Categoria: Dall’Italia
La dematerializzazione di quote delle Srl va prevista nello Statuto
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 13 Settembre 2025 di Mario Notari
Due nuove massime della Commissione società del Consiglio notarile di Milano (214 e 215 del 22 luglio 2025) chiariscono i dubbi interpretativi sulle quote dematerializzate di Srl.
La cosiddetta legge Capitali dello scorso anno (legge 21/2024) ha previsto che le quote di Srl Pmi possono esistere in forma scritturale in base all’articolo 83-bis del Tuf (Dlgs 58/1998). È, quindi, consentito assoggettare in via facoltativa le quote allo stesso regime delle azioni delle Spa quotate in borsa.
Sul piano sistematico, la novità è di grande rilevanza. Le quote di Srl, che siano standardizzate e che adottino la forma scritturale, finiscono infatti per sovrapporsi in tutto e per tutto alla nozione delle azioni di Spa con la medesima forma scritturale.
Al di là dei profili generali, la norma pone delicate questioni interpretative, che vengono esaminate dalle massime in questione. Anzitutto si afferma che la decisione volta ad adottare il regime della dematerializzazione deve necessariamente consistere in una modificazione dello statuto, mediante l’introduzione di un’apposita clausola.
La massima 214, inoltre, affronta l’aspetto forse di maggior incertezza interpretativa della novella. Si tratta della portata applicativa della dematerializzazione, al cui riguardo la massima afferma la legittimità di diverse ipotesi, che potrebbero sembrare non direttamente rientranti nella lettera della legge:
in primo luogo, si chiarisce che non può in alcun modo distinguersi tra le categorie speciali e le quote ordinarie: anche queste ultime, infatti, se vi sono altre categorie, costituiscono una categoria, e pertanto non vi sono motivi per negare l’ammissibilità della loro dematerializzazione;
in secondo luogo, si afferma che la dematerializzazione può riguardare tutte le categorie di quote in cui è suddiviso il capitale sociale: non è cioè necessario che vi sia almeno una categoria di quote non dematerializzate, né al limite almeno una sola quota non dematerializzata;
si sostiene inoltre che la dematerializzazione può essere prevista dallo statuto anche in mancanza di categorie di quote e, quindi, indistintamente per tutte le quote in cui è suddiviso il capitale;
infine, si ammette la dematerializzazione anche per le quote prive di indicazione del valore nominale, purché rappresentanti la medesima frazione del capitale sociale, analogamente a quanto dispone, per le azioni, l’articolo 2346, comma 2, Codice civile.
Al di là degli ulteriori problemi interpretativi affrontati dalle massime, vale la pena osservare che questa forma delle quote non riguarda la maggior parte delle Srl, con pochi soci e con ridotta circolazione delle quote. Essa potrebbe invece diventare molto interessante per i casi di società con un alto numero di soci e con loro possibile variabilità, vuoi perché raccolgono capitali con forme di crowdfunding, vuoi perché si aprono a mutevoli forme di partecipazione, come avviene per consorzi in forma di Srl o per società che si ritirano dal mercato pur mantenendo molti soci.
È chiaro che in tutti in questi casi l’aspetto decisivo consisterà nei costi di adesione al sistema multilaterale di negoziazione (a carico della società) e al ricorso agli intermediari autorizzati (a carico dei soci). È su questo terreno che si vedrà se il nuovo istituto rimarrà sulla carta oppure rappresenterà una valida alternativa alle quote iscritte nel registro delle imprese.
Professore di diritto commerciale all’università Bocconi, Notaio in Milano, Coordinatore della Commissione Società
del Consiglio Notarile di Milano
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Sul tabellone turni non indicabili i motivi di assenza dei dipendenti
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 16 Settembre 2025 di Giampiero Falasca
Il datore di lavoro non può diffondere, neppure in forma di sigle o abbreviazioni, i motivi delle assenze dei dipendenti tramite bacheche aziendali o comunicazioni interne, in quanto queste comunicazioni violano il diritto alla riservatezza dei lavoratori. È questo il principio affermato dal Garante per la protezione dei dati personali con il provvedimento 363/2025 del 23 giugno scorso.
