseguenze che questa potrebbe produrre ai fini dell’imposta di registro.

Il prelievo sull’atto di rinuncia

Infatti, sebbene l’atto di rinuncia al credito dovrebbe scontare, di per sé, imposizione fissa di registro (in quanto assimilato a un conferimento in denaro a favore della società o, comunque, ad un «atto proprio della società»), l’indicazione dell’esistenza di un finanziamento soci (ad esempio in sede di ricostituzione del capitale per perdite) può far scattare l’imposta proporzionale del 3 per cento. Secondo un oramai consolidato orientamento della Cassazione, qualora il contratto di finanziamento (anche se formato per scambio di corrispondenza) sia “enunciato”, ai sensi dell’articolo 22, comma 1, del Dpr 131/1986, in atti soggetti a registrazione in termine fisso (atti pubblici o scritture private), allora si applica l’imposta proporzionale del 3% sull’importo del finanziamento.

È dunque opportuno che la rinuncia al finanziamento sia effettuata esclusivamente per Pec o per scambio di corrispondenza (tassabile solo in caso d’uso), mentre è bene evitare anche il verbale di assemblea ordinaria perché secondo un (isolato) intervento della Cassazione (sentenza 1951/2019) anche l’indicazione in tale atto comporterebbe la tassazione al 3 per cento.

Da tenere presente che tutte queste problematiche si pongono solo nel caso di socio persona fisica non esercente attività di impresa, perché se il socio è un imprenditore il finanziamento rientra nel campo Iva (in regime di esenzione, articolo 10, Dpr 633/1972), per cui opera il principio di alternatività con l’imposta di registro (con conseguente tassazione a imposta fissa).

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I contanti versati dal socio con redditi esigui fanno scattare l’avviso

6 Ottobre 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 19 settembre 2022 di Marco Nessi e Roberto Torelli

Presunzione legittima, spetta poi al contribuente provare la disponibilità

È fondato l’avviso mediante il quale, in presenza di finanziamenti in contanti effettuati dai soci non aventi capacità finanziaria, l’ufficio presume l’esistenza di ricavi in nero non dichiarati dalla società finanziata. È questa la conclusione della Ctr Puglia n. 1856/26/2022 (presidente Ventura, relatore Mercurio).

Nel caso esaminato, nel corso di una verifica fiscale avviata nei confronti di una società di capitali a ristretta base sociale, veniva riscontrata l’esistenza di versamenti in contanti (indicati nel conto «soci c/finanziamento infruttifero») effettuati dai soci per i quali, di conseguenza, non vi erano riscontri documentali tali da garantirne la relativa provenienza. Secondo l’agenzia delle Entrate, questo versamento, anche in considerazione della situazione reddituale dichiarata dai soci finanziatori (considerata non congrua rispetto a questi versamenti), costituiva un mero espediente contabile finalizzato all’occultamento di ricavi.

In primo grado i giudici accoglievano il ricorso della società. L’ufficio appellava la sentenza, ribadendo le proprie pretese e la Ctr ha accolto il ricorso, richiamando la giurisprudenza della Cassazione (sentenza 19780/2020 e ordinanza 1151/2022), in base al quale il finanziamento effettuato dai soci di una società a ristretta base sociale deve essere valutato con particolare attenzione in quanto premonitore di un possibile comportamento evasivo.

Ciò vale, in particolare, nell’ipotesi in cui il finanziamento provenga da soci che hanno dichiarato redditi esigui. Infatti, nel caso di una società di capitali a ristretta base sociale, la sola esiguità dei redditi dichiarati dai soci finanziatori consente all’ufficio di poter riqualificare i finanziamenti effettuati dai soci come utili non contabilizzati dalla società.

A fronte di ciò è onere del contribuente provare la provenienza del denaro oggetto del finanziamento e dimostrare l’esistenza di una disponibilità finanziaria sufficiente a effettuare i finanziamenti. Nel caso di specie questa prova non era stata fornita: i versamenti contestati erano stati effettuati in contanti da parte dei soci in assenza di capacità reddituali ed economiche.

