Rafforzata la tutela dei marchi

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 14 Settembre 2017 di Bernardo Bruno

Diritto dell’economia. Nulla la registrazione solo «ostruzionistica»

Nullo il marchio comunitario registrato in mala fede al solo fine di impedire a chi lo abbia precedentemente utilizzato e diffuso di continuare a fruirne. Lo ha ribadito la recente sentenza n. 20715, con cui la Corte di cassazione ha altresì evidenziato che «ai fini della nullità in questione, rileva l’uso altrui del medesimo segno anche in un solo Stato membro». Il marchio, indispensabile ad identificare origine e qualità di un prodotto e garantirne la riconoscibilità piena, è meritevole di tutela giuridica anche prima della formale registrazione, in virtù dell’uso di fatto con cui l’utilizzatore ne diffonde la notorietà nel mercato di riferimento. Negli ultimi anni talune aziende, traendo vantaggio dalla mancata registrazione del segno altrui, ne avanzavano richiesta in altri Stati comunitari, in pregiudizio a chi ne avevano precedentemente diffuso la notorietà. L’11 giugno 2009 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciando una storica sentenza nell’ambito del processo Lindt, è intervenuta a sanzionare condotte improntate alla mala fede, individuando tre fattori utili da indagare: a) la conoscenza dell’esistenza di un terzo utilizzatore di un prodotto identico in almeno uno Stato membro; b) l’intenzione del richiedente di impedire al terzo di continuare ad utilizzare il segno; c) un grado di tutela giuridica attribuito al marchio del terzo e a quello di cui era richiesta la registrazione. La particolare formulazione della pronuncia del Tribunale europeo, tuttavia, ha incentivato, nel tempo, interpretazioni tutt’altro che univoche circa i presupposti della malafede, inducendo alcuni ad attribuire alla portata del divieto valore prettamente territoriale. Nella vertenza in esame, promossa davanti alla Cassazione, è stata infatti proposta una lettura restrittiva del provvedimento della Corte di Giustizia, tesa a delimitare la mala fede del richiedente alla sola ipotesi in cui la registrazione del marchio fosse richiesta nello stesso Paese di diffusione, (con esclusione, dunque, delle domande proposte in altri Stati comunitari). La Suprema Corte ha assunto una posizione netta in merito, escludendo qualsiasi restrizione interpretativa. I giudici di legittimità hanno dichiarato nulla la registrazione di un marchio già utilizzato di fatto in un Paese diverso da quello in cui la richiesta è stata presentata, rilevando l’intento di ostacolare il libero ingresso del concorrente nel mercato straniero. Citando la Corte di Giustizia Europea, i giudici nazionali hanno chiarito che l’intenzione di impedire ad un terzo di commercializzare un prodotto può, in talune circostanze, caratterizzare la malafede del richiedente, circostanze che ricorrono quando «il richiedente ha fatto registrare come marchio comunitario un segno senza l’intenzione di utilizzarlo, unicamente al fine di impedire che un terzo entri nel mercato». La pronuncia ha il pregio di offrire una chiara interpretazione della materia, sancendo la portata extraterritoriale del divieto di registrazione in mala fede del marchio e scoraggiando condotte finalizzate a boicottare l’approccio a nuovi mercati ultranazionali da parte di concorrenti commerciali.

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Associazioni sportive, ok alla deduzione

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 15 Settembre 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione. Per i giudici si tratta di spese di pubblicità se i corrispettivi servono alla promozione e c’è stata una vera attività

