Categoria: Dall’Italia
Imposte e sanzioni inseguono i trasferimenti fittizi all’estero di società
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 11 Novembre 2025 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Se la società si trasferisce fittiziamente all’estero, gli amministratori formali o di fatto possono rispondere delle imposte e delle sanzioni, poiché non valgono le regole previste per la cancellazione dal registro imprese. A tal fine il giudice deve verificare che l’ente sia un mero schermo e che il rapporto fiscale faccia capo direttamente alle persone fisiche.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 29575 depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate emetteva avvisi di accertamento nei confronti di alcuni soggetti ritenuti amministratori di fatto di una società, richiedendo imposte, interessi e sanzioni.
Più precisamente, secondo l’Ufficio l’ente si era fittiziamente trasferito all’estero e gli amministratori di fatto dovevano rispondere dei tributi evasi e delle relative sanzioni.
I giudici di primo grado cui si rivolgevano gli interessati annullavano gli atti, ritenendo che l’Agenzia non avesse provato né il ruolo di amministratori di fatto, né che avessero compiuto atti, per i quali in base alla normativa potesse derivare la loro responsabilità personale.
L’appello dell’Ufficio era respinto.
L’Agenzia ha così proposto ricorso per Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, l’errata applicazione delle norme disciplinanti la responsabilità in caso di liquidazione e cessazione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile, e 36 del Dpr 602/73, nonché in materia di sanzioni per gli amministratori di fatto (articolo 7 Dl 269/2003).
I giudici di legittimità hanno accolto tale eccezione, rilevando preliminarmente che, secondo l’Ufficio, il trasferimento della sede all’estero era inesistente, in quanto centro effettivo di direzione e controllo e l’attività della società erano rimasti in Italia. Si era trattato cioè di un trasferimento fittizio all’estero.
Per la Cassazione la cancellazione di società dal registro imprese italiano, avvenuta non a compimento del procedimento di liquidazione o cessazione, ma per il trasferimento all’estero, presuppone il proseguimento dell’attività in altro Stato.
In tale ipotesi, non è applicabile la previsione prevista per l’estinzione (articolo 2495 del codice civile ) tanto meno la responsabilità sussidiaria degli amministratori, liquidatori e soci (articolo 36 del Dpr 602/73).
Tuttavia, se il trasferimento è fittizio, mancando l’effettiva prosecuzione dell’attività, il giudice deve verificare lo spostamento dell’imponibile in capo al soggetto “gestore” della società.
In tale contesto, peraltro, i giudici di legittimità hanno precisato che ai fini della responsabilità è irrilevante se si tratti di amministratore formale o di fatto, in quanto occorre riscontrare se il soggetto terzo all’ente si comporti come colui che autonomamente gestisce e dirige le risorse della società ed anche, se del caso, indipendentemente dagli interessi di questa.
Per tale ragione, rappresentando l’ente un mero schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari, anche le sanzioni sono a carico della persona fisica autrice dell’illecito.
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Transfer pricing, scelta del metodo di valutazione su misura del singolo caso
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 5 Novembre 2025 di Marco Piazza
Spetta all’interprete individuare fra i diversi criteri forniti dalle norme tecniche sui prezzi di trasferimento (transfer pricing) quello più aderente alla fattispecie concreta, tenendo presente lo scopo perseguito dall’articolo 110, comma 7, del Tuir. Queste in sintesi le massime desumibili dall’ordinanza 29083/2025 della Cassazione che conferma la precedente 26432/2024.
Nell’articolata motivazione della pronuncia, che ricalca quella della precedente n. 2853/2024, si convalida l’utilizzo del cosiddetto transactional net margin method (Tnmm) posto, dalle linee guida Ocse 2017 (ora aggiornate con la versione 2022) sullo stesso piano dei metodi basati sul confronto di prezzo a differenza delle linee guida del 1995 che privilegiavano i metodi tradizionali di determinazione del prezzo di libero mercato.
Afferma la Cassazione che l’adozione del Tnmm risulta particolarmente affidabile quando l’analisi funzionale mostra l’esistenza di una parte (parte testata o tested party) della transazione controllata che svolge funzioni più semplici ed assume i rischi limitati rispetto all’altra parte della transazione (paragrafo 2.64 e successivi Oecd). In analogia con il metodo Rpm (Resale price method, metodo del prezzo di rivendita) o Cpm (Cost plus method, metodo del costo maggiorato), esso si focalizza sulla redditività della parte testata nella transazione controllata, mentre se ne discosta poiché opera a livello di marginalità netta e non di marginalità lorda.
