Prestazione di servizi, il pagamento determina il termine per versare l’Iva

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 25 Aprile 2025 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce

Nelle prestazioni di servizi, il pagamento del corrispettivo non identifica il fatto generatore dell’Iva, che si è già verificato al momento dell’esecuzione, ma determina l’esigibilità dell’imposta, ovvero il termine ultimo entro il quale l’Iva va pagata all’erario e occorre fatturare. Se l’Amministrazione finanziaria contesta al prestatore l’omessa fatturazione dei servizi in questione deve anche provare che il pagamento, pure per equivalente, è avvenuto oppure che il contribuente ha l’intenzione di evadere l’imposta.

Con la sentenza n. 10693 di ieri la Cassazione pone un ulteriore tassello all’interpretazione dell’articolo 6, comma 3, del decreto Iva sulla dicotomia fatto generatore-esigibilità dell’imposta in riferimento ai servizi. La norma secondo cui «le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo» aveva posto un problema di compatibilità con la disciplina unionale che, identificando il fatto generatore dell’imposta con l’esecuzione della prestazione, consente agli Stati membri di stabilire che l’imposta diventi esigibile con l’incasso del corrispettivo. L’interpretazione della giurisprudenza unionale e interna ha fatto salva la norma interna, intendendo la stessa con esclusivo riferimento all’esigibilità dell’imposta, in quanto ove la norma si riferisse al fatto generatore dovrebbe considerarsi incompatibile con il diritto UE (Corte UE, sentenza C-144/94 e Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 8059/16).

In altre parole, sul piano Iva esistono due momenti: i) il fatto generatore dell’imposta (che determina l’imponibilità dell’operazione che è indice di capacità contributiva) da cui scaturisce l’obbligazione tributaria e gli altri obblighi, compreso quello di fatturazione, a essa collegati; ii) l’esigibilità, da intendersi come momento ultimo in cui l’erario ha diritto a riscuotere l’imposta (estremo limite temporale per l’adempimento). Se, in teoria, questi due momenti dovrebbero coincidere, nella pratica, in riferimento alle prestazioni di servizi, il fatto generatore dell’imposta sorge con l’esecuzione della prestazione anche se il versamento dell’imposta, nonché la fatturazione, è possibile fino al pagamento del corrispettivo.

Ma quali effetti sull’obbligo di versamento dell’Iva può avere il mancato pagamento? In questo caso – ed è forse questo il punto che richiede maggiore attenzione della sentenza – se il Fisco non dà prova, anche solo sulla base di elementi presuntivi, che il pagamento in realtà è stato compiuto, anche per equivalente, oppure che esiste un intento del contribuente di sottrarsi all’adempimento dell’obbligo di fatturare e di assolvere l’Iva, non può contestarsi l’omessa fatturazione. Il fatto che dalla contabilità emergano prestazioni di servizi, dapprima in un conto «fatture da emettere» e poi in un conto relativo a crediti da riscuotere, non è un elemento sufficiente per riscuotere l’Iva non versata mancando l’incasso del corrispettivo.

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Se l’assemblea della Srl si è svolta senza convocazione

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 26 Aprile 2025 di Cristina Odorizzi

Sono amministratore unico di una Srl. Vorrei sapere se l’assemblea riunitasi lo scorso anno alla presenza di tutti i soci, rappresentanti l’intero capitale sociale, che ha deliberato l’approvazione del bilancio con la maggioranza dei presenti, possa essere considerata regolarmente costituita anche in mancanza dell’invio della comunicazione con raccomandata con avviso di ricevimento, come è previsto dallo statuto.

L’assemblea è valida anche in assenza di convocazione se ha le caratteristiche per essere considerata totalitaria. In particolare, per quanto attiene alle Srl, l’articolo 2479-bis del Codice civile prevede che «in ogni caso la deliberazione s’intende adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento».
Pertanto, l’assemblea tenutasi lo scorso anno in assenza di convocazione, ma con la presenza dell’intero capitale sociale e dell’organo amministrativo al completo, è validamente tenuta, ex articolo 2479-bis, del Codice civile.

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Imposte all’estero, sì alla detrazione anche se il credito è stato omesso

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 28 Aprile 2025 di Davide Settembre

Il contribuente ha diritto a detrarre l’imposta pagata all’estero anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni. Lo hanno affermato i giudici della Corte di giustizia tributaria del Lazio con la sentenza n. 7484/13/2024 (presidente e relatore Passero), allineandosi ai principi recentemente espressi dalla Corte di Cassazione.

La vicenda

Nel caso esaminato dai giudici laziali, una società chiedeva il rimborso delle imposte versate sui proventi percepiti all’estero in base alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Grecia.

Formatosi il silenzio-rifiuto, la società proponeva ricorso dinanzi la Ctp che lo accoglieva, ritenendo, tra l’altro, che il diritto alla detrazione doveva essere riconosciuto anche se il credito non era stato indicato dalla ricorrente nella dichiarazione dei redditi, come richiederebbe l’articolo 165 del Tuir.

L’appello dell’ufficio veniva accolto, ma la società ricorreva in Cassazione.

I giudici di legittimità accoglievano il ricorso e cassavano la sentenza con rinvio, sostenendo che i giudici di appello con una affermazione meramente apodittica si erano limitati a condividere astrattamente l’operato dell’ufficio. La società riassumeva così il giudizio in appello.