Non occorre dimostrare l’inerenza delle somme corrisposte fino a 200mila euro

Le somme corrisposte alle associazioni sportive dilettantistiche entro i 200mila euro sono spese di pubblicità deducibili interamente nell’anno: si tratta, infatti, di una presunzione legale assoluta voluta dal legislatore, con la conseguenza che non occorre dimostrare l’inerenza di tali oneri. A confermare questo orientamento è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 21333 depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate aveva notificato a un’impresa un avviso di accertamento con il quale disconosceva la deducibilità di alcune spese di sponsorizzazione a due associazioni dilettantistiche.
Secondo l’ufficio i costi non erano inerenti l’attività, tanto più che le due associazioni erano poco conosciute in ambito territoriale, con la conseguenza che la sponsorizzazione, nonostante l’elevata cifra pagata, era stata verosimilmente inutile. Il provvedimento era stato impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito aveva confermato l’illegittimità della pretesa. L’Agenzia si era rivolta alla Cassazione lamentando un’errata interpretazione della norma.
La Suprema Corte, respongendo la pretesa dell’amministrazione, ha confermato l’orientamento ormai costante sul punto.
L’articolo 90 della legge n. 289/2002 ha previsto che il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni che svolgono attività nei settori giovanili riconosciute dalle federazioni sportive o da enti di promozione sportiva, costituisce per il soggetto erogante una spesa di pubblicità, nel limite annuo di 200mila euro.
I giudici di legittimità hanno rilevato che si tratta di una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti dei 200mila euro, di spese di pubblicità. È pertanto la norma a classificarle come inerenti e congrue all’esercizio dell’attività commerciale, senza che sia necessario alcun riscontro in tal senso.
La decisione conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (n. 7202/17 e 5720/2016) sulla corretta interpretazione della norma.
Va segnalato che la stessa Agenzia con la circolare n. 21/2003 aveva già condiviso tale interpretazione affermando che la norma ha introdotto una presunzione assoluta circa la natura di tali spese.
In sintesi, quindi, è la legge a prevederne l’integrale deducibilità nell’anno e a tal fine occorre verificare che:
i corrispettivi erogati siano destinati alla promozione dell’immagine/prodotto dell’impresa;
il soggetto ricevente sia una «compagine sportiva dilettantistica» che si impegni a promuovere il marchio/prodotto;
vi sia concretamente stata l’attività promozionale (ad esempio apposizione del marchio sulle divise, esibizione di striscioni e/o tabelloni sul campo).
Va detto che sono numerosi i casi di rettifiche fondate su questa contestazione soprattutto se i verificatori rilevano che l’importo speso per la pubblicità è sproporzionato rispetto all’utile dell’impresa. Viene in genere contestata, a questo riguardo, una antieconomicità del costo. Vi è ora da sperare che, alla luce del costante orientamento giurisprudenziale, gli uffici rivedano le proprie posizioni e soprattutto abbandonino gli eventuali contenziosi in corso.

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Sponsor, non conta la spesa elevata

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 28 Agosto 2017 di Marcello Maria De Vito

Reddito d’impresa. Bastano le foto delle gare sportive in cui compare il logo a provare l’effettività dell’investimento effettuato

Non si può presumere l’inesistenza della prestazione solo perché l’importo è sproporzionato

