Società estinte, confini incerti sulla responsabilità degli ex soci

7 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 15 Maggio 2017 di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito
Cassazione. Il caso della mancata distribuzione dell’attivo
L’estinzione di una società di capitali nel corso del giudizio continua a far discutere. Con la sentenza 9094/2017 la Cassazione ha riconosciuto l’interesse del fisco ad agire contro gli ex soci quando la chiusura della società durante il processo avviene a seguito di una liquidazione che si conclude senza ripartizione di attivo tra i soci (si veda il Sole 24 Ore dell’8 aprile). La pronuncia crea una situazione di incertezza, alla luce della oscillante giurisprudenza della stessa Corte.
Ma andiamo con ordine. Rispetto ai debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società di capitali dal Registro imprese, il Codice civile (articolo 2495, comma 2) stabilisce che i creditori possono agire nei confronti degli ex soci fino a concorrenza di quanto dagli stessi riscosso in base al bilancio di liquidazione. Tale chiamata in responsabilità dei soci operata determina un fenomeno di tipo successorio, come riconosciuto dalle Sezioni unite con due sentenze analoghe emesse il 12 marzo 2013, la 6070 e la 6072.
In alcune recenti pronunce (sentenza 2444/2017; ordinanza 13259/2015), la Corte ha sostenuto la tesi che limita il meccanismo successorio all’ipotesi in cui gli ex soci soci abbiano goduto di un qualche riparto ad esito della liquidazione. Secondo questa interpretazione, gli ex soci subentrano dal lato passivo del rapporto di imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso al termine della liquidazione, pertanto l’accertamento di tali circostanze è il presupposto della assunzione, in capo a loro, della qualità di successori e, quindi, della legittimazione passiva ai fini della prosecuzione del processo. Secondo questa posizione:
sono inammissibili l’appello o il ricorso per Cassazione proposti dal fisco nei confronti degli ex soci di una società medio tempore estinta senza alcuna ripartizione di attivo;
il creditore che voglia agire nei confronti dell’ex socio che abbia ricevuto un qualche riparto è tenuto a dimostrare che vi sia stata la distribuzione dell’attivo e che tale attivo è stato riscosso, fermo restando il principio dell’onere della prova su chi intende fare valere un diritto.
Con la sentenza 9094 la Suprema corte ha censurato tale orientamento. I giudici, richiamando le Sezioni unite 6070 e 6072, hanno affermato che la mancata ripartizione di attivo tra i soci non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione intrapresa verso la società. Invero, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex articolo 2495. Qualora tale limite dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di fare valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò inciderebbe sull’interesse ad agire, ma il creditore potrebbe comunque avere interesse a proseguire il giudizio se vi fosse la possibilità per i soci di succedere in eventuali rapporti attivi della società non definiti al termine della liquidazione, ad esempio:
sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e illiquidi al momento della liquidazione (la cui mancata inclusione nel bilancio di liquidazione può essere giustificata da una più rapida conclusione della stessa);
beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa.
Resta da capire se tale possibilità può essere considerata automatica o se andrà documentata dal creditore, profilo che potrebbe aprire altre discussioni.

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Le indagini bancarie da sole non fanno l’accertamento

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 20 Aprile 2017 di Antonio Iorio