La sentenza in esame conferma il filone interpretativo che, per le società di capitali a ristretta base sociale, ammette la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili (da ultimo, ordinanza n. 759/2022 e n. 4237/2022). L’orientamento non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e reciproco controllo dei soci nella gestione sociale (Cassazione n. 1947/2019). Un principio, quest’ultimo, che è stato anche riconosciuto nei confronti delle società di persone a ristretta base familiare (n. 30098/2018).

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Formazione esente Iva se rilevante in Italia

6 Ottobre 2022

Il Sole 24 Ore 24 settembre 2022 di Anna Abagnale Benedetto Santacroce

L’attività deve essere svolta da enti riconosciuti territorialmente

Per l’esenzione non vale il mutuo riconoscimento sul piano europeo

Attività di formazione esenti solo se territorialmente rilevanti in Italia ed eseguite da enti ivi riconosciuti.

Non vale ai fini del regime Iva di esenzione il principio del “mutuo riconoscimento” sul piano europeo.

La risposta a interpello di ieri, 469/2022 risponde a un articolato quesito riguardo al trattamento Iva da applicare alle attività formative, nonché a diverse prestazioni accessorie, che una società italiana eroga all’interno dell’Unione europea nei confronti sia di soggetti passivi d’imposta sia di consumatori finali.

Volendo semplificare, nel caso in cui la società svolge la prestazione formativa, occorre verificarne innanzitutto la territorialità applicando le regole dell’articolo 7-ter e 7-quinquies del Dpr 633/72.

Pertanto, le suddette prestazioni didattiche materialmente effettuate dalla società in uno Stato estero:

non rilevano in Italia se rese a favore di un privato consumatore (B2C);

rilevano in Italia se il committente è un soggetto passivo Iva (B2B), con la possibilità, se ne sussistono i presupposti, di applicare il regime di esenzione di cui all’articolo 10, comma 1, n. 20, Dpr 633/1972. Al riguardo, precisa l’Amministrazione, per usufruire del regime di esenzione, occorre che le prestazioni didattiche eseguite all’estero siano «del tutto assimilabili» a quelle per le quali la società ha ottenuto il riconoscimento in Italia.

Laddove, invece, la società italiana ha un ruolo, per così dire, «secondario» rispetto alla formazione erogata da un ente estero (ad esempio svolge prestazioni di iscrizione dei partecipanti ed altre prestazioni opzionali), le Entrate negano il regime di esenzione.

Il motivo non risiede nel fatto che mancherebbe il nesso di accessorietà.

Sul punto, l’Agenzia richiama la circolare 37/E/2011, la quale aveva chiarito che, nell’ambito dei servizi di cui all’articolo 7-quinquies , per qualificare una prestazione di servizi quale accessoria rispetto a quella principale, si prescinde dall’identità dei soggetti coinvolti nell’operazione principale e in quella accessoria (a differenza di quanto richiesto ai sensi dell’articolo 12 Dpr 633/1972).

Piuttosto, il problema risiede nel fatto che trattasi di prestazioni accessorie erogate nei confronti di un ente di formazione riconosciuto all’estero, ma non anche in Italia.

Al riguardo, le linee guida del 97° comitato Iva del 7 settembre 2021 avevano chiarito che lo Stato membro che stabilisce le condizioni per l’applicazione dell’esenzione di cui all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i) della direttiva Iva (recepito all’articolo 10, comma 1, n. 20), Dpr 633/1972) è lo Stato membro in cui la prestazione di formazione o insegnamento è territorialmente rilevante.

Su tali basi l’Agenzia conclude affermando che il “riconoscimento”, quale requisito soggettivo dell’esenzione Iva delle attività formative, non può essere mutuato dal committente estero, rilevando solo quello accordato dalle competenti autorità italiane.

In altre parole, il riconoscimento concesso ad un ente di formazione in uno Stato membro non avrebbe valenza anche nei confronti degli altri Stati membri.