La decisione

I giudici di appello hanno accolto il ricorso in riassunzione, ricordando in primis che il diritto alla detrazione delle imposte assolte all’estero trova fondamento sia nell’articolo 165 del Tuir che nell’articolo 24 della Convenzione Italia-Grecia in base al quale, se il contribuente assoggetta a tassazione nel proprio paese gli elementi di reddito percepiti all’estero, deve dedurre dalle imposte così calcolate l’imposta sui redditi pagata in Grecia.

In particolare, i giudici hanno affermato che, sulla base dell’analisi delle clausole dei contratti sottoscritti in relazione ad alcuni progetti, la ricorrente si era impegnata a fornire il know-how necessario alla realizzazione delle opere e servizi previsti. Pertanto, i redditi percepiti dalla ricorrente dovevano essere inquadrati nella categoria delle royalty. Conseguentemente, tali redditi erano stati correttamente assoggettati alla ritenuta convenzionale del 5% dai committenti greci della società e ciò, in virtù del citato articolo 24, dà luogo al riconoscimento di un credito. Peraltro, la qualificazione dei redditi quali royalties era stata ritenuta corretta dallo stesso ufficio in sede di accertamento di adesione con riferimento all’annualità 2008.

Infine, i giudici hanno evidenziato che, sulla base della recente sentenza della Corte di cassazione n. 24160 del 2024, la detrazione delle imposte assolte all’estero deve essere riconosciuta anche nel caso in cui il credito non venga indicato nella dichiarazione dei redditi, purché vi sia, come nel caso esaminato, una convenzione contro le doppie imposizioni. In sostanza gli accordi internazionali prevalgono sulle norme interne, salvo queste siano concretamente più favorevoli al contribuente.

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Credito per imposte estere solo con versamenti definitivi

10 Maggio 2025

Il Sole 24 Ore 29 Aprile 2025 di Emanuele Reich Franco Vernassa

Per i redditi prodotti all’estero da parte dei soggetti Ires e per la recuperabilità delle (eventuali) ritenute subite risulta necessario compilare il quadro CE di Redditi Sc 2025 o, in caso di consolidato fiscale, i quadri NE, NR ed NC del modello Cnm (articoli 165 e 118 del Tuir).

La corretta gestione delle imposte pagate all’estero sui redditi esteri si basa prima di tutto sull’individuazione della tipologia di reddito soggetto a ritenuta (interessi, royalties, dividendi, redditi d’impresa conseguiti tramite stabile organizzazione, management fees, fornitura servizi di ingegneria) e successivamente su una buona compliance procedurale dell’impresa, senza trascurare la contabilizzazione dei redditi esteri, delle ritenute recuperabili quali crediti, e delle ritenute non recuperabili quali costi.

Le tre condizioni

L’articolo 165 del Tuir, commentato ampiamente dalla circolare 9/E/2015 e da prassi recente (principi di diritto 15/2019 e 15/2021 e risposte a interpelli 118/2023, 120/2024, 13/2025, 101/2025 e 116/2025), definisce le tre condizioni necessarie per poter accedere al credito d’imposta per le imposte pagate all’estero, come segue (si veda la circolare 9/E/2015):

1 la produzione di un reddito in un Paese estero;

2 il concorso di quel reddito alla formazione del reddito complessivo del residente;

3 il pagamento di imposte estere a titolo definitivo.

Naturalmente, è necessario che le imposte pagate all’estero siano imposte sul reddito o ad esse assimilabili. Le imposte da indicare devono essere:

divenute definitive entro il termine di presentazione della dichiarazione, oppure, nel caso di opzione in virtù del comma 5 dell’articolo 165 del Tuir, entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo;

irripetibili, pertanto non vanno indicate, ad esempio, le imposte pagate in acconto o in via provvisoria e quelle per le quali è prevista la possibilità di rimborso totale o parziale

Nel caso in cui il reddito prodotto all’estero abbia concorso parzialmente alla formazione del reddito complessivo in Italia (ad esempio, dividendi imponibili per il 5%), in base al comma 10 dell’articolo 165 del Tuir, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente. Si deve ricordare che il principio della prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno è, di fatto, pacificamente riconosciuta nell’ordinamento italiano e, in ambito tributario, sancita dall’articolo 169 del Tuir e dall’articolo 75 del Dpr 600 del 1973, oltre ad essere stata affermata dalla giurisprudenza costituzionale.

Un suggerimento operativo consiste nel prevedere nel contratto tra il soggetto Ires ed il cliente estero uno specifico articolo che preveda l’assoggettamento dei pagamenti effettuati a ritenuta alla fonte da Trattato da parte della società estera-committente, con reciproci obblighi documentali.