Cassazione/1. Per l’omesso versamento Iva «paga» l’amministratore subentrante

Risponde del reato di omesso versamento Iva il nuovo amministratore subentrato dopo la presentazione della dichiarazione firmata dal precedente rappresentante legale. A chiarirlo è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18834 depositata ieri.
Il legale rappresentante di una società veniva condannato per l’omesso versamento dell’Iva risultante a debito nella dichiarazione presentata. Avverso la sentenza l’imputato presentava ricorso per Cassazione rilevando, tra i diversi motivi, l’assenza di responsabilità penale atteso che la dichiarazione dell’Iva non evidenziava alcun debito di imposta, oltre, in ogni caso, a essere stata sottoscritta dal precedente legale rappresentante. Il giudice territoriale, secondo la difesa, aveva omesso ogni valutazione.
In base all’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000 il delitto di omesso versamento Iva si commette se entro il termine per il pagamento dell’acconto dell’anno successivo (27 dicembre) non venga versato il debito risultante dalla dichiarazione annuale.
I giudici di legittimità hanno precisato che la responsabilità per i reati tributari è, di norma, attribuita all’amministratore, individuato secondo le norme civilistiche, che rappresenta e gestisce l’ente. Questi soggetti sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni obbligatorie e ad adempiere ai relativi obblighi fiscali. Chi assume la carica di amministratore, quindi, si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze.
Nel caso di sostituzione dell’amministratore in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione, ma prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento dell’obbligo tributario di versamento, sussiste la responsabilità per i reati tributari connessi all’omesso versamento di imposte dovute, di colui che succede nella carica (Cassazione, sentenze 34927/2015, 39687/2014). Ne consegue così che il nuovo amministratore è tenuto a una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi per cui ove ciò non avvenga, risponde del reato del mancato versamento chi subentra. L’assenza di tale preventivo controllo comporta la responsabilità quantomeno a titolo di dolo eventuale.
Nella specie, differentemente da quanto sostenuto dalla difesa, il debito Iva risultava nella dichiarazione sottoscritta dal precedente amministratore e pertanto prima di assumere la carica, l’imputato avrebbe dovuto chiedere visione dell’eventuale attestato di versamento periodico delle imposte al fine di verificare l’esecuzione dell’adempimento.

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Il prestanome «paga» insieme all’amministratore di fatto

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 21 Aprile 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione/2. Chi accetta la carica di rappresentante legale si assume i rischi connessi

Il prestanome risponde insieme all’amministratore di fatto dei reati tributari posti in essere a meno che non provi di essere privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione dell’impresa. A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18924 depositata ieri.
A seguito di indagini svolte dalla Guardia di Finanza su una frode Iva perpetrata da alcune società estere e italiane, attraverso cui veniva detratta l’imposta per l’acquisto di beni senza che il venditore (fittizio) la versasse, venivano denunciati per false fatturazioni e altri delitti tributari sia gli amministratori di fatto, sia i rappresentanti legali (ancorché ritenuti in alcuni casi dei semplici prestanome) delle aziende coinvolte. Dopo la condanna nei due gradi di giudizio, gli imputati ricorrevano in cassazione. Tra le eccezioni sollevate, chi era stato ritenuto amministratore di fatto rilevava l’assenza della formale rappresentanza legale dell’azienda, mentre chi era stato indicato quale prestanome eccepiva il mancato coinvolgimento nella gestione imprenditoriale.
La Suprema Corte ha ricordato, innanzitutto, che il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita, con la conseguente equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti dalla carica. Tale interpretazione è confermata dall’articolo 2639 del Codice civile che, per i reati societari, dispone l’equiparazione al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge, di chi esercita in materia continuativa e significativa i poteri inerenti alla qualifica o funzione. Nonostante riguardi i reati societari, tale norma, rileva la sentenza, è la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori dell’ordinamento. Si configura così non solo il concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri nel senso che l’autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto.
La responsabilità penale dei prestanome è invece radicata nell’articolo 40, comma 2, del Codice penale, secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Infatti, il prestanome, assumendo consapevolmente la veste di rappresentante legale, copre attraverso la violazione del dovere di vigilanza che incombe su di lui le condotte illecite del reale amministratore. Nella specie, secondo i giudici di legittimità, la difesa si era concentrata sull’insussistenza di elementi probatori in ordine ai rapporti tra prestanome e società, mentre aveva tralasciato il mancato esercizio del dovere di controllo che competeva per legge all’amministratore di diritto per provare di essere privo di qualunque potere di ingerenza nella gestione della società nonostante ne fosse formalmente l’amministratore.
Ne consegue che il prestanome, accettando la carica, assume anche i rischi a questa connessi esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi compiano operazioni legali attraverso la copertura ricevuta. Da qui il rigetto del ricorso e l’affermazione della responsabilità anche dell’amministratore di diritto a titolo di concorso con quello di fatto non solo in virtù della posizione formale rivestita, ma anche per la condotta omissiva consistente nel non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè il mancato esercizio dei poteri gestori e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto.