La vicenda prende avvio da un reclamo sindacale di alcuni lavoratori del settore trasporto, i quali lamentavano che l’azienda avesse reso conoscibili a tutto il personale le ragioni delle assenze, riportate nei turni affissi nei depositi e inviati via e-mail. Le tabelle indicavano sigle quali “MAL” (malattia), “INF” (infortunio), “104” (permesso legge 104/1992), “PS” (permesso sindacale), rendendo così accessibili informazioni idonee a rivelare lo stato di salute o l’appartenenza sindacale dei colleghi.
La società ha sostenuto che l’uso di sigle garantiva trasparenza e preveniva conflitti tra i lavoratori chiamati a sostituire i colleghi assenti, e ha richiamato l’articolo 10 della legge 138/1958, che impone alle imprese di trasporto di affiggere i turni di servizio. Nel corso del procedimento presso il Garante, ha comunque modificato la prassi, sostituendo le sigle con la sola lettera “A”, a indicare genericamente l’assenza.
Il Garante ha ritenuto tale trattamento illecito, sottolineando che la comunicazione dei motivi dell’assenza integra una violazione dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c (principio di minimizzazione) e dell’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento Ue 2016/679 (il Gdpr). La normativa consente al datore di trattare dati particolari – come quelli relativi a salute o sindacato – solo se necessario per adempiere a obblighi di legge o contrattuali. Nel caso esaminato, l’indicazione delle cause dell’assenza non era indispensabile alla gestione della turnazione.
Il richiamo all’articolo 10 della legge 138/1958 non è stato ritenuto idoneo a fondare la liceità del trattamento: la disposizione si limita a prevedere l’affissione dei turni di servizio, senza autorizzare la divulgazione dei motivi di assenza. Ne consegue che i colleghi non possono essere considerati soggetti legittimati ad accedere a dati di natura sanitaria o sindacale, che devono rimanere riservati a chi è autorizzato al trattamento.
L’Autorità ha inoltre richiamato i propri precedenti (provvedimenti 341/2014 e 105/2020), nei quali era già stato affermato che i lavoratori non sono legittimati a conoscere i dettagli delle assenze dei colleghi, proprio perché si tratta di dati eccedenti e sensibili. Le linee guida del 2007 sul trattamento dei dati dei dipendenti in ambito pubblico sono state ribadite come parametro interpretativo valido anche per i datori di lavoro privati.
Alla luce di tali rilievi, il Garante ha dichiarato illecito il trattamento e, applicando i criteri del Gdpr, ha comminato una sanzione amministrativa pecuniaria di 10mila euro. È stata altresì disposta la pubblicazione del provvedimento sul sito istituzionale, a fini dissuasivi e di trasparenza.
La decisione consolida un orientamento: l’esigenza di informare il personale sull’organizzazione dei turni non legittima la diffusione di dati sensibili eccedenti. La regola resta quella della minimizzazione, cioè l’informazione deve essere limitata a quanto strettamente necessario allo svolgimento del rapporto di lavoro.
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Se si autorizza un pagamento la banca non è tenuta al rimborso
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 27 Settembre 2025 di Antonio Criscione
DECISIONI ABF
Con il bonifico istantaneo è vietato sbagliare. L’Arbitro bancario finanziario (Abf) che si è espresso già alcune volte sul tema del bonifico istantaneo, ha dato torto al titolare del conto, anche quando era stato indotto a fare il bonifico con una truffa. Rincorrere il truffatore è praticamente impossibile, ma quando si fa qualcosa in modo cosciente e deliberato non è possibile neanche rifarsi con la banca.
Andiamo con ordine. Il bonifico istantaneo permette di trasferire denaro sul conto del beneficiario in meno di dieci secondi. Può essere fatto in qualsiasi momento, tutti i giorni dell’anno, 24 ore al giorno. «Non ci sono – afferma l’avvocato Letizia Vescovini – limiti all’importo del bonifico istantaneo ma normalmente è consigliato fissare un importo massimo a garanzia della sicurezza della transazioni: la possibilità di impostare limiti personalizzati, sia a livello giornaliero sia per singola operazione, liberamente modificabili in qualsiasi momento è uno strumento di protezione del titolare del conto».