Nella fattispecie, viene ribadita una conclusione ripresa dalla sentenza 26432/2024 secondo la quale il Tnmm sarebbe più adatto nel caso di cessione di beni infragruppo a basso rischio, a causa dell’unicità del centro di produzione che opera sostanzialmente su ordini già confermati. In assenza di un mercato aperto, il sistema di Tnmm risulta più aderente rispetto al Cup, perché il margine di guadagno è criterio più indicativo rispetto al prezzo che non è frutto di libero mercato.
Altra giurisprudenza (Cassazione n. 1311/2025) ritiene invece che sia rimasta una preferenza implicita per il metodo del confronto di prezzo, che comporta un onere di specifica motivazione delle ragioni per cui si preferiscono altri metodi, nella specie il Tnmm. Secondo questa sentenza citata, l’articolo 4, comma 3, del Dm 14 maggio 2018 prevederebbe espressamente una preferenza per i metodi tradizionali e in particolare per il metodo di confronto del prezzo, ove praticabile.
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Autonoleggio, lecito spostare la sede a scopo di risparmio
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 6 Novembre 2025 di Stefano Sirocchi
Non costituisce abuso del diritto la società di noleggio auto che trasferisce la sede legale in una provincia più conveniente. La Corte di giustizia tributaria di Roma, con sentenza 13178/2025, ha accolto il ricorso di una società di autonoleggio a breve termine avverso un avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 2020 emesso dalla Regione Lazio per aver trasferito la sua sede legale a Bolzano, beneficiando delle minori tariffe delle tasse automobilistiche (“bollo auto”) vigenti in tale provincia.
In particolare, il giudice ha stabilito che non costituisce abuso del diritto il trasferimento, avvenuto nel 2013, in quanto «manca, in primo luogo, la norma fiscale che sarebbe stata rispettata solo formalmente ma sostanzialmente elusa», atteso che il presupposto impositivo territoriale di tale imposta è collegato al luogo di iscrizione nel Pra e non alla sede legale della società, come specificato, non solo dalle norme nazionali, ma anche dalla stessa legge regionale del Lazio.
Inoltre, non sono stati ritenuti «sufficienti gli indizi prospettati dalla Regione Lazio della non veridicità del trasferimento della sede legale della società da Roma a Bolzano», considerato che non solo tale scelta è stata regolarmente deliberata dal Consiglio di amministrazione della società e nessuna norma «impone che tale sede sia dotata di un numero minimo di addetti».
Secondo il giudice, affinché l’abuso sia escluso è sufficiente che l’ubicazione nelle Province autonome della sede legale da parte delle società di autonoleggio non sia una costruzione di puro artificio ovvero che sia giustificata da valide ragioni extra-fiscali.
Ne consegue che, a tale fine, non è necessario che la sede amministrativa di queste società sia situata nelle Province medesime, in quanto, come accennato, le norme che identificano il presupposto impositivo territoriale del bollo auto non ne fanno alcuna menzione e le nozioni di sede legale e di sede amministrativa sono fra loro ben distinte e non interscambiabili, com’è normativamente confermato anche dallo stesso articolo 58 del Dpr 600/1973 che radica il domicilio fiscale delle persone giuridiche presso la sede legale e solo, in mancanza, presso la sede dell’amministrazione.
La lettura del giudice è pienamente condivisibile e, pur non essendo indicato nella sentenza, è opportuno sottolineare che i veicoli devono essere iscritti al Pra della Provincia in cui vengono immatricolati e l’immatricolazione può essere eseguita dove una società abbia non solo la sede legale, ma anche una sede secondaria (circolare MOT3/3583/M360 del 3 novembre 2004, ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti).
Peraltro, come correttamente osserva il giudice, la circostanza che lo spostamento della sede incida sulle risorse fiscali delle Regioni richiede una soluzione di natura normativa alla quale il Governo sembra aver recentemente inteso porre rimedio. Infatti, lo schema di decreto legislativo sulla riforma dei tributi regionali e locali e del federalismo fiscale, attualmente all’esame parlamentare, propone l’introduzione di nuovi criteri di territorialità per la tassa automobilistica. Tali criteri, tuttavia, dovranno essere attentamente valutati, al fine di garantire che in futuro non si generi nuovo contenzioso.
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Procacciatore d’affari caratterizzato da occasionalità
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 31 Ottobre 2025 di Paola Grattieri e Alessandro Limatola
Con l’ordinanza 27571/2025, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi su una questione tanto frequente quanto insidiosa: la distinzione tra contratto di agenzia e procacciamento d’affari. Un tema tutt’altro che teorico, poiché dalla corretta qualificazione del rapporto dipendono obblighi contributivi, previdenziali e, non di rado, costi rilevanti in caso di errata impostazione contrattuale.
Il giudizio trae origine dal ricorso di una società contro la Fondazione Enasarco, che aveva richiesto il versamento dei contributi previdenziali per tre intermediari commerciali. L’impresa sosteneva si trattasse di semplici procacciatori d’affari, tuttavia, la Corte d’appello di Roma prima e la Cassazione poi hanno riconosciuto la natura di rapporti di agenzia, confermando così l’obbligo di iscrizione e contribuzione all’ente.