La composizione

Il quadro CE, così come i quadri NE, NR ed NC del modello Cnm, è piuttosto complesso e quindi deve essere compilato con attenzione sulla base dell’apposita documentazione che dovrà essere conservata a disposizione dell’amministrazione finanziaria. Soffermiamoci sul quadro CE, che è diviso in tre sezioni:

1 la prima è riservata all’indicazione delle informazioni necessarie alla determinazione del credito d’imposta di cui al comma 1 dell’articolo 165 del Tuir e del credito d’imposta indiretto (articolo 86, comma 4-bis e articolo 89, comma 3, del Tuir)

2 la seconda è riservata all’indicazione delle informazioni necessarie per la determinazione delle eccedenze di imposta nazionale e delle eccedenze di imposta estere riportabili per 8 anni, di cui all’articolo 165, comma 6 del Tuir, e dell’eventuale credito spettante;

3 la terza è una sezione di riepilogo dei crediti determinati nelle precedenti sezioni. Ad esempio, l’importo del credito andrà poi riportato nel rigo RN13.

La determinazione del credito va effettuata con riferimento al reddito prodotto in ciascuno Stato estero e al singolo periodo di produzione.

La sezione I si divide in due parti: la sezione I-A individua il credito d’imposta «teoricamente» spettante, mentre la sezione I-B quello «effettivamente» spettante.

Individuate le imposte pagate all’estero a titolo definitivo, è necessario determinarne la parte recuperabile in Italia con il meccanismo previsto dal comma 1 dell’articolo 165 del Tuir secondo il quale esse sono ammesse in detrazione dall’imposta italiana dovuta, fino a concorrenza della quota d’imposta lorda italiana corrispondente al rapporto tra il reddito prodotto all’estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione nel limite dell’imposta netta italiana relativa al periodo di produzione del reddito estero.

Le eccedenze

La sezione II del quadro CE, che si divide in tre parti (A, B, C), individua le eccedenze d’imposta in base all’articolo 165, comma 6, del Tuir; tale norma dispone che l’imposta estera pagata a titolo definitivo nel Paese estero eccedente la quota di imposta italiana relativa al medesimo reddito estero, costituisce:

un credito d’imposta;

fino a concorrenza dell’eccedenza della quota d’imposta italiana rispetto a quella estera pagata a titolo definitivo in relazione allo stesso reddito estero, verificatasi negli esercizi precedenti fino all’ottavo (carry back).

Se non è possibile fruire del carry back, l’eccedenza dell’imposta estera può essere riportata a nuovo fino all’ottavo esercizio successivo, per essere utilizzata come credito di imposta nei casi previsti (carry forward). Il riporto in avanti dovrà essere monitorato nel tempo, previa eventuale contabilizzazione dell’imposte estera come credito, ove se ne preveda ragionevolmente l’utilizzo.

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Polizze catastrofali, l’obbligo non riguarda il magazzino

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore 4 Marzo 2025 di Alessandro Germani

Oggetto della copertura obbligatoria per le polizze catastrofali sono le immobilizzazioni materiali, esclusi gli altri beni, dell’attivo di stato patrimoniale, per cui dalla medesima resta fuori il magazzino. Ciò impone alcune considerazioni distinguendo le aziende industriali e quelle commerciali.

Con il Dm 3o gennaio 2025 n. 18 pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» lo scorso 27 febbraio sono state disciplinate le modalità attuative delle polizze catastrofali (contro sismi, alluvioni, frane, inondazioni e esondazioni) di cui le imprese dovranno dotarsi entro il prossimo 31 marzo. L’obbligo originariamente è stato introdotto dall’articolo 1 commi 101-111 della legge 213/2023, con scadenza per l’adeguamento fissata dapprima al 31 marzo 2024 e poi prorogata al 31 marzo 2025 dal decreto Milleproroghe (Dl 202/2024). La norma risponde all’esigenza di prevedere una copertura obbligatoria per le aziende a fronte di eventi che si manifestano con sempre maggiore frequenza e intensità ma con un onere assicurativo in capo a queste. D’altronde si diffonde una cultura assicurativa che è irrinunciabile in presenza di eventi calamitosi.

Profilo soggettivo

Vediamo quali sono le imprese obbligate alla copertura in questione. L’articolo 1 del Dm 18/25 definisce come assicurato l’impresa con sede legale in Italia e le imprese aventi sede legale all’estero con una stabile organizzazione in Italia, tenute all’iscrizione nel Registro delle imprese in base all’articolo 2188 del Codice civile, ad esclusione delle imprese agricole (articolo 2135 del Codice civile). L’obbligo pare quindi ampio, riguardando tanto le imprese italiane quanto le stabili organizzazioni in Italia di soggetti esteri, visto che il comun denominatore consiste nell’iscrizione al registro delle imprese che vale anche per le branch. A maggior ragione, l’iscrizione sembrerebbe ricomprendere non solo le società ma anche le imprese tenute in ogni caso a tale iscrizione.

Profilo oggettivo

Le definizioni richiamano le immobilizzazioni di cui all’articolo 2424, comma a, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3), del Codice civile. Viene specificato che si tratta di:

terreni;

fabbricati intesi come costruzioni e opere murarie, compresi gli impianti idrici, elettrici, di riscaldamento, di condizionamento, comunque pertinenziali all’edificio;

impianti e macchinari;

attrezzature industriali e commerciali.