Per contrastare le truffe dal prossimo 9 ottobre 2025, tutti gli operatori dovranno consentire all’utente di verificare la corrispondenza dell’Iban indicato e del nome del beneficiario, prima di autorizzare l’operazione tramite bonifico istantaneo, senza alcun costo aggiuntivo (meccanismo del “Verification of Payee“). «Questo preventivo controllo – aggiunge Vescovini – potrà limitare gli errori ma non sempre proteggerà i clienti bancari dalle truffe, frodi sempre più diffuse visto che alle tecniche di frode tradizionali si sono affiancate tecniche di cosiddetto social engineering. Le indicazioni che emergono dalle decisioni dell’Abf vanno nel senso che se il cliente è indotto in modo truffaldino a disporre un bonifico a favore di un terzo, con l’inserimento volontario delle credenziali la banca è esonerata da responsabilità».
In questo senso va la decisione 12842 del 13.12.2024 del collegio Abf di Milano nel caso di una truffa denominata “social hacking” che si caratterizza in quanto le istruzioni manipolative vengono impartite telefonicamente dal terzo “truffatore” al titolare del rapporto, lasciando che sia lo stesso titolare a disporre e ad autenticare il pagamento senza che il truffatore venga a conoscenza dei codici di accesso. La tutela del cliente rispetto alla banca c’è se si tratta di operazioni non autorizzate, ma se l’operazione è autorizzata dall’utilizzatore, non ci si può rivalere sull’intermediario. Anche il Collegio di Roma (decisione n. 1907/2021) in una vertenza analoga, ha ritenuto che «per quanto la volontà del cliente di effettuare tale operazione sia stata viziata per effetto del raggiro subìto dal terzo ignoto, il previo consenso autorizzativo dell’istante appare dirimente per escludere la natura indebita del pagamento e, correlativamente, l’esistenza di un obbligo restitutorio in capo alla convenuta».
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Email personale inviolabile anche se sul server aziendale
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 4 Settembre 2025 di Giuseppe Bulgarini d’Elci
L’accesso alla posta elettronica personale dei lavoratori non è consentito al datore di lavoro per finalità difensive, neppure se le email sono state rinvenute sul server aziendale e sul personal computer assegnato ai dipendenti.
È da respingere la tesi per cui, essendo il datore titolare dei sistemi informatici aziendali sui quali erano confluite le comunicazioni personali degli account privati dei lavoratori, si trattava di corrispondenza “aperta” che, come tale, il datore poteva utilizzare in sede giudiziale. Al contrario, si deve ritenere che gli account privati dei dipendenti conservino il carattere di corrispondenza “chiusa” anche se i lavoratori hanno utilizzato il personal computer in dotazione per la posta elettronica personale e le loro comunicazioni sono confluite sul server aziendale.
Per la Cassazione (sentenza 24204/2025), è dirimente che le comunicazioni acquisite dal datore provenissero da account di posta elettronica personali dei lavoratori protetti da una password, perché, sebbene essi fossero inseriti sul server aziendale, si tratta comunque di espressione della vita privata e di diritto di corrispondenza tutelati, tra l’altro, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 8).
La causa è stata promossa dal datore di lavoro per atti di concorrenza sleale e violazione dei doveri di fedeltà e diligenza da parte di alcuni dipendenti che, nel frattempo, hanno interrotto il rapporto. Per supportare la domanda risarcitoria, il datore ha prodotto una consulenza tecnica informatica contenente le email private dei lavoratori. In primo grado il ricorso dell’azienda è stato parzialmente accolto e i lavoratori, una volta accertate la concorrenza sleale e le condotte infedeli, condannati a risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni ricevute nell’ultima fase dei rapporti di lavoro (incluse le competenze di fine rapporto).
La Corte d’appello di Milano ha riformato la decisione, ritenendo inutilizzabili gli esiti della consulenza informatica, perché l’accesso agli account privati dei lavoratori, benché inseriti sul server aziendale, costituisce violazione del diritto di vita privata e di corrispondenza. La Cassazione conferma la sentenza e rimarca che le comunicazioni dei dipendenti tramite l’account privato ricadono nelle nozioni di “vita privata” e di “corrispondenza” anche se sono trasmesse dai locali aziendali e non sono utilizzabili per un’azione giudiziale risarcitoria.