Il nodo della controversia risiede nella sottile linea di confine tra le due figure. La Cassazione ha più volte ribadito che il contratto di agenzia si caratterizza non solo per la stabilità e la continuità dell’attività promozionale, ma anche perché dà vita a una collaborazione professionale autonoma e non episodica, svolta a proprio rischio e nel rispetto dei principi di correttezza e fedeltà, nonché delle istruzioni generali impartite dal preponente, pur mantenendo piena indipendenza operativa (articolo 1746 del Codice civile).
Diversa è la fisionomia del libero procacciatore d’affari, figura atipica non disciplinata espressamente dal Codice civile. Si tratta di un collaboratore del preponente che si limita a raccogliere ordinazioni o proposte di contratto da parte di potenziali clienti, trasmettendole all’impresa mandante, senza disporre di poteri di rappresentanza, né di un vincolo di esclusiva. La sua attività è, per natura, episodica o non stabile, e si esaurisce nella mera segnalazione di affari, senza obbligo di promozione costante o di coordinamento con il preponente.
Pur presentando affinità con l’agente, il procacciatore se ne distingue per la mancanza di stabilità e continuità. Al suo rapporto possono applicarsi solo in via analogica alcune disposizioni previste per il contratto di agenzia, ma esclusivamente se compatibili con la natura occasionale della prestazione. Mentre l’agente di commercio si inserisce stabilmente nella rete del preponente con un ruolo di promozione costante, il procacciatore d’affari opera in modo libero e occasionale, mosso dalla propria iniziativa: una distinzione che può apparire sottile, ma che nella pratica si traduce in differenze sostanziali in termini di diritti economici, tutele contrattuali e obblighi previdenziali.
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Non va tassato il privato che cede un marchio
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 18 Novembre 2025 di Andrea Taglioni
Il corrispettivo percepito a seguito della cessione del marchio da parte di un soggetto privato non determina nessun presupposto d’imposta che possa far nascere l’obbligazione tributaria in capo al contribuente. È quanto deciso dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana con la sentenza n. 1000/3/2025.
Il tema della tassabilità delle somme ricevute per la cessione di un marchio da parte di una persona fisica che non agisce in qualità di imprenditore o lavoratore autonomo è oggetto di un acceso dibattito interpretativo, stante l’assenza di una norma che riconduca la specifica fattispecie in una delle categorie reddituali indicate dall’articolo 6 del Tuir.
Nell’attuale contesto, infatti, non c’è alcuna precisa regola, a differenza di quanto stabiliva il previgente articolo 49 del Dpr 597/73, che riconduce i redditi derivanti dallo sfruttamento del marchio, se non conseguiti nell’esercizio d’impresa, tra i redditi di lavoro autonomo.
Data questa assenza, il dibattito non può che concentrarsi sulla possibilità di ricondurre tale provento nella categoria residuale dei redditi diversi, che attrae a tassazione quelli derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.
Nell’affrontare tale questione i giudici di secondo grado, confermando la sentenza impugnata, hanno escluso che la cessione del marchio, da parte di un privato, possa far emergere materia imponibile.
L’interpretazione giuridica della Corte si fonda sull’assunto che con la vendita del bene immateriale – che può essere ceduto indipendentemente dal trasferimento dell’azienda o di un suo ramo – il contribuente non ha più il diritto di proprietà e non assume, quindi, un obbligo di permettere l’uso di un bene che non è più nella sua disponibilità.
Il corrispettivo ricevuto a fronte della cessione del marchio non derivando dall’assunzione di un’obbligazioni di fare, non fare o permettere impedisce di applicare l’articolo 67, comma 1, lettera 1), del Tuir oltre ai casi ivi contemplati.
Pertanto, l’indicazione delle categorie reddituali, previste dall’articolo 67 del Tuir, delinea e circoscrive, tassativamente, i singoli redditi che fanno scattare il presupposto per l’imposta e quindi la sua tassazione con conseguente impossibilità di applicare per analogia norme previste per altre e distinte fattispecie.
Solo un intervento chiarificatore del legislatore o un orientamento nomofilattico potrà risolvere l’evidente incertezza giuridica e interpretativa che permane sulla tassabilità, o meno, della cessione del marchio da parte di un privato.