Il richiamo al Codice civile e agli schemi di bilancio consente di fare riferimento al principio Oic 16 sulle immobilizzazioni materiali, che suddivide i fabbricati fra quelli strumentali (ad esempio silos, piazzali e recinzioni, autorimesse, officine, oleodotti, opere di urbanizzazione, fabbricati ad uso amministrativo, commerciale, uffici, negozi) e quelli non strumentali (ad esempio immobili abitativi, termali, sportivi, balneari, terapeutici, collegi, colonie, asili nido, scuole materne). Invece gli impianti e macchinari ricomprendono sia quelli generici (impianti di produzione, impianti di distribuzione energia, raccordi ferroviari, impianti di allarme) sia quelli specifici. La norma richiama poi anche le attrezzature ma non gli altri beni (mobili e arredi, automezzi, macchine ufficio). Accanto a questi ultimi, resta fuori anche l’altra categoria del magazzino, facente parte dell’attivo circolante.

Modalità di copertura

Sotto il profilo assicurativo, la norma primaria (comma 103) prevede che le compagnie possano assumere direttamente il rischio, oppure agire in coassicurazione o in forma consortile mediante una pluralità di imprese. È poi previsto un intervento di Sace a favore sia degli assicuratori sia dei riassicuratori.

Aspetti di mercato

È chiaro che l’obbligatorietà ha puntato sul comparto delle immobilizzazioni materiali, escludendo gli altri beni. Ma l’esclusione del magazzino comporta che la copertura obbligatoria per un’impresa industriale sia superiore rispetto a quella di un’impresa commerciale. In altre parole, l’evento calamitoso può colpire una linea industriale per cui sarà previsto il risarcimento, ma non avverrà lo stesso nel caso in cui l’evento colpisca il magazzino. Che costituisce l’asset principale di un’impresa commerciale. È evidente che vi saranno state motivazioni economiche a suggerire di non incrementare eccessivamente la misura della copertura obbligatoria come onere a carico delle imprese. Va da sé che le realtà commerciali potranno in ogni caso negoziare con l’assicuratore di estendere la copertura anche al magazzino, sebbene ciò possa comportare un incremento del costo della polizza, a fronte di una copertura ben maggiore.

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Si ricorda che è stata prevista la proroga dei termini di adempimento dell’obbligo di assicurazione dei rischi catastrofali, disposta dal Dl 39/2025,

  • le piccole imprese e le microimprese potranno farlo entro il 1° gennaio 2026 
  • quelle medie entro il 1° ottobre
  • grandi imprese il termine del 1° aprile rimane fermo, sia pure con un periodo di tolleranza durante il quale non saranno applicabili conseguenze sanzionatorie.

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Dividendi di fonte estera: sì al credito dopo prelievo preventivo e ritenuta

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Davide Greco e Giulia Sorci

Il credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir deve essere riconosciuto anche al

beneficiario persona fisica di un dividendo di fonte estera qualora questo sia stato

obbligato dalla propria normativa nazionale ad assoggettare il reddito in questione a

ritenuta a titolo di imposta del 26%, come richiesto dall’articolo 27, comma 4 del Dpr

600/1973.

Questa, in estrema sintesi, è la conclusione della Cgt Bergamo n. 68/1//2025 del 14

febbraio scorso (presidente e relatore Fischetti).

La vicenda aveva visto coinvolta una contribuente italiana, la quale lamentava il

mancato rimborso del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir in relazione a dividendi

da lei percepiti e doppiamente tassati: dapprima in Svizzera, con la cosiddetta imposta

preventiva sui dividendi e, successivamente in Italia con ritenuta a titolo d’imposta del

26% (articolo 27, comma 4 del Dpr 600/1973).

La sentenza in commento è rilevante poiché si inserisce all’interno del filone

giurisprudenziale “inaugurato” nel 2022 dalla Corte di cassazione (con la sentenza n.

25698/2022), confermato anche nel 2024 (si veda Cassazione civile n. 10204/2024),

secondo cui ai fini dell’ottenimento del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir non

costituirà più, a certe condizioni, causa ostativa l’aver assoggettato in Italia i dividendi di

fonte estera a ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento.

Il ragionamento seguito dai giudici di merito si pone, infatti, in linea con l’orientamento

dei giudici di legittimità e costituisce, da ciò che ci risulta, uno dei primi approdi della

giurisprudenza di merito sul tema (sembra difatti vi siano pochissime sentenze di merito

antecedenti, ovvero: sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siena

 

  1. 68/2024 e sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Milano n.

3184/2024).

Facendo leva sul dettato normativo contenuto nell’articolo 24, secondo paragrafo della

Convenzione tra Italia e Svizzera, la Corte bergamasca ha dichiarato la supremazia della

fonte sovranazionale rispetto a quella domestica sancendo, in definitiva, che «spetta il

credito per [le] imposte pagate all’estero alle persone fisiche tenute, senza facoltà di

scelta, al pagamento della ritenuta a titolo di imposta come nell’ipotesi di cui all’articolo

27, comma 4 del Dpr 600/1973».

Se, infatti, è vero che una delle condizioni richieste dall’articolo 165 del Tuir per

beneficiare del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero è che il reddito in

questione concorra «alla formazione del reddito complessivo» è anche vero che, a livello

convenzionale, l’articolo 24 della Convenzione tra Italia e Svizzera non riconosce il

beneficio nell’ipotesi in cui «l’elemento di reddito venga assoggettato in Italia ad

imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario del reddito

in base alla legislazione italiana».