Di conseguenza, ove la prestazione sia territorialmente rilevante in Italia, è soggetta al regime ordinario di tassazione Iva.

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Credito sui dividendi esteri alle persone fisiche residenti

6 Ottobre 2022

Il Sole 24 Ore 27 settembre 2022 di Luca Ferrari

Nonostante gli utili siano soggetti a ritenuta d’imposta o a imposta sostitutiva

Necessaria la certificazione dell’autorità fiscale straniera che attesti il pagamento

Riconosciuto alle persone fisiche residenti il credito per le imposte pagate all’estero sui dividendi distribuiti da società non residenti e relativi a partecipazioni non qualificate, nonostante gli stessi siano assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta o a imposta sostitutiva. Questo il principio di diritto affermato con la sentenza 25698/2022 dalla sezione tributaria della Corte di cassazione.

Il credito per le imposte pagate all’estero è lo strumento utilizzato dall’ordimento tributario italiano per eliminare la cosiddetta doppia imposizione giuridica internazionale che si verifica quando un medesimo componente di reddito è assoggettato a imposizione in capo allo stesso contribuente in più Stati.

I dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti e relativi a partecipazioni non qualificate (e, a partire dal 2018, anche a quelli relativi a partecipazioni qualificate) sono assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta con aliquota del 26% da applicarsi da parte dell’intermediario che interviene nella riscossione degli stessi o, in mancanza di intermediario, a imposta sostitutiva con la medesima aliquota in sede di dichiarazione dei redditi.

In base alla disciplina interna in materia di credito per le imposte pagate all’estero, i redditi di fonte estera danno diritto a tale credito a condizione che questi siano inclusi nel reddito complessivo del contribuente (condizione che non si verifica, ad esempio, qualora gli stessi siano assoggettati, come i dividendi esteri, a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva).

In relazione ai dividendi esteri, il contribuente non ha alcuna possibilità di farli concorrere al reddito complessivo e, pertanto, secondo la normativa interna, a far valere il credito d’imposta.

Tuttavia, la maggior parte delle convenzioni contro le doppie imposizioni concluse dall’Italia (compresa quella stipulata con gli Stati Uniti, oggetto del caso esaminato dalla Suprema Corte) prevedono l’obbligo per l’Italia di riconoscere il credito d’imposta, fatto salvo il solo caso in cui il componente di reddito sia assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta su richiesta del contribuente.

In caso di dividendi di fonte estera l’assoggettamento a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva non è rimessa ad un’opzione del contribuente. In tale situazione, si è in presenza di un contrasto tra la normativa interna e quanto previsto dalla disciplina convenzionale che, secondo i principi generali dell’ordinamento italiano, dovrebbe risolversi a favore di quanto previsto dalla normativa pattizia. Nonostante ciò, l’Amministrazione finanziaria ha sino a oggi sempre negato la spettanza del credito d’imposta estero in relazione ai dividendi esteri percepiti da persone fisiche residenti, facendo così prevalere la normativa interna rispetto a quella convenzionale.

Ora, la Cassazione, con la sentenza 25698/2022, ha chiaramente affermato il diritto al credito d’imposta a favore delle persone fisiche residenti sui dividendi esteri, salvo il caso in cui il trattato contro le doppie imposizioni concluso con lo Stato estero preveda espressamente che il credito non sia riconosciuto anche nel caso in cui il componente di reddito sia assoggettato obbligatoriamente a ritenuta a titolo d’imposta.

In merito alla documentazione idonea a comprovare il pagamento delle imposte all’estero, i Supremi giudici hanno indicato, oltre alla dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero (qualora questo adempimento sia previsto), una certificazione rilasciata dall’autorità fiscale estera che attesti il predetto pagamento oppure una certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi, accompagnata o dalla ricevuta di versamento delle imposte pagate da tale soggetto o dall’indicazione e prova del fatto che, in base alla normativa straniera, lo stesso soggetto sia obbligato al versamento.