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Stabile organizzazione, nessun automatismo per il lavoro da remoto
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 21 Novembre 2025 di Raffaele Russo
L’Ocse ha pubblicato l’aggiornamento 2025 del commentario al modello di Convenzione contro le doppie imposizioni, con un capitolo dedicato al lavoro transfrontaliero da remoto. È un intervento atteso, che prova a dare certezza in un’area dove i modelli organizzativi post pandemia hanno reso più labili i confini tra flessibilità del lavoro e rischi fiscali. Il cuore della novità è nel commentario all’articolo 5 (stabile organizzazione), che viene riformulato in modo sostanziale con nuovi paragrafi 44.1–44.21 e la soppressione di precedenti indicazioni.
Cosa cambia
L’Ocse ribadisce un principio di fondo: l’esistenza di una stabile organizzazione richiede un’analisi caso per caso, fondata su fatti e circostanze, senza scorciatoie automatiche. Il semplice utilizzo di un luogo da parte di un dipendente o collaboratore non basta, di per sé, a renderlo una «sede d’affari» dell’impresa. Occorre verificare se il luogo è «fisso», se le attività svolte vi si realizzano con regolarità e continuità e, soprattutto, se il luogo è effettivamente a disposizione dell’impresa in funzione delle sue esigenze commerciali.
La soglia del 50%
Una delle novità più operative è l’indicazione di una soglia di fatto: se, in un periodo di 12 mesi, l’individuo lavora da casa o da altro luogo rilevante per meno del 50% del tempo complessivo di lavoro per l’impresa, in linea generale quel luogo non costituirà stabile organizzazione. Se la soglia è raggiunta o superata, serve invece un’analisi ulteriore.
La «ragione commerciale»
Elemento decisivi ai fini di tale analisi diventa la presenza di una ragione commerciale perché l’attività sia svolta nell’altro Stato. In termini pratici, c’è ragione commerciale quando la presenza fisica dell’individuo in quello Stato facilita lo svolgimento del business dell’impresa: per esempio, l’interazione con clienti o fornitori, l’accesso a risorse locali o la necessità di presidio per erogare servizi in tempo reale. Non bastano però, da sole, la presenza di clienti nello Stato, differenze di fuso orario o scelte dettate unicamente da risparmio di costi o comodità del lavoratore.
Se manca la ragione commerciale, normalmente manca anche la stabile organizzazione, pur in presenza di un uso regolare del luogo.
Gli esempi che orientano l’applicazione
Il commentario offre esempi utili che, pur non vincolanti, orientano l’interpretazione, come:
un utilizzo temporaneo di tre mesi in un anno non conferisce di regola il requisito della «fissità»;
lavorare da casa uno o due giorni alla settimana per un totale del 30% del tempo, anche se continuativo sull’anno, non porta a una stabile organizzazione in assenza di ulteriori elementi;
al contrario, se l’individuo lavora da casa per l’80% del tempo e incontra regolarmente clienti nello Stato, la ragione commerciale è evidente e la stabile organizzazione può configurarsi;
nel caso in cui si superi il 50% ma l’attività sia resa a distanza e senza reale necessità di presenza locale, non si forma stabile organizzazione;
viceversa, quando lo svolgimento dell’attività del dipendente in quello Stato consente di assicurare servizi in tempo reale ai clienti in altri fusi orari, la ragione commerciale può sussistere e il rischio di stabile organizzazione cresce;
particolare attenzione è richiesta quando l’individuo è, di fatto, l’unico o il principale soggetto che svolge l’attività dell’impresa in quello Stato: in tali circostanze, l’home office tende a qualificarsi come luogo d’affari dell’impresa.
Le implicazioni
Il nuovo commentario non introduce esenzioni specifiche oltre alle tradizionali attività preparatorie o ausiliarie e non offre safe harbour universali. Rimane centrale la verifica se il luogo sia realmente a disposizione dell’impresa. La distinzione tra scelta personale del lavoratore e richiesta, esplicita o implicita, dell’impresa resta un profilo delicato. Ne discende l’esigenza di mappare con cura i modelli di lavoro ibrido e cross-border, chiarire per iscritto le ragioni organizzative e commerciali delle scelte, e allineare i comportamenti effettivi agli assetti contrattuali.
L’aggiornamento Ocse, in definitiva, non cambia la natura fattuale dell’analisi sulla stabile organizzazione, ma offre una bussola più precisa per orientarsi nel lavoro da remoto oltre confine.
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Marchi famosi, la tutela rafforzata scatta se c’è un legame fra i prodotti
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore lunedì24 Novembre 2025 di Gianluca De Cristofaro e Matteo Di Lernia
Il semplice fatto che un marchio anteriore goda di un’elevata notorietà per determinate categorie di prodotti o servizi (marchio rinomato) non implica necessariamente che nella mente dei consumatori si generi l’idea di un legame con un marchio successivo ad esso simile, ma che rivendica prodotti e/o servizi del tutto differenti. Lo ha chiarito il Tribunale dell’Unione europea (caso T-425/24, del 10 settembre 2025).