Da tale disposizione pattizia se ne ricava, all’opposto che, qualora l’assoggettamento ad

imposizione mediante ritenuta a titolo d’imposta, o mediante imposta sostitutiva come

nella fattispecie di cui all’articolo 18, comma 1, del Tuir, avvenga non «su richiesta del

beneficiario del reddito» ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente richiedere

l’imposizione ordinaria, l’imposta pagata all’estero dovrebbe considerarsi, in linea

generale, detraibile.

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Insolvenza transfrontaliera, criteri Ue per società con sedi fuori dall’Unione

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Leonardo Curatolo e Marcello Tarabusi

Nelle insolvenze transfrontaliere che riguardano società con sedi in Italia e in altri Paesi

extra Ue, l’individuazione del luogo dove aprire la procedura e il rapporto fra le

procedure avviate in Paesi diversi ha importanti ricadute sulla gestione dei beni

aziendali.

Nell’ambito dell’Unione europea la materia è disciplinata dal regolamento Ue 848/2015

ma se i Paesi interessati sono extra Ue si pone il problema di quali norme applicare.

Un’indicazione giurisprudenziale (in assenza di pronunce della Cassazione) arriva da

una sentenza del Tribunale di Bologna (relatore Atzori) che risale al 26 gennaio 2024 (è

la n.14) ma è ancora inedita.

Applicazione universale

Secondo i giudici di Bologna per accertare il luogo dove aprire la procedura, il criterio

da seguire è quello del centro principale degli interessi (Comi) previsto dalle norme Ue

anche per le società con sede legale in Paesi che non fanno parte dell’Unione.

Il tribunale italiano può inoltre aprire la liquidazione giudiziale anche se nel Paese

straniero è già stata avviata una procedura di insolvenza sulla base del diritto locale. E,

sempre secondo i giudici bolognesi, la procedura italiana non è secondaria o dipendente

da quella estera, bensì autonoma e universale, riguarda cioè tutti i beni del debitore (si

veda l’articolo online richiamato in alto).

Pur ritenendo che le norme che regolano la Brexit escludano l’applicazione diretta del

regolamento Ue 2015/848, il Tribunale ha ritenuto alcuni principi ivi previsti di

universale applicazione.

Il provvedimento del Tribunale di Bologna riguardava una vicenda in cui la regolazione

della crisi di una società italiana si intrecciava con quella di una società del medesimo

gruppo ubicata nel Regno Unito.

Nel 2023 la società italiana era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria. In

precedenza, il marchio e una serie di asset erano stati trasferiti a un’altra società del

gruppo, con sede legale a Londra che lo aveva dato in licenza alla società italiana (che

aveva la sede a Bologna con 76 dipendenti) la quale erogava anche servizi trasversali al

gruppo (tra cui Ced, marketing, e-commerce).

I creditori italiani avevano chiesto al Tribunale di Bologna di aprire la liquidazione

giudiziale. La società inglese aveva eccepito il difetto di giurisdizione, sostenendo che il

procedimento andava sospeso ai sensi della legge 218/95 (che regola il nostro diritto

internazionale privato), poiché pendeva un analogo ricorso avanti ad un giudice inglese,

la cui decisione sarebbe poi stata resa esecutiva in Italia sempre in base alla legge 218/95

.

Secondo il Tribunale, i criteri indicati nel considerando n. 30 del regolamento Ue

costituiscono, in base alla dottrina internazionalistica, patrimonio comune per

l’individuazione del centro principale degli interessi nelle insolvenze transfrontaliere,

indipendentemente dalla applicabilità della norma Ue. Il criterio del Comi fu infatti

introdotto negli anni ’90 dalla Commissione Onu per il diritto commerciale

 

internazionale (Uncitral), che ha il compito di armonizzare il diritto commerciale degli

Stati membri dell’Onu, nell’ambito del Modello di legge sull’insolvenza transfrontaliera

adottato il 15 dicembre 1997 con risoluzione n. 52/58 dell’Assemblea generale, poi

trasfuso anche nel regolamento Ce 1346/2000.

Il centro di interessi

Ha inoltre carattere universale il principio secondo cui è sempre possibile offrire la prova

contraria alle presunzioni di coincidenza tra centro principale degli interessi e sede

legale, stabilite dalla legge. E spetta al giudice valutare gli elementi che fanno ritenere

che il centro effettivo di gestione degli interessi sia situati in un altro stato.

Il Tribunale ha ritenuto che, nonostante la sede legale fosse a Londra, il Comi si trovasse

a Bologna, dove erano ubicati il portafoglio clienti e la rete commerciale e dove

avveniva la produzione, dalla creazione stilistica sino al confezionamento. E, da Bologna

i prodotti venivano direttamente spediti ai clienti. Tutto ciò indubbiamente ingenerava

nei terzi (tra cui clienti e dipendenti) la percezione che il luogo in cui il debitore

esercitava la gestione dei propri interessi in modo abituale era in Italia.

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Responsabilità dei sindaci limitata al multiplo del compenso

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore 13 Marzo 2025 di Federica Micardi

Approvata dall’aula del Senato all’unanimità la legge che limita la responsabilità dei sindaci e del collegio sindacale. Una norma che interessa direttamente oltre 40mila commercialisti e 115mila società di capitali.