Nel bilanciamento dei contrapposti interessi, il controllo datoriale soggiace ai limiti della proporzionalità (nel senso di utilizzo della modalità meno intrusiva) e della preventiva informazione ai lavoratori sui possibili controlli. Nel rispetto di questi limiti, cui il datore è tenuto a presidio della riservatezza dei dipendenti, è illegittima la conservazione dei dati personali dei lavoratori relativi alla posta elettronica privata, tanto più se acquisiti mediante sistemi di controllo rispetto ai quali non è stata osservata la procedura dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e non è stato raccolto il consenso individuale.
Il trattamento dei dati relativi alle email estratte dagli account privati, in assenza di queste condizioni, costituisce, altresì, violazione del divieto di indagini sulle opinioni e sulla vita personale del lavoratore.
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Controlli sul dipendente poco efficiente
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 11 Settembre 2025 di Angelo Zambelli
Lo scarso rendimento può giustificare il controllo del dipendente tramite agenzia investigativa. La Corte di cassazione (ordinanza 24564/2025 riguardante il licenziamento di un “letturista”), conferma che il controllo tramite investigatori è legittimo se volto ad accertare comportamenti «che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente», come tali estranei alla ordinaria attività lavorativa.
Ciò premesso, la Corte prosegue distinguendo tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale e i «controlli difensivi in senso stretto»: i primi, riguardando tutti i dipendenti «nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio», devono necessariamente rispettare le prescrizioni dell’articolo 4, dello Statuto dei lavoratori, mentre i secondi non sono soggetti alle restrizioni previste da tale norma, trovando la loro giustificazione nella presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito: solo a partire dal sorgere di quel sospetto il controllo “mirato” è legittimo.
In questo caso, conclude la Corte, prima dei fatti specificamente contestati, il datore di lavoro disponeva già di elementi – quali un inspiegato minor rendimento del lavoratore rispetto ai colleghi – che ne legittimavano un controllo più specifico e mirato. Tale controllo, effettuato con uno strumento di indagine «che risulta essere il meno invasivo tra quelli concretamente disponibili e comunque utili allo scopo», ha permesso di accertare condotte «non prive di note di fraudolenza», legittimando quindi il licenziamento per giusta causa.
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Transfer pricing, sotto esame i requisiti per la rilevanza Iva
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 1 Ottobre 2025 di Massimo Bellini Stefano Pavesi
La sentenza della Corte di giustizia Ue nella causa C-726/23 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 settembre) e le più recenti risposte pubblicate dall’agenzia delle Entrate (ad esempio 60/2018, 884/2021, 529/2021, 266/2024 e 214/2025) suggeriscono una attenta riflessione sul comportamento da adottare ai fini Iva in presenza di aggiustamenti sui prezzi di trasferimento.
La posizione dei giudici Ue e della prassi italiana, nel riconoscere la possibile rilevanza Iva degli aggiustamenti Tp, è coerente con i principi unionali espressi nei working paper del 2017 e 2018, ma attribuisce rilevanza anche agli aspetti documentali. Questi gli aspetti principali.
Innanzitutto i casi vanno valutati specificamente, tenendo conto di tutte le circostanze che concretamente caratterizzano l’operazione in questione tra cui, in particolare, la sua realtà economica e commerciale.
Vi sono poi tre requisiti che, qualora soddisfatti, rendono l’aggiustamento Tp rilevante ai fini Iva:
1 devono essere individuate le cessioni di beni o prestazione di servizi: in entrambi i casi (ma il tema sembra essere più rilevante per i servizi) il contribuente deve essere in grado di predisporre adeguata documentazione comprovante le prestazioni effettuate in aggiunta alla sola fattura (se essa non è idonea a fornire tale dimostrazione). È importante sottolineare che secondo i giudici europei le prove devono comunque limitarsi al necessario ed essere proporzionate per tale valutazione;
2 vi è un nesso diretto tra la cessione/prestazione e l’aggiustamento Tp, che deve avere funzione di corrispettivo realmente percepito dal cedente/prestatore. La valutazione è qualitativa, non quantitativa, in quanto volta ad individuare se l’aggiustamento Tp costituisca l’assolvimento di un obbligo/corrispettivo di una cessione/prestazione;
3 devono essere specificamente individuate le operazioni rilevanti a cui l’aggiustamento/corrispettivo è collegato.