Perché un marchio rinomato possa lamentare un’interferenza verso marchi depositati/usati successivamente non è necessario che vi sia affinità tra i prodotti e i servizi e questo perché i marchi che godono di rinomanza possiedono una tutela extramercelogica, in ragione del fatto che ciò che si tutela non è solo un rischio di “confusione” sul mercato, ma anche ogni agganciamento che abbia una natura “parassitaria” o, comunque, lesiva della notorietà del marchio rinomato.
Secondo il Tribunale Ue, la natura e il grado di vicinanza dei prodotti o dei servizi costituiscono fattori rilevanti ma non sufficienti per valutare e verificare che nei consumatori si crei un nesso, che li induca (a causa del fatto che il marchio posteriore richiama quello anteriore rinomato) a trasferire il messaggio positivo, di “fama”, del primo marchio rinomato in quello successivo (che, invece, non è conosciuto).
Trend di espansione
Il caso sottoposto all’attenzione del Tribunale Ue ha preso le mosse dall’opposizione che il brand Zara aveva attivato verso la registrazione del marchio Pasta Zara (figurativo e contenente anche altri elementi), relativo a prodotti alimentari.
Zara, oltre a sostenere che i marchi fossero simili, aveva fatto valere la celebrità del proprio marchio nel settore dell’abbigliamento, e aveva fatto leva sulla tutela extramerceologica rispetto all’altro marchio. Secondo Zara, Pasta Zara avrebbe beneficiato dell’agganciamento al proprio brand alla luce dell’attuale trend di mercato per cui gli operatori della moda e del lusso tendono a espandersi nel settore della ristorazione (così come dell’hôtellerie, della decorazione o dell’arredamento).
Il Tribunale, pur riconoscendo l’esistenza e l’attualità di questo trend che punta a far convergere il settore della moda e quello alimentare in modo da offrire ai consumatori esperienze coinvolgenti e nuove strategie commerciali basate su collaborazioni o co-branding, ha tuttavia ritenuto che Zara non avesse fornito alcuna prova dalla quale si potesse concludere che tale tendenza fosse già rilevante nel giugno 2008, e cioè quando è stata presentata la domanda di marchio Pasta Zara. Tale data è infatti rilevante ai fini della valutazione dell’esistenza del necessario nesso tra i marchi. Allo stesso modo, ad avviso del Tribunale, non ha dimostrato per quale ragione il lancio nel 2003 della propria linea di biancheria per la casa e di decorazione con il marchio Zara Home avrebbe avvalorato la propria conclusione secondo cui non si poteva escludere che il marchio richiesto – che riguardava un prodotto alimentare – potesse richiamare alla mente il marchio preesistente, rinomato, invece, per prodotti legati all’abbigliamento.
Il limite della notorietà
Il Tribunale ha, quindi, concluso che sebbene fosse pacifico che il marchio preesistente godesse di un’ottima reputazione per i prodotti dell’abbigliamento – acquisita grazie alla presenza di rilievo in diverse città del mondo, attraverso negozi recanti il marchio in grande evidenza – ciò non implicava necessariamente che il pubblico di riferimento avrebbe stabilito un collegamento con il marchio Pasta Zara per prodotti che nulla avevano a che vedere con la moda (né potevano considerarsi ad essi complementari, succedanei o, comunque, ricollegabili neppure alla luce di trend assodati di espansione di settore), che si trovano in vendita in specifici negozi, quali gli alimentari e/o i supermercati, che offrono una moltitudine di prodotti, commercializzati con numerosi marchi diversi tra loro.
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Dividendi, niente stretta per le partecipazioni mantenute per tre anni
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 27 Novembre 2025 di Giovanni Parente Gianni Trovati
ROMA
La bomba a orologeria sui dividendi delle società viene disinnescata con una doppia condizione alternativa. Da un lato, l’obbligo di partecipazione per avere il regime agevolato non scatterà più oltre il 10% (attualmente indicato nel Ddl al Senato) ma dal 5% in poi. Dall’altro, la partecipazione deve essere mantenuta per almeno tre anni. Il vertice di maggioranza trova una direttrice su cui muoversi per correggere la misura (criticata da imprese e professionisti) che avrebbe fatto scattare dal 1° gennaio 2026 una maxitassazione sui dividendi, sterilizzando la dividend exemption in caso di quote inferiori al 10 per cento. In sostanza, la linea da seguire in commissione Bilancio – in scia a emendamenti già presentati dalle forze di maggioranza – consentirà comunque al Governo di mettere delle limitazioni rispetto al meccanismo attuale di prelievo (applicato solo sul 5% dell’imponibile). Allo stesso tempo, però, saranno salvaguardate le piccole imprese e non penalizzati gli investimenti di lunga durata nelle società italiane. Ma non solo. La modifica preciserà che il nuovo regime si applicherà anche alle plusvalenze, finora rimaste assenti dal trattamento fiscale proposto dall’Esecutivo con il Ddl di Bilancio. Il tutto senza alcun effetto retroattivo e senza cambio di regole in corsa: sia per i dividendi sia per le plusvalenze le nuove soglie scatteranno solo dal 1° gennaio 2026.