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Corsi online, imposta da pagare nel luogo di residenza del cliente

12 Settembre 2022

Il Sole 24 Ore 5 agosto 2022 di Paolo Parodi e Benedetto Santacroce

AGENZIA/CONSUMATORE FINALE

Nuovo intervento dell’agenzia delle Entrate sul tema della territorialità Iva nel settore della formazione online, con molte conferme ma anche con talune conclusioni foriere di criticità sia sotto il profilo concettuale sia in termini di operatività.

Il caso affrontato con la risposta ad interpello 409/2022 riguarda diverse tipologie di corsi di formazione, della durata di alcuni giorni, resi dalla società a distanza sia a favore di soggetti “business” che di consumatori finali. I corsi consentono l’interazione fra i docenti e i partecipanti e i docenti svolgono la loro attività in luoghi diversi, mediante il canale elettronico. L’Agenzia osserva che, considerando la possibilità di interazione fra docente e discenti, la qualificazione del servizio prestato non rientra nella nozione di «servizio prestato tramite mezzo elettronico» di cui all’articolo 7 del regolamento Ue 282/11. Il passaggio successivo, al fine di valutare l’applicabilità o meno delle deroghe fissate dall’articolo 7-quinquies, è costituito dalla necessità di distinguere le fattispecie in cui il committente sia un soggetto business (B2B) rispetto alle situazioni in cui il committente sia un consumatore finale (B2C). Per i corsi online verso soggetti business, non essendovi accesso in luogo fisico ove si svolge la formazione, trova applicazione la regola generale dell’articolo 7-ter: la territorialità Iva è nel Paese del committente e sarà questo ad assolvere l’imposta nel proprio Paese. Per i corsi verso consumatori finali opera invece la deroga dell’articolo 7-quinquies e dunque la territorialità Iva è nel Paese ove si svolge la formazione. Ma qui sorge la criticità interpretativa: qual è il luogo ove si svolge la formazione? La soluzione prospettata dalla società istante era quella di ritenere che le prestazioni devono considerarsi «materialmente eseguite» nel luogo ove sono fornite dal gestore della piattaforma, vale a dire nel luogo della sede delle attività economiche. L’Agenzia, invece, non ha accolto tale soluzione, ritenendo che i corsi B2C assumano rilevanza territoriale nel luogo di residenza del cliente. A sostegno dell’interpretazione, l’Agenzia richiama le linee guida approvate dal Comitato Iva nella riunione 118 del 19 aprile 2021, per i servizi consistenti in sessioni interattive filmate e trasmesse in tempo reale via internet (ad esempio, video-chat), nonché le modifiche operate dalla Direttiva Ue 2022/542 all’articolo 54 della Direttiva Iva, paragrafo 1, in relazione alle trasmissioni in streaming.

L’assimilazione della formazione online con interazione alle sessioni filmate o alle trasmissioni in streaming non appare pienamente condivisibile e comunque, nei casi in esame, genera non poche difficoltà operative per il fatto che il prestatore deve essere in grado di assolvere l’Iva nei diversi Paesi di stabilimento degli utenti.

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Due residenze e cittadinanze non fermano l’accertamento

12 Settembre 2022

Il Sole 24 Ore 12 agosto 2022 di Massimo Romeo

Dirimente la verifica sull’effettiva presenza e sulle attività svolte

Il possesso della doppia cittadinanza e della doppia residenza non elimina tout court la pretesa del fisco italiano. Un cittadino con cittadinanza e residenza italiana e ucraina, impugnava l’avviso di accertamento all’esito di un’ indagine delle Dogane relativa a spese non compatibili con la dichiarata assenza di redditi in Italia.

Fra i motivi, il ricorrente eccepiva la residenza fiscale in Ucraina e precisava che l’attività in Italia era solo a scopo perlustrativo. I giudici di prime cure accoglievano il ricorso osservando che la questione assorbente riguarda stabilire se il ricorrente fosse o meno residente in Italia; in tal senso, la Ctp riteneva che dalla documentazione prodotta risultava che il ricorrente (e il coniuge), non era residente in Italia, fatto dimostrato dal certificato doganale dei transiti. L’Ufficio, sia in primo grado che in fase di proposizione dell’appello, aveva precisato che se un soggetto non è residente paga in Italia solo per i redditi ivi prodotti, mentre se è residente paga per i redditi ovunque prodotti. Nel caso di specie, l’Agenzia puntualizzava che il ricorrente aveva: a) il centro degli interessi in Italia, b) la residenza italiana; c) conti correnti e una vettura intestata; d) investimenti patrimoniali effettuati dalla moglie.