La prova dell’effettività sponsorizzazioni compete al contribuente e, in proposito, sono dirimenti le fotografie delle gare nelle quali compare il logo dello sponsor. D’altro canto, l’agenzia delle Entrate non può presumere la parziale inesistenza delle sponsorizzazioni sulla base del loro elevato ammontare rispetto all’efficacia pubblicitaria degli eventi, poiché resta nell’ambito della discrezionalità imprenditoriale valutare l’adeguatezza del ritorno pubblicitario rispetto agli investimenti effettuati. Sono questi i principi statuiti dalla Ctr Lombardia con la sentenza 1727/11/2017 (presidente Buono, relatore Blandini).
L’Agenzia contestava a una società l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, emesse da un soggetto operante nel settore delle corse automobilistiche. L’ufficio affermava che tali fatture venivano solo formalmente pagate a mezzo bonifici, dal momento che il soggetto sponsorizzato, ricevuto il bonifico, prelevava contanti che l’Agenzia presumeva restituiti agli sponsor.
La società sponsor ricorreva alla Ctp di Milano, che accoglieva il ricorso affermando che non vi era alcuna prova certa dell’inesistenza delle prestazioni e/o della reale incongruenza tra le prestazioni rese e quelle fatturate.
Il Fisco appellava la sentenza, affermando che l’accertamento si fondava sul meccanismo fraudolento realizzato dal soggetto sponsorizzato, ribadendo il fatto che i prelievi in contanti facevano presumere la restituzione del denaro agli sponsor.
L’ufficio lamentava, altresì, che la Ctp aveva ritenuto provate le sponsorizzazioni grazie alle dichiarazioni di terzi, in violazione del divieto di prova testimoniale.
La Ctr respinge l’appello dell’ufficio, smontando sotto vari profili la ricostruzione e le argomentazioni dell’ufficio:
innanzitutto, va rilevato che il contribuente ha provato l’effettività delle prestazioni, producendo fotografie, filmati delle gare ed estratti di quotidiani nazionali in cui erano ben presenti le vetture con il logo sponsorizzato;
in secondo luogo, le dichiarazioni di terzi, pur non potendo assurgere a testimonianza, hanno pur sempre un rilevante valore indiziario;
infine, la presunzione di restituzione agli sponsor di parte delle sponsorizzazioni, fondata sull’elevato ammontare della spesa rispetto all’efficacia pubblicitaria, non compare negli avvisi di accertamento. E comunque, puntualizza la Ctr, resta nell’ambito della discrezionalità imprenditoriale valutare l’adeguatezza del ritorno pubblicitario rispetto agli investimenti.
È poi corretta, secondo la Ctr, l’affermazione della Ctp seconda la quale è contraddittorio da un lato asserire che le prestazioni siano inesistenti e dall’altra supporre che siano state sovrafatturate.
La commissione di secondo grado, inoltre, sottolinea che gli avvisi di accertamento si fondano su attività ispettive svolte a carico di un soggetto terzo, le cui risultanze non sono state adeguatamente riprodotte nell’atto impugnato, se si eccettuano le mere affermazioni di «sponsorizzazioni mai rese o solo in parte rese» risultanti da un Pvc non portato a conoscenza del contribuente.
A questa decisione è seguita, solo qualche giorno più tardi, una sentenza dello stesso tenore (la 1877 del 18 aprile 2017) pronunciata dalla stessa Ctr della Lombardia.

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Nel gruppo lecito il finanziamento infruttifero

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 23 Agosto 2017 di Massimo Romeo

Ctp Milano. Riconosciuto il carattere accessorio delle operazioni compiute ai fini Iva

La Commissione tributaria provinciale di Milano con la sentenza 4656 del 10 luglio 2017 (presidente Ortolani – relatore Moro) accoglie le doglianze della società ricorrente e annulla le riprese dell’Ufficio ai fini Ires riconoscendo la liceità del contratto, in ambito infragruppo, del finanziamento infruttifero di interessi e ai fini Iva, con riferimento al requisito soggettivo, il carattere accessorio delle operazioni compiute.
La società contribuente, operante nel settore industriale della fabbricazione e distribuzione di prodotti per l’agricoltura, impugnava un avviso di accertamento per diverse annualità con il quale l’agenzia delle Entrate, in seguito ad un processo verbale di constatazione, aveva ripreso a tassazione l’omessa contabilizzazione di ricavi per l’antieconomicità di un prestito infruttifero di interessi erogato alla società partecipata e risultante da un regolare contratto sottoscritto. La ricorrente attribuiva l’onerosità degli interessi sostenuti alla inadeguata consistenza patrimoniale della società controllata per ottenere finanziamenti dal sistema creditizio; a supporto richiama giurisprudenza di legittimità (Cassazione 27087/14) e di merito (Ctp Reggio Emilia e Ctr Piemonte/Lombardia) in base alla quale la concessione di finanziamento infruttifero in ambito infragruppo è scelta imprenditoriale legittima equiparabile a conferimento di capitale.
L’Ufficio ribadiva la legittimità del proprio operato e l’evidente antieconomicità dell’operazione in quanto la controllante non aveva ottenuto alcun provento a fronte di oneri finanziari rilevanti sostenuti per l’accesso al credito bancario.
Sul fronte Iva l’Ufficio altresì contestava l’indebita detrazione per il mancato inserimento nel calcolo Prorata di operazioni attive esenti quali le cessioni di partecipazioni che la ricorrente aveva considerato non rientranti nell’attività propria dell’impresa o accessorie ad operazioni imponibili; la motivazione dell’atto impositivo si fondava sull’assenza di occasionalità e accessorietà in quanto emergeva un’attività tipica di una holding che normalmente affianca all’ attività di produzione industriale i finanziamenti, le compravendite di quote di partecipazione, l’accentramento di costi con successivo riaddebito , prestazioni di servizi riferite alle controllate.
Parte ricorrente sosteneva invece che la vendita di partecipazioni era del tutto occasionale e strumentale allo svolgimento dell’attività industriale, non poteva generare prorata come, fra l’altro, aveva affermato l’agenzia delle Entrate in risposta ad una consulenza giuridica (n. 954-49/2014).
I giudici milanesi per risolvere la controversia ai fini Ires si rifanno all’articolo 1815 del Codice civile e all’articolo 89 comma 5 del Testo unico delle imposte sui redditi. In materia civilistica è prevista la corresponsione degli interessi al mutuante salvo diversa volontà delle parti.
In materia fiscale viene lasciata libera autonomia alle parti di determinare la fruttuosità o l’infruttuosità di interessi del finanziamento concesso.
Ai fini Iva, poi, il Collegio richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia della Ue che ha precisato in più occasioni che un’operazione deve considerarsi accessoria ad una principale quando non costituisce per la clientela un fine a se stante ma un mezzo per fruire delle migliori condizioni della fornitura principale resa dal soggetto Iva; precisazioni che i giudici considerano qualificanti del caso in esame.
Le operazioni sotto la lente del fisco si riferivano infatti a cessioni di quote di partecipazione ad altre società con successivo trasferimento del know-how ad altra società del gruppo che si occupava della produzione del prodotto; pertanto, concludono i giudici, non erano state effettuate tipicamente dal soggetto Iva ma solo in via del tutto occasionale e non rientravano nell’attività propriamente ed effettivamente svolta dalla società ricorrente.