Mentre a Palazzo Chigi si chiudeva il vertice di maggioranza al Senato nel pomeriggio c’è stato un confronto, anche con le opposizioni, su temi condivisi (enti locali, calamità e italiani all’estero), ma fuori al momento dai correttivi segnalati. A coordinare i lavori il ministro Luca Ciriani e la Ragioniera Daria Perrotta, che ha registrato tutti i desiderata delle forze politiche promettendo di presentarsi la prossima settimana con le possibili soluzioni. Tra queste ultime si profilano anche tre correttivi per gli enti locali. Dovrebbe tramontare la quota statale sugli aumenti dell’imposta di soggiorno prodotti dalla replica della disciplina giubilare, e le risorse dovrebbero rimanere nella disponibilità dei Comuni chiamati a scegliere se destinarle ai minori non accompagnati o al supporto agli studenti disabili. Un po’ di flessibilità dovrebbe riguardare l’utilizzo dell’avanzo libero, che dovrebbe essere lasciato nella disponibilità degli enti una volta soddisfatte le priorità del ripiano dei debiti fuori bilancio e della salvaguardia degli equilibri. Roma Capitale dovrebbe poi uscire dalla redistribuzione del Fondo di solidarietà comunale: di fronte a questo impegno, oggi in Conferenza Stato-Città dovrebbe arrivare l’intesa fra Governo e sindaci sulla distribuzione del fondo per il 2026.
Resta ora da definire quale sarà il perimetro finale degli emendamenti su cui dovranno essere acquisiti i pareri tecnici e su cui dovrà iniziare il voto la prossima settimana. La commissione Bilancio ha, infatti, dichiarato inammissibili 105 correttivi. Tra questi anche quello della Lega sul piano casa, ma anche quello targato Fratelli d’Italia su opzione donna per motivi di copertura. L’intervento puntava a estendere al 31 dicembre 2025 il termine entro il quale devono essere maturati i requisiti per accedere al trattamento pensionistico anticipato e ad allargare la platea. L’intenzione comunque è di lavorare a una riformulazione delle coperture.
Tra i correttivi che hanno superato la tagliola dell’inammissibilità c’è, invece, quello in base al quale le farmacie con maggiore capacità economica potranno destinare fino allo 0,20% dell’utile netto a progetti di prevenzione sanitaria nei Comuni sotto i 1.500 abitanti.
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Imposte versate all’estero, certificazione del sostituto per le detrazioni in Italia
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore lunedì 1 Dicembre 2025 di Davide Settembre
Le imposte assolte all’estero sui redditi di capitale ivi prodotti sono detraibili qualora gli stessi redditi siano stati assoggettati a imposizione per legge anche in Italia, mediante ritenuta o imposta sostitutiva. A tal fine, il contribuente può dare prova di avere versato all’estero le imposte in modo definitivo, anche mediante la certificazione del sostituto di imposta. Lo ribadiscono i giudici della Cgt di Como con la sentenza 297/1/2025 (presidente Abate, relatore Mancini).
Lo stop del Fisco
Nel caso in esame, il ricorrente impugnava il silenzio rifiuto dell’ufficio formatosi sull’istanza di rimborso delle imposte pagate sui dividendi di fonte estera. In particolare, la richiesta si fondava sul fatto che i proventi erano stati assoggettati a tassazione prima in Svizzera (con l’applicazione della ritenuta del 15%) e successivamente in Italia (con l’applicazione della ritenuta del 26%) e che quindi, in base all’articolo 24 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Svizzera, il contribuente aveva il diritto a detrarre integralmente dall’imposta pagata in Italia quella versata all’estero. L’ufficio si costituiva in giudizio sostenendo che il diniego era invece legittimo, dal momento che non era stata fornita la prova della definitività delle imposte pagate all’estero mediante apposita certificazione rilasciata dall’autorità fiscale estera, e in quanto il reddito estero non aveva concorso alla formazione del reddito imponibile (soggetto alle aliquote Irpef).
Il via libera dei giudici
La Cgt di Como ha accolto il ricorso. In particolare, il collegio ha richiamato la sentenza 25698/2022 con la quale la Cassazione ha avuto modo di precisare che, sulla base della citata disposizione convenzionale, le imposte pagate all’estero sui redditi di capitale ivi prodotti sono detraibili qualora il medesimo reddito di fonte estera venga assoggettato a tassazione in Italia mediante ritenuta o imposta sostitutiva non “su richiesta del beneficiario” ma obbligatoriamente.