La Ctr, pur con differente risultato, condivide il modus procedendi ritenendo che dirimente rispetto sia l’accertamento dell’assoggettabilità del ricorrente al sistema tributario italiano. Il Collegio osserva che, a prescindere dalle evidenze riscontrate dall’Ufficio come pure dalle contrapposte ragioni, a risolvere il contrasto interpretativo sul “se” e “quando” un soggetto debba considerarsi fiscalmente residente in Italia, è ancora intervenuta la Suprema corte che con l’ordinanza del 18 gennaio 2022 (n. 1355) ha stabilito che «le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dal Dpr 1986/917, articolo 2, in ogni caso residenti, e, pertanto, soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».

Pertanto, considerato che il dato formale della residenza anagrafica in Italia non era stato contestato dal ricorrente, né risultava la stessa essere stata sospesa dall’iscrizione all’Aire, si doveva concludere che il contribuente fosse soggetto alla normativa tributaria del Paese di cui era anche cittadino (Italia). A fronte delle spese e degli investimenti accertati, il ricorrente non aveva contestato la correttezza delle imputazioni trincerandosi dietro a considerazioni poco plausibili (quali quelle afferenti agli oneri di casa) o a generici rinvii a prassi estere di poca presa (l’assenza, nell’ordinamento ucraino, di obblighi di tracciabilità delle movimentazioni di denaro).

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Partita Iva italiana anche con residenza UK

12 Settembre 2022

Il Sole 24 Ore 17 agosto 2022 di Giovanni Parente

Domicilio fiscale nel luogo di svolgimento dell’attività Tassazione nel nostro Paese

Domicilio fiscale nel luogo di svolgimento dell’attività libero-professionale in Italia all’apertura della partita Iva per il contribuente iscritto all’Aire e residente nel Regno Unito. In questo modo, l’operatore sarà considerato soggetto passivo d’imposta alla stregua di un residente. I redditi prodotti da tale attività saranno tassati in Italia. Così la risposta a interpello 429/2022 delle Entrate.

Il caso riguarda una cittadina italiana residente nel Regno Unito e iscritta all’Aire, che è intenzionata a svolgere un’attività libero-professionale in Italia senza averla svolta prima nel Paese estero di residenza. Il quesito è se potesse indicare all’apertura della partita Iva in Italia la sede di svolgimento dell’attività professionale come domicilio fiscale.

Le Entrate riconoscono l’intenzione della contribuente di costituire nel territorio italiano il «centro dei propri interessi» e di svolgere l’attività lavorativa in tale luogo. Di conseguenza, secondo l’Agenzia, «la circostanza che nel territorio italiano venga costituito il domicilio fiscale, pur in presenza della residenza in un paese terzo (Regno Unito), non è di ostacolo a considerare l’istante quale soggetto passivo di imposta alla stregua di un soggetto residente». Tra l’altro, la contribuente dovrà indicare nel modello AA9/12 di dichiarazione attività ai fini Iva «il domicilio fiscale ossia il luogo ove sarà svolta l’attività lavorativa, al fine di dotarsi di una partita Iva ordinaria».

C’è poi il fronte dell’imponibilità. A detta delle Entrate, «i redditi riconducibili all’attività svolta in Italia andranno ivi assoggettati a imposizione». La risposta a interpello fa riferimento all’articolo 14 della Convenzione tra Italia e Regno Unito (approvata con la legge 329/1990). Il passaggio chiave è il concetto di «base fissa» per l’attività libero-professionale. In estrema sintesi, la disposizione assoggetta a imposizione i redditi provenienti da una libera professione o da un’attività indipendente esclusivamente nello Stato di residenza ma «fa salvi i redditi che il beneficiario ottiene grazie ad una “base fissa” posta nell’altro Stato contraente, ipotesi che rende applicabile un regime di tassazione concorrente in entrambi i Paesi e la successiva applicazione del credito d’imposta nel Paese di residenza per le imposte pagate all’estero».