Anche sotto quest’ultimo aspetto la documentazione è essenziale per supportare l’approccio del contribuente. In tal senso sarà importante avere un contratto intercompany da cui si evince un prezzo iniziale e provvisorio oggetto di periodica revisione, e altri documenti da cui si evinca la allocazione analitica delle singole rettifiche sulle varie operazioni, ad esempio in caso di cessione di beni, un prospetto di ripartizione dell’aggiustamento sul valore dei singoli beni. Si ritiene che anche la predisposizione degli oneri documentali di Tp contribuisca a supportare l’approccio adottato. Si noti che non è il metodo adottato a determinare la rilevanza Iva degli aggiustamenti ma la natura che la politica di Tp attribuisce agli stessi. Anche applicando una metodologia reddituale come il Tnmm, è possibile dare rilevanza Iva agli aggiustamenti qualora gli stessi vengano ripartiti sulle sottostanti compravendite di beni o servizi.
Pertanto in assenza di questi requisiti, gli aggiustamenti non rilevano ai fini Iva. Riprendendo ad esempio un dubbio sollevato sul caso della causa C-726/23, qualora il corrispettivo sia nullo o addirittura negativo, l’operazione non dovrebbe rilevare ai fini Iva (anche se il tema non è affrontato da giudici e non lo è adeguatamente da parte dell’avvocato generale Ue).
Infine occorre considerare che la rilevanza Iva degli aggiustamenti Tp per alcuni soggetti può avere effetti finanziari significativi. Si pensi in particolare ai casi in cui l’aggiustamento riguarda le operazioni esenti o imponibili di operatori che soffrono il pro-rata di detrazione o le operazioni verso l’estero effettuate da esportatori abituali.
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Prova della residenza estera anche senza iscrizione Aire
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 29 Settembre 2025 di Michela Magnani
Fiscalità internazionale
Nel 2024, ho vissuto per oltre 183 giorni in Polonia, avendovi un contratto a tempo indeterminato dal 1° febbraio 2024 e un contratto di affitto dal 1° gennaio al 31 dicembre 2024, e avendo quel Paese come centro degli interessi personali ed economici. Lo Stato polacco mi considera fiscalmente residente e mi ha rilasciato il certificato di residenza fiscale. Poiché, però, non mi sono iscritto all’Aire, formalmente risulto residente anche in Italia. Tuttavia, secondo la convenzione Italia-Polonia contro le doppie imposizioni (articolo 4), sarei da considerare residente fiscale in Polonia (abitazione permanente, interessi vitali e soggiorno abituale). Non ho familiari né immobili in Italia, e il mio unico reddito proviene dal lavoro in Polonia. In questa situazione, devo comunque presentare la dichiarazione dei redditi 2025 (relativa al 2024) anche in Italia?
Secondo l’articolo 2, comma 2, del Tuir (Dpr 917/1986), come modificato dal Dlgs 209/2023, e in vigore dal 1° gennaio 2024, e come precisato dalla circolare dell’agenzia delle Entrate 20/E/2024, si considerano fiscalmente residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno, o 184 giorni, in caso di anno bisestile):
– hanno la residenza, a norma del Codice civile, nel territorio dello Stato;
– hanno il domicilio, nella definizione resa dal medesimo articolo 2, comma 2, del Tuir, nel territorio dello Stato;
– sono presenti nel territorio dello Stato, tenuto conto anche delle frazioni di giorno;
– sono iscritte nell’anagrafe della popolazione residente, condizione, quest’ultima, che, dopo le modifiche apportate dal Dlgs citato, non riveste più carattere di “presunzione assoluta”, bensì di “presunzione relativa”, che ammette la prova contraria.