Nel caso in esame il diritto alla detrazione sussisteva, dal momento che i dividendi di fonte estera erano stati dapprima assoggettati a tassazione in Svizzera (con ritenuta del 35%, successivamente rimborsata nella misura del 20%) e poi avevano scontato la tassazione obbligatoria in Italia con l’applicazione della ritenuta a titolo di imposta del 26% prevista dall’articolo 27, comma 4, del Dpr 600/1973. Ma non basta, in quanto i giudici hanno anche ritenuto che il ricorrente avesse dato prova, «da intendersi in senso ampio e che appare idonea» (si veda l’ordinanza della Cassazione 16286/2023), di avere pagato all’estero in modo definitivo le imposte, come emergeva dalla certificazione del sostituto d’imposta svizzero che attestava il versamento delle ritenute e il parziale rimborso ottenuto. Occorre evidenziare, infine, che la sentenza in commento va a innestarsi nell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di merito (tra le altre, Cgt Milano 3184/2024 e Cgt Bergamo 68/2025).
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Criptovalute, parte la raccolta dati per gli scambi automatici
17 Dicembre 2025
Il Sole 24 Ore 2 Dicembre 2025 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco
Dal 1° gennaio del 2026 il mondo delle criptovalute inizierà a sganciarsi dall’opacità che ha segnato i suoi primi 15 anni di vita, tra speculazioni sfrenate, crac epocali e scandali vari.
Per gli asset legati alle tecnologie blockchain tra poco più di quattro settimane comincia infatti l’era della raccolta dei dati dei possessori che sfocerà subito dopo nello scambio automatico internazionale di informazioni a fini fiscali: una rivoluzione del tutto smile a quella che, dieci anni fa, con l’avvio del Common reporting standard aveva tentato di smontare, riuscendoci in larga misura, i paradisi fiscali fondati sul segreto bancario.
La geografia della trasparenza cripto debutta dal palcoscenico dell’Unione europea, spiega il rapporto pubblicato dall’Ocse, coinvolgendo in prima battuta 47 giurisdizioni tra cui, fuori dall’Ue, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud, Israele, Brasile, Sudafrica e molti altri attori centrali della finanza globale. Questi paesi effettueranno i primi scambi automatici nel 2027 ma dovranno iniziare a raccogliere i dati già dal 1° gennaio 2026. Una seconda ondata di ulteriori 27 Paesi avvierà la raccolta nel 2027, mentre gli Stati Uniti — già assenti dallo scambio del Common reporting standard, sostituito dalla versione autoctona e autoreferenziale del Fatca — entreranno nel sistema solo nel 2028, con scambi programmati a partire dal 2029.
Ai margini degli early adopter della trasparenza cripto restano, almeno per ora, Argentina, El Salvador, India e Vietnam, che al momento non partecipano allo scambio automatico e rimangono autoconfinati nella zona (nero) grigia.
In Europa il cambio di passo è ancora più evidente. Il Carf – Crypto-Asset Reporting Framework – sarà pienamente operativo attraverso la direttiva Dac8, che entrerà in vigore nel 2026. Questo significa che gli operatori che offrono servizi relativi alle cripto-attività saranno obbligati a identificare i clienti, verificare la loro residenza fiscale, monitorare movimenti e saldi e trasmettere queste informazioni alle autorità fiscali nazionali.
Il sistema fiscale europeo si allinea così agli standard internazionali, con l’obiettivo di creare un quadro uniforme e privo di zone d’ombra.
A questo scenario si affianca un altro tassello essenziale: l’entrata in vigore del regolamento Micar, che definisce finalmente un perimetro regolamentato e uniforme per gli operatori del settore, i cosiddetti Casp.
In Italia come nel resto d’Europa, solo i Casp autorizzati potranno offrire servizi allineati agli standard legali, con l’obbligo di rispettare standard tecnici e operativi rigorosi, requisiti patrimoniali e controlli sulla clientela. Affidarsi a un Casp autorizzato diventerà non solo una scelta di prudenza, ma una necessità per evitare rischi sanzionatori, oltre che per proteggersi da truffe e intermediari improvvisati.
L’integrazione tra Carf, Dac8 e Micar condurrà alla piena trasparenza fiscale, insieme alla vigilanza prudenziale e anche alla protezione degli utenti. Le cripto-attività entreranno così a pieno titolo nel sistema finanziario regolamentato, riducendo lo spazio per attività abusive e rafforzando la fiducia degli investitori.
Tuttavia, la rapidità con cui le nuove norme sono state introdotte apre un fronte delicato: molti contribuenti hanno finora detenuto cripto senza conoscere gli obblighi fiscali incombenti. La complessità tecnica degli strumenti e l’assenza iniziale di linee guida chiare hanno contribuito a diffondere incertezze e qualche consapevole utilizzo dei bug del sistema.