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Il rischio Brexit sul riciclaggio globale

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore Plus 8 Aprile 2017 di Stefano Elli

L’uscita dell’Inghilterra dall’Ue e il potenziale dumping normativo della Gran Bretagna e del Commonwealth

Hanno sempre funzionato a pieno regime. A dispetto delle quattro direttive antiriciclaggio emanate dalla Ue (l’ultima dovrà essere recepita entro il giugno 2017) a dispetto dei continui moniti dei vari organismi internazionali (Gafi, Ocse, Moneyval). I paradisi fiscali legati al governo di Sua Maestà britannica hanno continuato imperterriti a cubare denaro di incerta provenienza, fornendo teste di legno, società anonime, caselle postali e, soprattutto, segretezza. Ma senza allontanarci troppo, anche Londra appare un luogo privilegiato e gettonatissimo da chi vuole accumulare ingenti risorse senza figurare in prima persona. Non c’è inchiesta italiana sul white collar crime che non veda coinvolte pattuglie di società britanniche dalla proprietà oscurata.
E questo è accaduto fino a questo momento: cioè con la Gran Bretagna membro effettivo dell’Unione Europea. E poi? Quando ne sarà uscita? Quando si sarà sottratta ai vincoli imposti dalla partecipazione alla Comunità?
Il rischio concreto è che a fronte di una migrazione in territori comunitari delle maggiori insegne bancarie britanniche, per nulla intenzionate a perdere quote di mercato nel business del risparmio gestito, sulla piazza di Londra si concentrino operazioni e operatori sottratti a ogni tipo di controllo. Che il problema sia serissimo lo testimonia, per fare un solo esempio, il venir meno dell’obbligo, in capo all’Uk, di recepire le norme europee. «La quarta direttiva antiriciclaggio -spiega Fabrizio Vedana, vicedirettore generale di Unione Fiduciaria – prevede, per gli intermediari comunitari l’obbligo di istituire e alimentare il registro dei titolari effettivi delle società e dei trust. Del tutto evidente che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue fa cadere sul nascere ogni ragionamento sul punto». Rischio potenziale? Nessun obbligo a carico delle società britanniche e prevedibile migrazione di massa verso Londra di soggetti a rischio riciclaggio. Il secondo problema è di natura fiscale. A spiegarlo è di nuovo Vedana: «La direttiva Ue 107 del 2014 è stata recepita dall’Italia dalla legge 95 del 2015: si chiama Common reporting standard. Che cosa prevede? Che gli intermediari finanziari comunitari comunichino subito alle rispettive amministrazioni fiscali i dati di cittadini stranieri che aprano rapporti economici (conti correnti e altro) sul loro territorio. Le amministrazioni fiscali, dal canto loro, allertano in automatico i loro omologhi nei Paesi di provenienza dei cittadini stranieri». Nel dopo Brexit non vi sarà alcun obbligo di comunicare alcunché a chicchessia. Rischio potenziale? Afflusso di massa a Londra di capitali in evasione fiscale. «Di certo la fame di “tane” sicure, con il venire meno della copertura della sicura Svizzera e di San Marino, fiaccate dal combinato disposto dei tre scudi fiscali e della voluntary disclosure, rende indispensabile alle organizzazioni criminali la ricerca di basi sicure dove potere appoggiare il denaro, metterlo al riparo e reimpiegarlo – spiega Gian Gaetano Bellavia, commercialista e consulente tecnico di molte procure della Repubblica -. Quello britannico è un sistema tradizionalmente efficiente, radicato, ramificato, ben collegato e socialmente accettato. Assolutamente perfetto per i riciclatori di tutto il mondo che già da tempo lo stanno utilizzando a prescindere dalla Brexit. Figuriamoci dopo».