In merito alla mancata iscrizione all’Aire, il paragrafo 2.1.4 della circolare citata sottolinea che, in base alla nuova norma (che si applica alla fattispecie rappresentata dal lettore), l’iscrizione all’Apr (anagrafe della popolazione residente) continua a costituire uno dei criteri alternativi di radicamento della residenza fiscale in Italia, ma ne viene mitigata la valenza presuntiva a favore di un approccio sostanziale, anche in ragione della prevalenza del diritto internazionale pattizio su quello interno. Infatti, anche in vigenza della precedente normativa, il dato formale dell’iscrizione anagrafica poteva essere superato in applicazione delle “tie breaker rules” (criteri di collegamento della persona allo Stato) dettate da eventuali convenzioni contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e il Paese di volta in volta interessato.
Per effetto delle disposizioni in vigore dal 1° gennaio 2024, il presupposto dell’iscrizione all’Apr assume, quindi, efficacia di presunzione relativa, lasciando al contribuente la possibilità di dimostrare che il dato formale è disatteso da una differente situazione fattuale. Di conseguenza, le persone iscritte nell’anagrafe della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta continuano a essere considerate fiscalmente residenti in Italia, a meno che non siano in grado di dimostrare che l’iscrizione anagrafica non corrisponde a una residenza effettiva nello Stato italiano. A tale fine, secondo la circolare citata, il contribuente dev’essere in grado di provare, sulla base di elementi oggettivamente riscontrabili, che, per la maggior parte del periodo d’imposta, non si sia configurato alcuno dei criteri alternativi, diversi da quello anagrafico, previsti dall’articolo 2, comma 2, del Tuir.
Se, quindi, sulla base di un riscontro fattuale, il lettore è in grado di dimostrare che, per la maggior parte del periodo di imposta, non ha avuto in Italia né la residenza civilistica né il domicilio, e non è stato presente fisicamente nel territorio dello Stato, egli, nel 2024, sarà da considerare non residente nel nostro Paese e non sarà, pertanto, tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi, qualora, nello stesso anno, non abbia percepito redditi che, ex articolo 23 del Tuir, si considerano prodotti in Italia da parte di un soggetto non residente.
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Criptovalute, rischi dal Far West di 50mila nuovi token al giorno
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 17 Settembre 2025 di Vito Lops
Nascono come funghi. Il numero di criptovalute in circolazione ha superato quota 21 milioni. Ogni giorno vengono lanciati e resi scambiabili all’interno di un mercato composto da 850 exchange su scala globale non sempre regolamentati, circa 50mila token digitali (fonte Coinmarketcap). La capitalizzazione del settore ha superato per la prima volta nella storia 4mila miliardi di dollari (quattro volte il valore delle azioni quotate a Piazza Affari). Se si escludono però i due progetti più istituzionali, ovvero Bitcoin (capitalizza 2.300 miliardi) ed Ethereum (500 miliardi) e se escludiamo anche la quota di mercato delle principali stablecoin agganciate al dollaro (170 miliardi per Usdt e 73 miliardi per Usdc), possiamo dedurre che i restanti circa 1.000 miliardi sono oggi posizionati su token di vario genere. Dalle superspeculative memecoin a progetti tecnologici sulla carta più seri (come le blockchain Solana, Sui, ecc.) passando per schemi Ponzi conclamati. Un far west di token che, al di là delle intenzioni in buona o mala fede di partenza dei creatori, nascondono in ogni caso un peccato originale che mal si concilia con una logica di investimento di lungo periodo. Perché spesso fanno leva sulla confusione tra il concetto di token e quello di azione. Tra questi due strumenti finanziari c’è un enorme differenza. Un token è emesso da una piattaforma, una start up o una blockchain, dunque sembra naturale immaginare che possederlo equivalga, almeno in parte, a detenere una quota di quella realtà. Ma non è così, e l’equivoco può costare caro.
Le azioni rappresentano un diritto codificato: proprietà, voto, dividendi, partecipazione agli utili e, in ultima istanza, alla liquidazione. Il valore dell’azione è legato alla capacità dell’azienda di generare utili e distribuirne una parte agli azionisti.
Un token, invece, non rappresenta proprietà della blockchain o della società che lo emette, salvo rari casi di security token regolamentati.