Per questo sarebbe opportuno prevedere meccanismi di voluntary disclosure simili a quelli che avevano preceduto l’avvento dello scambio automatico di informazioni sui conti esteri. Una finestra di regolarizzazione permetterebbe l’emersione spontanea e garantirebbe un avvio soft del sistema.
GLI ADEMPIMENTI di Valerio Vallefuoco
Identità, residenza transazioni e saldi: l’identikit per il fisco
Il Crypto-Asset Reporting Framework è la nuova infrastruttura globale attraverso cui gli Stati si scambieranno automaticamente informazioni fiscali relative alle cripto-attività. È un sistema che riproduce, adattandolo al mondo digitale, il meccanismo già noto del Common reporting standard: ogni Paese riceverà informazioni sui contribuenti che detengono cripto all’estero, riducendo drasticamente l’opacità che per anni ha caratterizzato questo settore.
Le piattaforme crypto dovranno identificare i clienti, verificare la loro residenza fiscale e raccogliere ogni anno dati su saldi e transazioni. Queste informazioni verranno trasmesse alle amministrazioni fiscali nazionali, che a loro volta le condivideranno con gli altri Paesi aderenti. In questo modo, anche un utente che acquista criptovalute da un exchange situato in un altro continente sarà comunque soggetto al controllo dello Stato di residenza.
In Europa, lo strumento che rende operativo il Carf è la direttiva Dac8 che entra in vigore nel 2026 e che introduce per la prima volta un quadro uniforme per la fiscalità delle cripto-attività. L’Ue ha scelto di integrare il sistema fiscale con quello della vigilanza, dando attuazione al regolamento Micar, che definisce gli operatori autorizzati — i Casp — e stabilisce requisiti rigorosi in materia di sicurezza, governance e tutela degli utenti.
Per gli investitori e per gli utenti occasionali questo comporta una conseguenza immediata: affidarsi a piattaforme non autorizzate diventa rischioso. Solo i Casp regolamentati garantiscono la conformità fiscale, la protezione contro le truffe e l’applicazione di standard tecnici idonei a prevenire perdite o manipolazioni. La combinazione di Carf–Dac8–Micar realizza un ambiente in cui sicurezza, trasparenza e legalità si supportano a vicenda e in cui la scelta dell’intermediario diventa un comportamento determinante.
Questa trasformazione offre finalmente alle cripto-attività un orizzonte stabile e regolamentato. L’aumento della trasparenza riduce in modo drastico gli spazi per attività fraudolente, mentre l’obbligo di utilizzare operatori autorizzati crea un ecosistema più protetto e accessibile. È la condizione necessaria affinché anche i piccoli risparmiatori possano avvicinarsi con fiducia a un settore che per anni è stato associato all’idea di rischio e di incertezza.
Resta aperta la questione del passato: molti detentori di criptovalute non hanno ancora regolarizzato la propria posizione fiscale, spesso non per volontà evasiva ma per le difficoltà interpretative che hanno accompagnato la prima fase della diffusione degli asset digitali. Per questo motivo sarebbe auspicabile introdurre programmi di voluntary disclosure che consentano di sanare spontaneamente eventuali omissioni e permettere al nuovo sistema di partire in modo ordinato ed equo.
L’AVVIO A TAPPE DEL CRYPTO-ASSET REPORTING FRAMEWORK
Al via dal 2027
Austria, Belgio, Brasile, Bulgaria, Cayman, Colombia, Croazia, Danimarca, Estonia, Faroe, Finlandia, Francia, Germania, Gibilterra, Grecia, Guernsey, Islanda, Indonesia, Irlanda, Isola di Man, Israele, Italia, Giappone, Jersey, Kazakistan, Corea, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Repubblica Slovacca, Slovenia,
Sudafrica, Spagna, Svezia, Uganda, Ungheria.
Partono dal 2028
Australia, Azerbaigian, Bahamas, Bahrain, Barbados, Belize, Bermuda, Isole Vergini britanniche, Canada, Costa Rica, Cipro*, Hong Kong (Cina), Kenya, Malesia, Mauritius, Messico, Mongolia, Nigeria, Panama, Filippine,
Saint Vincent e Grenadine, Seychelles, Singapore, Svizzera, Thailandia, Türkiye, Emirati Arabi Uniti.
Stati Uniti, debutto nel 2029
Gli Usa hanno aderito alla Dichiarazione congiunta sul Carf per un suo rapido recepimento: l’impegno è per il 2029.
Ai margini dello scambio
Argentina, El Salvador, India, Vietnam restano ai margini dello scambio automatico. Argentina e India stanno però assumendo un impegno politico per l’attuazione del Carf e prevedono di attrezzarsi «a tempo debito».