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Compila Redditi chi lavora all’estero senza essere iscritto Aire

12 Settembre 2022

Il Sole 24 Ore 24 agosto 2022 di Giovanni Esposito

Le imposte pagate oltreconfine costituiscono un credito

Il contribuente è sottoposto alla maggiore delle due tassazioni

In base al cosiddetto principio della tassazione mondiale (world wide taxation principle), sul quale si fonda anche il sistema fiscale italiano, il cittadino che lavora all’estero non iscritto all’Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) e quindi fiscalmente residente nel nostro Paese, ha comunque l’obbligo di pagare le imposte in Italia anche sui redditi prodotti all’estero, salvo che sia diversamente indicato da disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.

Le eventuali imposte pagate a titolo definitivo nei Paesi in cui i redditi sono stati percepiti si possono comunque detrarre da quelle italiane, sotto forma di credito d’imposta, fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione. In altri termini il contribuente soggiace alla maggiore delle due (italiana/ estera) imposizioni senza possibilità di monetizzare alcun credito.

Il quadro RC

Premesso che per convertire in euro i redditi espressi in valuta estera deve essere utilizzato il cambio indicativo di riferimento del giorno in cui gli stessi sono stati percepiti, quello del giorno antecedente più prossimo o in mancanza il cambio medio del mese, analizzando il caso della percezione di reddito da lavoro dipendente in Usa per 52.491 euro, nella dichiarazione Redditi 2022 nelle colonne al rigo RC1 si indica:

1 “2” redditi di lavoro dipendente o assimilati;

2 “1”se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato, ovvero “2” se a tempo determinato;

3 l’importo dei redditi percepiti; in colonna 4, il codice che identifica la fonte estera dei redditi indicati nelle colonne precedenti (“1” se nella colonna 1 è indicato il codice 1).

Le imposte estere

I dati delle imposte estere andranno così indicati nelle colonne del rigo CE1:

1 il codice dello Stato estero;

2 il periodo d’imposta;

3 il reddito prodotto all’estero;

4 le imposte pagate all’estero (nel caso Usa pari alla somma della Federal income tax State and local income taxes);

5 il reddito complessivo;

6 l’imposta lorda italiana;

7 l’imposta netta italiana;

10 la quota d’imposta lorda italiana costituita dal risultato della seguente operazione: (colonna 3 / colonna 5) x colonna 6 (si precisa che se il rapporto tra reddito estero e reddito complessivo assume un valore maggiore di 1, tale rapporto deve essere ricondotto a 1);

11 l’importo dell’imposta estera ricondotta eventualmente entro il limite della quota d’imposta lorda, quest’ultima diminuita del credito utilizzato nelle precedenti dichiarazioni relativo allo stesso Stato ed anno di produzione. A tal fine si riporta il minore importo tra quello indicato nella colonna 4 (imposta estera) e il risultato della seguente operazione: colonna 10 – colonna 9.

Il credito d’imposta

Nelle colonne del rigo CE4:

1 sarà indicato il periodo d’imposta;

2 il totale degli importi indicati nella colonna 11 del rigo CE1;

3 l’importo dell’imposta netta;

4 l’importo per il quale è possibile fruire del credito pari al minore tra l’importo di colonna 2 e l’importo di colonna 3 di questo rigo. L’importo del credito così determinato va riportato nel rigo CE23 e, al netto di crediti di cui all’articolo 165 comma 6 e importi già utilizzati, il risultato finale nel CE26.

L’importo come prima quantificato è, infine, riportato nel rigo RN29, colonna 2, del quadro RN.