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Con il «Maat» più armi al Fisco

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 22 Agosto 2017 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

Cooperazione internazionale. La Convenzione multilaterale consente indagini più approfondite e retroattive

Possibile la riscossione diretta all’estero, anche a carico degli eredi

Retroattività degli accertamenti fino a tre anni precedenti l’entrata in vigore degli accordi, riscossione diretta all’estero dell’imposta evasa e anche a carico degli eredi.
In attesa dei primi effetti dello scambio automatico di informazioni (non prima del 2018), la strategia della lotta all’evasione internazionale potrebbe passare attraverso uno strumento ancora più incisivo: la Convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa (Maat). In una platea di 112 Stati – dal più piccolo paradiso alle piazze storiche, Svizzera, Monaco e Liechtenstein inclusi, ma ancora fuori gli Usa – valgono infatti oggi le regole molto elastiche del Maat, che disciplinano l’ “ingaggio” e il funzionamento degli strumenti principali per la lotta all’evasione: lo scambio di informazioni (a richiesta, di gruppo o automatico), le verifiche fiscali congiunte e simultanee sia in Italia sia all’estero; l’assistenza delle amministrazioni straniere aderenti alla riscossione all’estero anche attraverso provvedimenti conservativi a garanzia del credito erariale; ed infine una disciplina uniforme della notifica degli atti di accertamento di riscossione e dei documenti.
Nella convenzione multilaterale viene confermata la totale abolizione del segreto bancario, finanziario, fiduciario, assicurativo e di mandatari in genere. La facoltà per le amministrazioni finanziarie di poter effettuare una verifica fiscale simultanea e all’estero è un’assoluta novità estesa ad un accordo multilaterale e potrebbe rivelarsi estremamente efficace in indagini finanziarie complesse su attività detenute in più Stati.
Il Maat è uno strumento attuativo e integrativo delle convenzioni già in essere, tendente a uniformare e semplificare le procedure che prima d’ora scontavano la continua diversità delle singole discipline normative nazionali, in cui vengono indicati i contenuti essenziali della domanda di assistenza e disciplinata anche la procedura da utilizzare, nonché i diritti dei contribuenti.
La riscossione dei crediti fiscali esce rafforzata dall’applicazione del Maat, che in particolare prevede l’equiparazione giuridica tra i crediti fiscali dello Stato richiedente e di quello ricevente. Basta solo che vi sia un titolo idoneo alla riscossione, ma se lo Stato richiedente agisce contro un suo residente domiciliato “fuori”, il titolo il credito non può essere più fermato.
Per quanto riguarda il recupero di imposte o tasse nei confronti di persone decedute o nei confronti degli eredi, sarà possibile nei limiti della successione, ovvero nei limiti dei beni ricevuti dagli eredi.
Uno degli aspetti più importanti degli accordi Maat resta comunque la decorrenza. Secondo la convenzione, l’entrata in vigore si calcola dal momento della ratifica, ma per fatti penalmente rilevanti (e quindi anche per reati tributari) riguardanti lo Stato richiedente, la richiesta di informazioni può avere retroattività fino al terzo anno antecedente l’entrata in vigore. Per mere finalità di esempio, per Monaco si avrà una retroattività al 1° aprile 2014 (l’entrata in vigore della Convenzione data al 1° aprile scorso).
Questa modalità di accertamento potrebbe essere estesa a tutti gli altri Paesi aderenti (Svizzera, Liechtenstein, San Marino, Emirati Arabi, Libano e Bahamas eccetera) a seconda dell’entrata in vigore delle rispettive ratifiche della Convenzione ,superando di fatto anche i limiti temporali dei precedenti accordi bilaterali – sempre che i fatti per cui si richiede lo scambio di informazioni abbiano rilievo penale (o penal/tributario).