Il disegno di legge 1155 che modifica l’articolo 2407 del Codice civile, presentato nel luglio 2023 e che vede come prima firmataria l’onorevole Marta Schifone (Fdi), è stato approvato dalla Camera il 29 maggio 2024 e dalla Commissione giustizia del Senato il 28 gennaio scorso; ieri l’approvazione definitiva dell’Aula di palazzo Madama.

In base al riformato articolo 2407 la responsabilità viene “perimetrata” quando i sindaci o il collegio sindacale non hanno agito con dolo e viene quantificata come un multiplo del compenso percepito in base a tre scaglioni (si veda la scheda in pagina).

Viene anche introdotto un limite temporale per far valere l’azione di responsabilità, che si prescrive in cinque anni dal deposito della relazione dei sindaci annessa al bilancio relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno. Il tempo di prescrizione è stato, di fatto, allineato a quello previsto per i revisori. Fino a oggi erano previsti termini diversi – fino a dieci anni – a seconda del tipo di azione esercitata.

Marta Schifone, responsabile del dipartimento professioni di FdI, parla di una vittoria di buon senso che sarà fondamentale per risolvere il paradosso dei professionisti “bersaglio facile” nelle azioni risarcitorie; aiuterà anche a ridurre il timore del danno reputazionale e patrimoniale che ha caratterizzato il ruolo di sindaco in questi anni, rendendolo sempre meno appetibile.

Il nuovo articolo 2407 si applicherà ai bilanci 2024, ma come saranno trattate le violazioni commesse in precedenza? «Il tema di un’applicazione della norma con effetto retroattivo – spiega Marta Schifone – è stato sollevato alla Camera ed è stato oggetto di uno specifico ordine del giorno della commissione Giustizia del Senato; bisogna trovare il veicolo adatto – prosegue Schifone – che potrebbe essere un emendamento. Mi batterò perché passi questo principio, è una questione di giustizia».

La norma è migliorabile (già si parla anche di una sua estensione ai revisori), ma la sua approvazione è un risultato importante. Come sottolinea Andrea de Bertoldi, firmatario del Ddl 1155, «la limitazione della responsabilità in capo ai componenti dei collegi rappresenta non solo una misura di giustizia, ma anche un’opportunità per le nostre imprese di trovare più facilmente sindaci e revisori, che finalmente avranno una responsabilità calibrata sul proprio compenso».

Sono decenni che i professionisti chiedono al legislatore di intervenire in merito. Secondo le stime fornite dalla Fondazione nazionale di ricerca dei commercialisti, sono oltre 40mila gli iscritti all’Albo dei commercialisti impegnati attivamente come componenti di un collegio sindacale, o come sindaco unico, per un totale di oltre 150mila cariche pari a circa l’80% del totale delle società di capitali interessate (circa 115mila).

Il presidente della categoria Elbano de Nuccio parla di un «traguardo storico» e di «un successo che non riguarda solo i commercialisti, ma anche le imprese e l’intero sistema economico, un atto di giustizia sostanziale che garantisce una maggior qualità dell’organo di controllo».

Il sistema della responsabilità finora vigente – spiega il presidente dell’Unione giovani dottori commercialisti ed esperti contabili, Francesco Cataldi – «ha determinato azioni quasi automatiche verso i sindaci, avvinti dal vincolo di solidarietà con gli amministratori. Una responsabilità – prosegue Cataldi – caratterizzata dall’anomalia di colpire nella medesima misura e pretesa risarcitoria chi ha commesso il fatto e chi avrebbe dovuto vigilare».

Secondo Marco Natali, presidente di Confprofesssioni, l’approvazione del Ddl 1155 corregge una distorsione che per troppo tempo ha penalizzato i professionisti.

Anche il presidente dell’Associazione nazionale commercialisti (Anc), Marco Cuchel, plaude per il «traguardo importante» e invita a «gettare le basi per finire il lavoro e cioè ottenere le modifiche in ordine al calcolo del limite massimo del risarcimento danni, alla retroattività della norma e all’estensione ai revisori legali».

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Movimenti finanziari con l’estero sempre da comunicare all’Agenzia

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore 19 Marzo 2025 di Marco Piazza e Roberto Torre

Gli intermediari finanziari devono comunicare i trasferimenti da e verso l’estero dei propri clienti all’agenzia delle Entrate «indipendentemente dalla circostanza che alcuni trasferimenti possano essere oggetto di segnalazione anche da parti di altri intermediari italiani».

Il principio viene sancito dalla risposta 75/2025 (si veda l’articolo «Investimenti esteri, con il regime dichiarativo obbligo del quadro RW») che riguarda un caso particolare: quello in cui una persona fisica residente in Italia detenga conti correnti e dossier titoli presso un banca estera dedicati a servizi d’investimento (gestione di patrimoni o consulenza con raccolta d’0rdini) prestati al cliente dalla stabile organizzzazione italiana della banca estera. Tuttavia, può essere esemplificativa di come il cosiddetto monitoraggio fiscale del trasferimento da o verso l’estero, di cui all’articolo 1 del Dl 167/1990, possa fornire all’Amministrazione finanziaria segnalazioni fuorvianti (nel caso delle polizze vita, peraltro, la questione è stata risolta con la risoluzione 62/E del 2024).