Il punto cruciale è che la crescita tecnologica o commerciale di un progetto non implica necessariamente l’aumento di valore del token associato. Anche perché c’è un altro aspetto da considerare: il macigno della diluizione. Spesso i token sono pre-minati e distribuiti in grandi quantità ai fondatori e ai primi investitori. Col passare del tempo, quando questi soggetti decidono di monetizzare, immettono grandi volumi sul mercato, facendo pressione sui prezzi. A differenza del mercato azionario, dove i lock-up e le regole di disclosure sono stringenti, nell’universo cripto la trasparenza è minima e la gestione dell’offerta è a totale discrezione del team di sviluppo. Inoltre, la tokenomics di molti progetti consente emissioni teoricamente illimitate di nuovi token, utilizzati per finanziare le spese operative, pagare gli sviluppatori o incentivare gli utenti tramite programmi di reward. Questa creazione costante di offerta funziona di fatto come una “stampante monetaria interna” e genera una diluizione continua per chi già detiene il token, minando le prospettive di rivalutazione nel lungo termine.
Un ulteriore aspetto da chiarire è la dinamica della quotazione dei token sugli exchange. A differenza delle Ipo tradizionali, che rappresentano l’ingresso regolamentato di una società sul mercato e impongono vincoli di trasparenza e lock-up agli investitori iniziali, nel mondo cripto il listing funziona spesso come una exit strategy per i venture capital. I fondi che hanno acquistato grandi quantità di token a prezzi irrisori nelle fasi di seed o private sale, quando il progetto era ancora embrionale, sfruttano il momento della quotazione per iniziare a liquidare le loro posizioni. Il retail si trova così a comprare a valutazioni già gonfiate, senza conoscere con precisione la distribuzione dei token né i piani di vesting degli insider. Il risultato è che, nei mesi successivi al listing, la pressione in vendita dei primi investitori schiaccia il prezzo, mentre la domanda di nuovi utenti non è sufficiente a compensare. Ecco perché per molti token il debutto sugli exchange non segna l’inizio di una fase di crescita, ma piuttosto il momento in cui il rischio viene trasferito dai professionisti agli investitori al dettaglio.Per questo, chi investe in token deve avere consapevolezza della propria scelta: non sta comprando un pezzo di un’azienda,ma spesso sta remunerando – e a caro prezzo – i finanziatori privati della prima ora.
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Compensi da noleggio senza ritenuta
8 Ottobre 2025
Il Sole 24 Ore 19 Settembre 2025 di Alessandra Caputo
I compensi percepiti in relazione all’attività di noleggio di beni non devono essere assoggettati alla ritenuta a titolo d’acconto prevista dall’articolo 25-bis Dpr 600/1973. Lo precisa la risposta 250 pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate.
L’istanza è stata presentata da una società che aveva sviluppato un software in grado di consentire il noleggio e la vendita online di articoli di abbigliamento e accessori da parte di propri partner e nei confronti di clienti finali.
Con la stipula del contratto con il partner, la società di software si impegnava a realizzare un sito web finalizzato al noleggio online ed alla vendita dei prodotti; a concludere con i clienti, in nome proprio ma per conto del partner, contratti di noleggio dei prodotti attraverso la piattaforma; a concludere con i clienti, tramite la piattaforma, contratti di vendita dei prodotti, alle condizioni dell’Istante ed al prezzo convenuto tra le parti, previo acquisto degli stessi da parte dell’Istante; e a effettuare i servizi, a proprio rischio e con l’organizzazione dei propri mezzi, di deposito e movimentazione dei prodotti. Ciascun partner avrebbe inoltre consegnato i prodotti all’interno del magazzino e gli stessi, in quel momento, sarebbero entrati nella disponibilità dell’Istante che si impegnava a custodirli con diligenza e a utilizzarli esclusivamente per il noleggio o la vendita nei termini e nei modi indicati nel contratto. A fronte dell’attività ogni partner entro il 15 di ogni mese, avrebbe emesso fattura nei confronti dell’Istante per il totale dei corrispettivi dei noleggi effettuati nel mese solare precedente al netto del corrispettivo dell’Istante.