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Senza confusione sì all’uso del domain name

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 24 Agosto 2017 di Patrizia Maciocchi

Cassazione. Il titolare del marchio registrato prima non può vietare l’utilizzo se i servizi offerti sono diversi

Roma

Il titolare del marchio registrato prima non può vietare l’uso del domain name, se non c’è rischio di confondere i prodotti o i servizi. La Cassazione, con la sentenza 20189 respinge il ricorso di una Spa, attiva nel settore immobiliare, teso a bloccare l’uso di un nome a dominio. Alla base del “veto” e della richiesta di riassegnazione in proprio favore del domain name c’era la titolarità del marchio Etnapolis precedentemente registrato. Un segno troppo simile al domain name, etnapolis.it e etnapolis.com la cui registrazione era stata chiesta da un imprenditore siciliano titolare di una virtual communication agency, che forniva alle imprese servizi gestiti direttamente on line. Il target di riferimento era vario: dallo svago allo sviluppo di software ed hardware.
Per la Corte d’appello l’oggettiva diversità della classi merceologiche non poteva essere superata né dal richiamo all’uso pubblicitario del marchio, fatto dal ricorrente, né dall’affermata, ma non dimostrata, rinomanza del segno preesistente a livello nazionale.
La natura forte o debole del marchio è, infatti, rilevante nel caso di contraffazione tra due marchi non identici, mentre nel caso esaminato vale la legittimità della registrazione del segno come nome a dominio.
Secondo la difesa del ricorrente l’uso del nome a dominio andrebbe invece considerato illecito, anche quando c’è solo la possibilità che il pubblico associ il titolare del domain name al titolare del marchio già registrato, rendendo di fatto impossibile per quest’ultimo utilizzare il brand originario su Internet.
I giudici ricordano che già la legge marchi (929/1942), in seguito alla riforma del ’92 prendeva in considerazione i segni “atipici” in grado di confliggere con quelli già in uso. La norma chiariva che i titolari dei marchi non possono vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome o del loro indirizzo purché l’uso non sia in funzione di marchio ma solo descrittiva. Previsione dalla quale si desume che anche un indirizzo può essere un marchio quando, come nel caso del nome a dominio, ne ricorrono i presupposti. Un’interpretazione che ha trovato conferma nel Codice della proprietà industriale (Dlgs 30/2005) che considera espressamente tra i segni distintivi anche il domain name.
Il titolare del brand originario non può far valere alcun automatismo nel vietare il diritto all’uso del nome a dominio. Sarà il giudice a decidere, basandosi non solo sull’identità dei segni e sulla loro confondibilità ma anche su identità e confondibilità dei prodotti, esclusa nel caso esaminato. La ricorrente non ha provato il rischio confusione e non si può ritenere che ogni marchio sia accompagnato dalla notorietà. Tale interpretazione sarebbe in contrasto con il principio di specialità del marchio e in conflitto con l’articolo 20 del Codice della proprietà industriale che fa scattare l’”esclusiva” solo in caso di segni identici per prodotti uguali o affini.