L’obbligo di monitoraggio è imposto anche alle stabili organizzazioni in Italia di banche estere, ma – come si desume dalla risposta 75 – non solo per i trasferimenti che interessano conti correnti e dossier detenuti dal cliente presso la stabile organizzazione italiana, ma anche per quelli detenuti presso la casa madre, quando si tratti di conti dedicati ai servizi d’investimento prestati dalla stabile organizzazione stessa. In questo secondo caso, dal tenore della risposta, la comunicazione non riguarderebbe solo i trasferimenti da e verso intermediari esteri, ma anche quelli da e verso intermediari italiani. Vi è quindi il rischio di una doppia segnalazione, dato che anche gli intermediari italiani, controparti nei trasferimenti, procederanno a comunicare la medesima operazione (in entrata o in uscita) con lo stesso segno (avere per i bonifici dall’estero e dare per quelli verso l’estero).

A questo punto, se l’Agenzia non sarà in grado di individuare ed eliminare le doppie segnalazioni, il monitoraggio fiscale – che, insieme allo scambio automatico d’informazioni con le autorità estere si è dimostrato il più efficace sistema di contrasto all’evasione internazionale – rischierà di divenire inefficiente.

Prova delle difficoltà incontrate dall’Agenzia nell’analisi dei dati (spesso sovrabbondanti) è il fatto che risultano avviate diverse indagini finanziarie, scatenate dal monitoraggio fiscale e dello scambio d’informazioni, riguardanti rapporti che sono stati regolarizzati quasi dieci anni fa con la voluntary disclosure, alcuni dei quali intestati a fiduciarie italiane. Sembra impossibile che non si sia ancora riusciti a prevedere una analisi preventiva delle informazioni ricevute (onde evitare uno spreco di risorse a fisco e contribuenti).

Probabilmente il sistema dovrebbe essere completamente rivisto, anche per evitare che gli intermediari, nell’incertezza sul da farsi e vista la gravità delle sanzioni, facciano segnalazioni non dovute, minando ulteriormente l’efficienza della procedura. Il monitoraggio fiscale dovrebbe essere coordinato con gli esiti dello scambio d’informazioni internazionale e con le risultanze dell’archivio dei rapporti finanziari; ciò anche allo scopo di mettere l’Agenzia in condizione di rendersi conto in anticipo dei casi di amministrazione fiduciaria senza intestazione e simili.

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Pagamenti digitali, il balzo dei Pos (+30%) dà più armi al Fisco

14 Aprile 2025

Il Sole 24 Ore 24 Marzo 2025 di Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste

I dati. Nel 2024 attivi 3,5 milioni di terminali per l’uso delle carte. Transazioni +45% in tre anni. Dal 2026 obbligo di collegamento con i registratori di cassa

Nel 2021 in Italia erano attivi 2,7 milioni di Pos. Tre anni dopo – a fine 2024 – siamo arrivati a 3,5 milioni. Anche i pagamenti cashless totali sono cresciuti: da 332 a 481 miliardi di euro, di cui 357 miliardi eseguiti proprio sui terminali per accettare le carte (fisiche o virtuali). In un triennio, insomma, i Pos sono aumentati del 30% e le transazioni senza contante del 45 per cento. Una crescita che offre al Fisco una miniera di dati sui pagamenti pronti da analizzare e usare in chiave antievasione.

Certo, tutti gli esercenti sono dotati di Pos, per obbligo di legge. E da metà 2022 sono in piedi le sanzioni per chi nega l’uso di carte di debito, di credito o prepagate (30 euro più il 4% del valore della transazione). L’impressione, però, è che a spingere i pagamenti digitali stimati dall’Osservatorio del Politecnico di Milano siano state soprattutto le nuove soluzioni tecnologiche e le relative offerte commerciali, che hanno inciso sulle abitudini degli italiani più di incentivi, sanzioni e obblighi spesso fuori fuoco. Anche perché nel frattempo il limite per l’uso del contante è salito da 2mila a 5mila euro, la costosissima esperienza del cashback di Stato è stata archiviata e il tax credit sulle commissioni dei piccoli esercenti, elevato solo per un anno al 100%, è tornato al livello base del 30 per cento.

A livello normativo, a favore degli acquirenti, restano la lotteria degli scontrini e l’obbligo – fissato nel 2020 – di saldare con mezzi tracciabili le spese che si vuol detrarre al 19%, dalle visite mediche alle attività sportive dei ragazzi.

I pagamenti in negozio hanno quindi raggiunto – come detto – 357 miliardi di euro, di cui 291 miliardi in modalità contactless (quasi nove transazioni su dieci eseguite con carta avvengono così). Se l’aumento dei pagamenti cashless è in larga parte spontaneo, perde di peso il dibattito sul tetto al contante (pur utile a contenere l’economia sommersa, Banca d’Italia dixit), che è stato alzato dal Governo Meloni nel 2023 ed è ormai uscito dai radar della politica. Ma a proposito della diffusione dei Pos in chiave antievasione restano due elementi di fondo:

da un lato, nulla vieta che le parti si accordino per saldare in contanti e in nero. E qui serviranno sempre i controlli, le sanzioni e le “classiche” misure antievasione o sul contrasto d’interessi, per indurre l’acquirente a farsi fare la ricevuta;

dall’altro, non è garantito che tutti gli incassi tramite carte siano accompagnati da scontrini e altri documenti fiscali. E qui si aprono spazi per l’incrocio dei dati e l’introduzione dei sistemi che trasmettono in tempo reale le operazioni al Fisco.