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Pubblicità, deduzione in salvo

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 07 Aprile 2017 di Laura Ambrosi

Accertamento. La Cassazione accoglie il ricorso per le spese di sponsorizzazione a un’associazione sportiva dilettantistica

Stop al recupero se il costo sostenuto dalla società non supera i 200mila euro

È illegittimo il recupero del costo di pubblicità inferiore a 200mila euro poiché la deducibilità di questi oneri è prevista espressamente dalla norma con una presunzione assoluta. A chiarirlo è l’ordinanza 8981/2017 della Cassazione depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento nei confronti di una società disconoscendo, tra l’altro, anche la deducibilità delle spese di pubblicità sostenute. Si trattava di somme corrisposte a un’associazione sportiva dilettantistica affinché promuovesse il marchio in occasione degli eventi organizzati.
La contribuente ha proposto ricorso contro il provvedimento impositivo, ma sia la commissione provinciale, sia i giudici di appello confermavano la legittimità dell’operato dell’ufficio. In particolare, la Ctr ha osservato che mancava la prova da parte della società in merito alla certezza e all’inerenza dei costi contestati.
L’impresa ha presentato così ricorso in Cassazione, lamentando, tra i diversi motivi, un’errata interpretazione della norma in tema di sponsorizzazione.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato l’articolo 90, comma 8, della legge 289/2002, secondo il quale il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni riconosciute dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva, costituisce per il soggetto erogante e fino al limite di 200mila euro annui, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti. Tale somma è così deducibile nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio.
La Suprema corte ha così rilevato che la norma disciplina una «presunzione legale di inerenza/deducibilità» di tali spese. Occorre pertanto solo verificare che:
il soggetto sponsorizzante sia una compagine sportiva dilettantistica;
sia rispettato il limite quantitativo di 200mila euro;
la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor;
il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale come, ad esempio, l’apposizione del marchio sulle divise, l’esibizione di striscioni e/o tabelloni sul campo da gioco, eccetera.
Nel caso esaminato, tali circostanze erano incontestate con la conseguenza che l’ufficio non poteva disconoscere la deducibilità delle somme.
La Cassazione ha poi chiarito che risultano del tutto irrilevanti eventuali considerazioni sull’antieconomicità del costo pubblicitario, legate ad un’asserita irragionevole sproporzione tra l’entità della spesa sostenuta rispetto al fatturato/utile di esercizio del contribuente.
Nella pronuncia è infatti chiarito che la norma ha introdotto una «presunzione assoluta» oltre che della natura di «spesa pubblicitaria», anche dell’inerenza fino alla soglia di 200mila euro, con la conseguenza che nessuna diversa valutazione è consentita agli uffici.
La decisione assume rilievo poiché l’amministrazione a volte in assenza di contestazioni sulla veridicità della sponsorizzazione, si limita a disconoscere il costo dedotto nel presupposto dell’inutilità dello stesso rispetto al volume di affari conseguito o, ancora lo ritiene sproporzionato, procedendo così al recupero rispettivamente dell’intera deduzione operata o di quella ritenuta eccessiva ovvero antieconomica.

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Emirati Arabi più trasparenti

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2017 di Valerio Vallefuoco

Fisco internazionale. Sottoscritta la convenzione Ocse sull’assistenza amministrativa reciproca (Maat)