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Il Testo unico attende adeguamenti

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2017 di Francesco Avella

Le «eccezioni negative». Applicazione delle novità subordinata alle decisioni dei singoli Stati

Le novità in materia di eccezioni negative di stabile organizzazione si applicheranno a un Accordo fiscale coperto soltanto se anche l’altro Stato contraente abbia optato per applicarle (paragrafi 7 e 8 dell’articolo 13 della Multilaterale Beps).
Benché molti Stati abbiano optato in tal senso, si registrano alcune illustri eccezioni, come Cina, Malta e Svizzera – che hanno scelto di non applicare in toto l’articolo 13 – e come Irlanda e San Marino – che hanno scelto di applicare differenti disposizioni dell’articolo 13. Per le Convenzioni concluse dall’Italia con tali Paesi, le novità in materia di eccezioni negative non saranno dunque applicabili e quindi nulla cambierà.
Le novità, peraltro, potrebbero non concretizzarsi nemmeno nei rapporti con gli Stati che hanno optato per l’applicazione delle medesime previsioni scelte dall’Italia. La concreta efficacia delle modifiche apportate dall’articolo 13 della Multilaterale Beps sembra infatti condizionata ad analoghe modifiche da apportare all’articolo 162 del Tuir. Non può trascurarsi, infatti, che la funzione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni è limitare la potestà impositiva rispetto a quanto previsto nella normativa nazionale: ciò implica, quanto alla nozione di stabile organizzazione, che le Convenzioni assumono rilevanza soltanto laddove la definizione convenzionale sia più restrittiva di quella contenuta nella normativa nazionale; al contrario, se la definizione contenuta nella norma nazionale non conduce a riscontrare l’esistenza di una stabile organizzazione e, dunque, non legittima la tassazione in Italia del reddito d’impresa del non residente, l’applicazione delle Convenzioni non può espandere la potestà impositiva dell’Italia e quindi non può consentire all’Italia di tassare qualcosa che non tasserebbe per norma interna, nemmeno se la definizione convenzionale di stabile organizzazione è più ampia di quella nazionale (si veda anche l’articolo 169 del Tuir).
Il legislatore dovrà pertanto intervenire sull’articolo 162 del Tuir in maniera analoga al contenuto dell’articolo 13 della Multilaterale Beps, anche in considerazione del fatto che la disposizione nazionale venne introdotta nell’ordinamento italiano nel 2003 ispirandosi a una definizione di stabile organizzazione – quella contenuta nel Modello di Convenzione Ocse di allora – non più attuale alla luce delle evoluzioni Beps.

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Non concorrenza, patto «limitato»

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2017 di Daniele Colombo

Contratti. Le indicazioni della giurisprudenza stabiliscono i confini dell’accordo tra il dipendente e il suo ex datore di lavoro

Il corrispettivo deve essere congruo e l’oggetto circoscritto all’attività precedente