Proprio per integrare le certificazioni fiscali (memorizzazione e trasmissione dei corrispettivi) e i pagamenti elettronici, facendo emergere in modo puntuale l’eventuale incoerenza tra incassi cashless e scontrini emessi, a gennaio 2026 scatterà l’obbligo di collegare i Pos ai registratori di cassa. Una mossa legata anche agli obiettivi Pnrr. La relazione tecnica alla legge di Bilancio 2025 spiega che per quantificare le maggiori entrate (circa 50 milioni di Iva) sono stati utilizzati i dati sulle lettere di compliance inviate dalle Entrate nel 2023 e basate sulle anomalie fiscali emerse dall’incrocio delle banche dati. Ma il criterio di stima è «assolutamente prudenziale», perché vengono considerati anomali solo i contribuenti con un elevatissimo profilo di rischio, escludendo «quelli che, pur avendo, per ipotesi, evaso tutte le somme riscosse in contanti, hanno certificato regolarmente quelle pagate con strumenti tracciati».

In attesa delle regole tecniche sul collegamento Pos-registratore di cassa, il mercato comincia già a muoversi. I dati dell’Osservatorio Innovative Payments del Polimi – spiega il direttore Ivano Asaro – mostrano, dopo l’esplosione dei mobile Pos (che toccano il milione, il 28% del totale), «il forte progresso degli smart Pos: evoluzione diretta dei terminali tradizionali, basati su Android e non su un sistema operativo privato. I quali hanno un grosso potenziale anche nell’ottica di integrazione con i registratori telematici». Se ne contano 500mila (il 14% del totale). Tutto ciò mentre cominciano ad avanzare i software Pos che – grazie alle app crittografate installate sugli smartphone – consentono di fare a meno dei terminali esterni, con il loro costo fisso. I numeri sono ancora piccoli (sono circa 150 mila), ma l’espansione è in atto. E potrà forse portare a “cannibalizzare” in parte i Pos mobili.

Operazioni cashless da inviare in tempo reale con gli scontrini
di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

Dal 1° gennaio 2026 (per effetto dell’articolo 1, commi 74-77, della legge 207/2024) verrà garantita alle Entrate la comunicazione in tempo reale – e non con cadenza mensile, come accade oggi – delle informazioni relative ai pagamenti elettronici, grazie alla loro trasmissione aggregata con i dati delle vendite memorizzati e inviati telematicamente.

In questo modo potranno essere rilevate in maniera automatica eventuali incoerenze tra gli incassi “digitali” e quanto risulta dai documenti commerciali emessi.

Il registratore telematico, collegato tecnicamente con gli strumenti di pagamento elettronico, così come le soluzioni software di certificazione fiscale che potranno essere adottate dai contribuenti – dopo avere memorizzato le informazioni minime di tutte le transazioni elettroniche, tranne di quelle che permettono l’identificazione del cliente – trasmetteranno all’Agenzia l’importo complessivo dei pagamenti elettronici giornalieri acquisiti anche indipendentemente dalla registrazione dei corrispettivi.

Così dal 2026 i dati aggregati del pagamento elettronico e della certificazione fiscale verranno trasferiti, con un medesimo invio, direttamente dal punto vendita delle Entrate: le attuali disposizioni di riferimento e le specifiche tecniche si limitano a prevedere che nel tracciato, trasmesso giornalmente, siano indicate le modalità di pagamento dell’operazione, essendo invece delegata agli operatori finanziari la trasmissione telematica, con cadenza mensile, dei dati identificativi e dell’importo complessivo delle transazioni giornaliere effettuate con strumenti di pagamento elettronico.

Allo stesso modo, le transazioni saranno comunicate dalle soluzioni software di certificazione, rispettando le modalità tecniche definite con disposizioni regolamentari in corso di emanazione, come chiarito dal provvedimento 111204/2025 del 7 marzo 2025 con cui sono state individuate le informazioni da trasmettere e le regole per realizzare e approvare le soluzioni software per memorizzare elettronicamente e trasmettere telematicamente i dati dei corrispettivi giornalieri.

Le nuove disposizioni concorreranno di fatto a superare – o comunque a innovare e integrare – quanto a oggi disposto dal provvedimento direttoriale 352652, pubblicato il 3 ottobre 2023, con cui l’Agenzia ha individuato le modalità per mettere a disposizione del contribuente e della Guardia di Finanza, anche con l’uso di strumenti informatici, le informazioni derivanti dal confronto mensile tra i pagamenti elettronici ricevuti e le fatture elettroniche emesse e/o i corrispettivi telematici trasmessi dallo stesso contribuente.

Destinatari delle comunicazioni sono tutti i contribuenti per i quali l’ammontare dei pagamenti elettronici mensili risulti superiore all’ammontare complessivo delle transazioni economiche certificate fiscalmente nello stesso periodo. Gli elementi e le informazioni comunicati permettono quindi di rimediare a eventuali errori od omissioni, tramite l’istituto del ravvedimento operoso.

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