In caso di illeciti penali possibile la presentazione di istanze retroattive

Per gli Emirati si apre una nuova stagione di intensa trasparenza fiscale (anche nei confronti dell’Italia). Con la possibilità, in caso di contestazioni penali, anche di una richiesta di informazioni di carattere retroattivo per tre anni.
Ieri, infatti, alla sede centrale dell’Ocse a Parigi anche gli Emirati arabi uniti hanno firmato la Convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa reciproca in materia fiscale, il cosiddetto Maat (Multilateral convention on mutual administrative assistance in tax matters).
Il Maat è forse lo strumento più efficace a livello internazionale per l’attuazione pratica della cooperazione fiscale internazionale. Nel testo della Convenzione sono previste, infatti, tutte le forme conosciute di assistenza amministrativa in materia fiscale. Si evidenziano tra i contenuti dell’accordo multilaterale lo scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali sia su richiesta che spontaneo ma anche automatico in attuazione del cosiddetto Crs (Common reporting standard) ossia l’accordo multilaterale sullo scambio automatico di informazioni che prevede uno standard mondiale sulle modalità di comunicazione dei dati dei conti correnti detenuti dai contribuenti esteri.
Sempre tra i contenuti della Convenzione è di rilievo la possibilità di poter effettuare verifiche fiscali all’estero ovvero verifiche fiscali simultanee ma soprattutto l’assistenza nella riscossione fiscale all’estero a oggi quasi mai attuata. In questo accordo sono, poi, previste garanzie per la tutela dei diritti dei contribuenti.
Con l’adesione alla Convenzione multilaterale gli Emirati Arabi potranno quindi adempiere il loro impegno a iniziare il primo scambio automatico di informazioni entro il 2018. Dopo Panama, che aveva sottoscritto lo scorso mese di marzo, la Svizzera e il principato di Monaco che hanno aderito alla fine del 2016 (e ora gli Emirati), gli Stati che aderiscono alla Convenzione raggiungono il numero impressionate di 109 giurisdizioni che adottano lo stesso accordo multilaterale.
La forza della Convenzione, ovviamente, aumenta con ogni nuovo Paese firmatario dato che la convenzione è necessaria per l’attuazione dello standard per lo scambio automatico di informazioni finanziarie in materia fiscale promosso dai Paesi Ocse e del G20.
La Convenzione potrà portare a una pronta ed efficace attuazione anche delle ulteriori misure di trasparenza del progetto Base erosion and shifting profit (il cosiddetto Beps) ma soprattutto sarà uno dei più potenti strumenti nella lotta contro i flussi finanziari di carattere illecito, compresi quelli legati al finanziamento del terrorismo.
Per la sua entrata in vigore la Convezione prevede anche una specifica clausola di retroattività. Per i casi, infatti, in cui la giurisdizione dello Stato richiedente assistenza amministrativa ritenga sia stato commesso un illecito penale e anche fiscale lo scambio di informazioni potrà riguardare anche un periodo precedente l’entrata in vigore dell’accordo.

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Prestiti infruttiferi: servono valide ragioni economiche

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 3 Aprile 2017 di Massimo Bellini e Alfredo Orlandi

Finanziamenti. La difesa in caso di controlli

Le operazioni finanziarie intercompany sono spesso sotto la lente del fisco durante le verifiche. Il tema dei finanziamenti infruttiferi è da tempo dibattuto con interpretazioni ondivaghe da parte della giurisprudenza. Con le sentenze 27087/2014 e 15005/2015 la Cassazione ha ritenuto che il principio del valore normale debba essere applicato solo in presenza di componenti di reddito positive o negative. Poiché tali condizioni non risultano integrate nella concessione di mutui non onerosi, questi ultimi devono essere considerati legittimi. La Suprema corte, tuttavia, nel 2016 (sentenza 7493/2016) è tornata al precedente orientamento (che sembra più in linea con i principi sottostanti la normativa sul transfer price), secondo cui i prestiti infruttiferi non esulano dall’applicazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir.
Pur accettando l’applicabilità del valore normale, andrebbero comunque sempre analizzate le motivazioni sottostanti l’effettuazione di finanziamenti od operazioni finanziarie gratuite. Anche un tasso o un compenso pari a zero, infatti, può rappresentare un valore di mercato qualora sia giustificato da valide ragioni economiche, come confermato dalla Ctr Piemonte 1224/4/2016 che ha ritenuto corretto il mancato addebito di commissioni di garanzia da parte di una società italiana alla propria consociata americana, in quanto rispondente ad una logica di tornaconto economico in un contesto di crisi di liquidità e di riduzione del fatturato.
Talvolta, inoltre, le operazioni finanziarie infruttifere potrebbero richiedere una analisi congiunta con altre transazioni intragruppo strettamente correlate, al fine di valutare la congruità con principi di mercato. Ad esempio la Ctp Cremona 77/2013 ha ritenuto corretto il mancato addebito di interessi attivi su anticipazioni finanziarie da parte della contribuente italiana alle consociate slovacche, in quanto giustificato dai bassi prezzi di acquisto di beni che le società estere potevano applicarle in assenza di oneri di finanziamento.
La “riqualifica” da parte dell’amministrazione delle operazioni finanziarie può riguardare anche la loro natura e caratteristiche. Non di rado, infatti, accade che operazioni attive a breve (cash pool, depositi, e così via) vengano riqualificate in operazioni a lungo (e viceversa per le operazioni passive), in quanto protratte nel tempo, con applicazione di maggiori tassi (spesso desunti dalle statistiche di istituzioni come Banca d’Italia e Bce). Ad esempio la Ctp Milano 9599/24/2016 ha confermato una contestazione dell’ufficio che aveva riqualificato un deposito infragruppo effettuato da una società italiana con la consociata belga in finanziamento.
In tutti questi casi sarà utile dimostrare che le caratteristiche delle operazioni rispondono alle reali esigenze delle parti e che vi è stato un utilizzo delle risorse conforme a quanto previsto contrattualmente. Senza contare che il quadro di riferimento diventerà ancora più incerto con l’applicazione dei nuovi principi contabili e del costo ammortizzato.