Cosicché l’imposta da versare sarà pari alla differenza tra l’imposta netta italiana (16.267 euro) e quelle pagate all’estero (11.362 euro).

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Così il socio italiano dell’impresa elvetica si finge dipendente

12 Settembre 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 22 agosto 2022 di Ivan Cimmarusti

Faro della Gdf su aziende oltreconfine in realtà controllate dai loro addetti

IMAGOECONOMICA In dogana.  Controlli sui mezzi alla frontiera di Chiasso

Sulla carta risultano quali semplici lavoratori dipendenti italiani di società svizzere, ma nei fatti ne sono i proprietari. La Guardia di finanza di Como accende i fari investigativi sui frontalieri: l’ipotesi è che, in alcuni casi, la corretta tassazione sia stata aggirata attraverso architetture societarie che farebbero apparire come subordinato – e dunque assoggettato al più conveniente regime fiscale dei dipendenti in Svizzera – chi in realtà è un amministratore con reddito da tassare in Italia.

Le informazioni contenute nel registro di commercio del Canton Ticino, incrociate con le banche dati Gdf, avrebbero permesso di scoperchiare un presunto “sistema” per evadere il Fisco italiano. Bisognerà capire quanto sia estesa la prassi sotto inchiesta. Allo stato gli accertamenti riguardano solo un segmento della categoria dei frontalieri: quelli con domicilio fiscale nei Comuni limitrofi al confine con la Svizzera, che contemporaneamente sono titolari di quote e lavoratori dipendenti di queste società elvetiche. L’ipotesi che si tratti di false «subordinazioni» è nei processi verbali di contestazione finora eseguiti.

Secondo l’attuale normativa – in corso di modifica – il lavoratore frontaliero è quel soggetto residente in un Comune italiano il cui territorio è compreso nella fascia dei 20 chilometri dal confine, che svolge il suo lavoro in Svizzera. In particolare, il frontaliere, pur mantenendo la residenza in Italia, presta la propria attività in qualità di dipendente/subordinato in via esclusiva e continuativa, per conto di un datore di lavoro estero. Una regola valida per i frontalieri in Francia, Austria, Slovenia, San Marino e, ovviamente, Svizzera. Tutto ciò ha un beneficio. Come hanno ricordato le Entrate, con la risoluzione 38/E/2017, «i salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della rimunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta». Un vantaggio fiscale non da poco quando si tratta di Svizzera.

Ora i soggetti sotto accertamento risultano titolari di quote delle società per le quali sono subordinati. Secondo la Gdf alcuni risultano titolari dell’intero capitale delle società per le quali lavorano. In sostanza si tratterebbe di lavoratori dipendenti, ma solo sulla carta. Tutto ciò permetterebbe un duplice beneficio: i soggetti non subiscono alcuna tassazione in Italia, mentre in Svizzera assolvono a una minima tassazione sul lavoro dipendente; evitano di dichiarare compensi da amministratore, considerato l’imposizione più onerosa, pari al 30% circa di ritenuta a titolo d’imposta.

Secondo il commercialista Stefano Noro, partner dello studio Sala Noro e Associati, «dai verbali visionati, emerge che la Gdf propone di tassare il salario del frontaliere sempre come reddito di lavoro dipendente, ma secondo le regole previste per i frontalieri fuori fascia e quindi con una tassazione Irpef, al netto della franchigia di legge, scomputando le imposte trattenute in Svizzera. Appare però curioso che prima venga disconosciuto al frontaliere il rapporto di lavoro subordinato, ma poi la proposta di tassazione sia sempre come reddito di lavoro dipendente». Aggiunge che «secondo logica, se non esiste la subordinazione, non può esserci una classificazione di reddito di lavoro dipendente, né come frontaliere di fascia, né come frontaliere fuori fascia. Questi accertamenti possono avere una portata esplosiva per i lavoratori, ma anche nei rapporti tra i due Stati. Inoltre, si pone il problema per i lavoratori italiani di come comportarsi in futuro in quanto, lato Svizzera, il contratto di lavoro è perfettamente legittimo».

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