Il dubbio oggetto dell’interpello è se su questi compensi, pagati a fronte del noleggio, si dovesse applicare o meno la ritenuta di cui all’articolo 25-bis del Dpr 600/1973 prevista per i soggetti che corrispondono provvigioni.
La risposta dell’Agenzia è negativa: nell’elenco contenuto nell’articolo 25-bis non sono inclusi i compensi percepiti per l’attività di noleggio. Con riferimento all’oggetto della ritenuta, la circolare ministeriale 24 del 1983 ha specificato che la provvigione da assoggettare a ritenuta è costituita dai compensi percepiti per l’attività svolta dal commissionario, dall’agente, dal mediatore, dal rappresentante di commercio e dal procacciatore d’affari. Tale elencazione, sempre secondo la circolare richiamata, è da considerarsi tassativa. Pertanto, considerato che l’attività di noleggio non rientra in nessuna dei rapporti elencato, nessuna ritenuta è applicabile.
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Il marchio ceduto non è ramo d’azienda
9 Settembre 2025
Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2025 di Alessandro Germani
Ai fini Iva viene confermato che la cessione di marchi, anche se accompagnati da diritti IP (proprietà intellettuale) collegati, non costituisce ramo d’azienda e rileva ai fini del tributo. A livello di transfer pricing poi gli aggiustamenti di prezzo collegati a determinate transazioni rilevano anch’essi.
Nella risposta 210 del 19 agosto viene interrotto un contratto di licenza per acquisire il relativo marchio e i diritti IP collegati e l’istante si domanda se si tratti di una cessione di azienda/ramo, come tale esclusa dal tributo, o di una prestazione di servizi imponibile Iva (con il registro in misura fissa per il principio di alternatività). Nel confermare quest’ultima tesi e nel richiamare i precedenti unionali e di prassi amministrativa sulla nozione di azienda e di ramo, le Entrate evidenziano i driver per capire come vada inquadrata l’operazione. Non si tratta infatti di ramo perché sono ceduti degli asset isolati, non c’è passaggio di personale, non sono cedute le relazioni finanziarie, commerciali e personali né ci sono subentri. Il marchio quindi si configura come un servizio la cui cessione è imponibile ex articolo 3 del Dpr 633/72. Ciò vale anche nel caso in cui con esso si cedano i diritti IP collegati per lo sfruttamento del marchio stesso.
La risposta 214 riguarda degli aggiustamenti di Tp fra società del medesimo gruppo effettuati a livello trimestrale per adeguarsi alle risultanze del metodo del Tnmm (transactional net margin method) utilizzato mediante il Ros (reddito operativo/vendite) per verificare che il prezzo operato sia di libera concorrenza. Il caso di specie appare piuttosto laborioso in quanto gli aggiustamenti sono effettuati su base trimestrale, quando nella prassi generalmente sono effettuati su base annua a consuntivo. Sulla base dei risultati a quel punto scatterà una variazione in aumento o in diminuzione entro 45 giorni dalla fine del trimestre di riferimento. Occorre quindi comprendere se gli aggiustamenti siano rilevanti ai fini Iva, il che determina in acquisto la detrazione dell’Iva, che le Entrate avevano contestato in accertamento. L’Agenzia richiama il Working Paper n. 923 del 2017 della Commissione Europea e il documento del 18 aprile 2018 n. 081 REV2 del VAT Expert Group. In base a tali pronunce gli aggiustamenti sono generalmente esclusi da Iva, a meno che non si configurino come variazione di corrispettivo e siano collegati direttamente alla fornitura iniziale. La stessa Agenzia nella risposta 60/18 e 529/21 ha evidenziato per la rilevanza Iva i seguenti tre elementi:
onerosità dell’operazione;
individuazione dell’operazione a cui si riferisce il corrispettivo;
collegamento diretto.
Nel caso di specie sono effettuati aggiustamenti periodici in base al Tnmm con variazioni in aumento o in diminuzione, vi è un documento ( breakdown) da cui si evincono gli aggiustamenti e le operazioni a cui essi si riferiscono, motivo per cui c’è un collegamento diretto. L’operazione rileva quindi ai fini Iva come non imponibile, oppure con emissione di autofattura in caso di acquisti di beni in Italia da soggetto non residente.