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Il Fisco insegue le carte di soggiorno

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 12 Aprile 2017 di Alessandro Galimberti

Voluntary disclosure. Le novità dell’amministrazione sulla campagna di emersione dai paradisi fiscali

In vista richieste di gruppo per Svizzera, Montecarlo e altri Paesi
Non saranno solo gli iscritti all’Aire dal 2010 – come previsto dalla nuova legge sulla voluntary disclosure – a finire nelle richieste “di gruppo “ dell’assistenza fiscale internazionale.
L’agenzia delle Entrate sta infatti preparando anche le rogatorie per i contribuenti che negli ultimi anni hanno ottenuto, per esempio, il permesso di tipo “B” in Svizzera, la Carte de soujour a Montecarlo e titoli equivalenti in altri Paesi rifugio, compresi i vicini – e comunitari – Austria e Slovenia, senza però dichiararlo all’anagrafe italiana.
Il retroscena della caccia ai contribuenti ancora in fuga, e che si ritengono in salvo per non essersi autodichiarati all’anagrafe residenti all’estero, è emerso dall’intervento del capo team dell’Ucifi, Vincenzo Averna, durante il convegno organizzato all’ambasciata svizzera sul tema della nuova campagna di emersione che ancora stenta a decollare. Svizzera che, come noto, ha dato un grande contributo alla riuscita della prima voluntary disclosure (il 70% della discovery è arrivato dalla piazza di Lugano e dintorni grazie alla piena collaborazione del sistema bancario) e che ora non si tirerà indietro nell’agevolare le ricerche dell’agenzia sui ritardatari cronici e, soprattutto, su chi è domiciliato nella Confederazione all’insaputa o quasi del fisco italiano.
Il nuovo corso dei rapporti tra Roma e Berna, superata ormai di slancio la cronica diffidenza, traspare anche dall’intervento della direttrice del dipartimento economia e finanze del Mef, Fabrizia Lapecorella, che davanti alla platea di avvocati, commercialisti e dirigenti bancari, ha aperto al proseguimento della road map firmata a Milano all’epoca del protocollo inserito a margine della legge 186/14 (Vd 1, il 23 febbraio 2015).
Lapecorella ha detto che l’Italia è pronta ad affrontare i passaggi successivi dell’intesa di Milano, aprendo in sostanza, senza citarli, ai temi ancora “sensibili”. Se la Svizzera chiede l’aggiornamento della Convenzione sulle doppie imposizioni, datata 1976 e che oggi penalizza non poco le ritenute degli investitori italiani, per Roma c’ è la questione delle liste dei “rifugiati fiscali” su almeno due fronti: quello dei domiciliati occulti ma anche il fronte di chi negli ultimi anni ha chiuso o svuotato i conti e gli investimenti per volare altrove (tutte categorie che diventeranno oggetto di richieste di gruppo sull’asse Roma-Berna).
L’approccio internazionalista della confederazione elvetica è stato ribadito dall’ambasciatore Giancarlo Kessler: «La Svizzera intende continuare ad disporre di una piazza finanziaria ed economica stabile, competitiva, integra e rispettata a livello internazionale» e, sempre sul versante Oltralpe, l’avvocato ed ex procuratore pubblico Paolo Bernasconi ha sottolineato che l’amministrazione fiscale sta trattando 67 mila richieste di assistenza, in attesa di quelle italiane, con un trend che non sembra conoscere pause.
Unanime infine la lettura dei professionisti invitati alla tavola rotonda sulla stretta della rete fiscale internazionale: Luigi Belluzzo ha presentato le liste dei Paesi collaborativi, ormai sopra i 100 nel mondo, Markus Wiget ha sottolineato la pervasività del nuovo reato di autoriciclaggio, mentre Valerio Vallefuoco ha anticipato che le nuove regole dell’antiricilclaggio spostano sul professionista – rischi inclusi – tutta l’attività di tracciamento e di segnalazione del cliente.

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Caccia alle «carte» per evitare l’accusa

5 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 04 Marzo 2017 di Antonio Iorio
Come ci si difende. Dalle locazioni alle ricevute: nei paesi black list tocca al contribuente fornire la prova contraria
Il rilevamento da parte dell’amministrazione dei nominativi di coloro che risultano emigrati in Paesi esteri, più o meno a fiscalità privilegiata, non rappresenta una nuova iniziativa. Sin dal 1999 la Direzione accertamento concludeva la circolare 140/E precisando che «allo scopo di integrare l’attività di ricerca … si fa riserva di trasmettere ulteriori elenchi selettivi relativi a cittadini italiani anagraficamente emigrati negli Stati e territori individuati dal decreto 4/5/99».
Gli spunti difensivi in caso di controlli volti a contestare la fittizia residenza all’estero, presuppongono, innanzitutto, la verifica della presenza, o meno, dello Stato estero in questione nella black list.
Non è detto infatti che l’attenzione dei verificatori si concentri esclusivamente verso i Paesi black list; i controlli possono riguardare anche casi di residenze in Stati non considerati paradisi fiscali.
Stati non black list
In questa ipotesi l’onere di dimostrare la fittizia residenza ricade sull’amministrazione la quale generalmente tenta di:
provare che il contribuente sia stato presente in Italia per più di 183 giorni in un anno attraverso l’esame degli estratti conto delle carte di credito, i pernottamenti in hotel, gli impegni lavorativi, i telepass autostradali, eccetera;
verificare la presenza di unità immobiliari in Italia, atti di donazione, compravendita, costituzione di società; nonché significativi e duraturi rapporti di carattere economico, familiare, politico, sociale, culturale e ricreativo nel nostro Paese, ritenendoli indizi idonei a sostenere che il centro degli interessi affettivi e/o economici sia comunque rimasto in Italia.
Va da sé che mentre la presenza obiettiva in Italia per più di 183 giorni rappresenti una prova insormontabile a favore dell’amministrazione, negli altri casi occorrerà dimostrare una reale e duratura localizzazione nel paese estero con indizi e circostanze di fatto che in qualche modo siano prevalenti rispetto alle contestazioni del fisco. In tale contesto, si segnala da ultimo, quanto precisato dalla Suprema Corte nella sentenza 5388 depositata ieri, secondo cui, il giudice di merito chiamato a valutare la effettiva residenza all’estero deve considerare anche la stipula di un contratto di locazione di un immobile nello Stato estero da parte del contribuente.
Stati black list
In questa ipotesi l’amministrazione, in applicazione del comma 2 bis dell’articolo 2 del Tuir si avvale di una presunzione legale relativa, la cui prova contraria incombe sul contribuente. I verificatori, quindi, si limiteranno a rilevare il trasferimento in uno Stato a fiscalità agevolata della residenza del contribuente e chiederanno al contribuente, onde evitare la tassazione in Italia dei redditi ovunque prodotti, di dimostrare l’effettiva residenza nel Paese estero. Di norma, la contestazione riguarda vari periodi di imposta e quindi il contribuente dovrà fornire elementi di prova contraria per ciascun anno. Si tratta della produzione di ogni utile indizio per dimostrare una reale e duratura localizzazione nel paese estero.
È il caso della sussistenza della dimora abituale sia personale, sia dell’eventuale famiglia; della frequenza dei figli presso istituti scolastici esteri, dello svolgimento di un rapporto lavorativo continuativo o di un’attività con carattere di stabilità; della stipula di contratti di acquisto o locazione di immobili residenziali, delle fatture ricevute per erogazione di gas, energia elettrica, telefono, pagati nel paese estero; della movimentazione a qualsiasi titolo di somme di denaro o di altre attività finanziarie nel medesimo Stato estero.

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