Corrispettivo congruo, oggetto circoscritto all’attività precedente, clausole che non vincolino troppo la libertà del lavoratore: sono alcuni dei limiti fissati dalla giurisprudenza al patto di non concorrenza. Si tratta di un accordo con cui il lavoratore dipendente si obbliga a non fare concorrenza al suo (ex) datore di lavoro per il periodo successivo alla cessazione del contratto.
In base all’articolo 2125 del Codice civile, il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
Il patto di non concorrenza, quindi, in primo luogo, per essere valido, deve essere stipulato in forma scritta. La forma richiesta dal Codice civile è a pena di validità con la conseguenza che non saranno ammissibili altre forme (come quella orale). Il patto di non concorrenza, poi, deve prevedere un corrispettivo, oltre che essere limitato nell’oggetto, nel tempo e nello spazio.
Il patto può essere stipulato contestualmente alla conclusione del contratto di lavoro oppure anche durante il rapporto stesso non essendo previsto dalla normativa il momento in cui sottoscrivere il patto. Nella loro valutazione complessiva, in ogni caso, le clausole del patto di non concorrenza (oggetto, territorio, durata e corrispettivo) non devono comprimere «eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti» (Cassazione, sentenza 24662 del 19 novembre 2014).
Il corrispettivo da riconoscere per l’assunzione dell’obbligo di non concorrenza, secondo la giurisprudenza, deve essere «congruo» in relazione al sacrificio imposto al lavoratore nel periodo successivo alla conclusione del contratto di lavoro (Cassazione, sentenza 11104 del 15 maggio 2007). In altri termini, la congruità del corrispettivo deve essere valutata caso per caso alla luce delle mansioni espletate e dell’oggetto dell’attività lavorativa. Ad esempio, alcune sentenze di merito hanno ritenuto «congruo» un corrispettivo pari al 40% della retribuzione (Tribunale di Milano, 25 marzo 2011); mentre, in altri casi, è stata ritenuta sufficiente la percentuale del 10% (Cassazione, sentenza 7835 del 4 aprile 2006).
Quanto alle modalità di pagamento, alcune sentenze non ammettono il pagamento del compenso in corso di rapporto in quanto, tra le altre cose, il compenso non risulterebbe determinato, ma sarebbe aleatorio (Tribunale di Milano, 28 settembre 2010); in altre decisioni, invece (uniformi al risalente orientamento della Cassazione), si è ritenuto legittimo il pagamento in corso di rapporto sul presupposto dell’assenza di una disposizione normativa contraria (Tribunale di Roma, 11 aprile 2016).
Anche il limite territoriale e la sua possibile legittima estensione devono essere valutati caso per caso in relazione alle attività e all’oggetto del rapporto di lavoro. In questo senso, ad esempio, è stato ritenuto legittimo il limite del territorio italiano ed europeo (Cassazione, sentenza 13282 del 10 settembre 2003).
L’oggetto del patto di non concorrenza, inoltre, deve essere limitato ai prodotti oggetto dell’attività lavorativa del dipendente, mentre devono essere escluse, in quanto inidonee a integrare concorrenza, attività estranee al settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ovvero al mercato nelle sue oggettive strutture, dove convergono domande e offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque parimenti idonei a offrire beni o servizi nel medesimo mercato (Cassazione, sentenza 24662 del 19 novembre 2014).
In base all’articolo 2125 del Codice civile, infine, la durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Qualora le parti prevedano una durata superiore questa è automaticamente ridotta al tetto massimo fissato dalla legge.

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Società Ue con regole uniformi

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 15/08/2017 di Angelo Busani

Verso il Testo unico. Pubblicata la direttiva europea che riordina la normativa sulle persone giuridiche

Capitale minimo di 25mila euro per partire (contro i 50mila in Italia)

L’elaborazione di un Testo unico su diversi rilevanti aspetti del diritto delle società di capitali, che trova la sua fonte a livello Ue: è questo, in sostanza, lo scopo della direttiva 2017/1132 del 14 giugno 2017 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Unione Europea del 30 giugno scorso), con la quale il Parlamento e il Consiglio dell’Unione hanno inteso conferire una “sistemazione” organica alle materie trattate in una pluralità di direttive in materia societaria emanate in passato, più volte modificate e ora, appunto, abrogate e sostituite da questo nuovo coerente quadro d’insieme. L’obiettivo è realizzare una sempre più compiuta uniformità del diritto societario negli Stati membri.
Le materie affrontate sono, in sintesi: l’atto costitutivo e lo Statuto; la rappresentanza della società; i registri di pubblicità; le succursali di una società stabilite in uno Stato diverso da quello della sede legale; il capitale sociale e la sua formazione; la stima dei conferimenti; la riduzione e l’aumento del capitale; l’acquisto e la sottoscrizione di azioni proprie; la fusione (domestica e transfrontaliera) e la scissione.
Alla prima lettura della direttiva (peraltro non agevole: sono 82 pagine, contenenti 168 articoli e alcuni allegati), la sensazione che ne ritrae un operatore italiano è quella che gran parte degli argomenti affrontati siano stati già stabilmente recepiti nel nostro ordinamento. Non mancano, però, elementi di novità (come la preconizzata interconnessione dei registri pubblicitari degli Stati membri, che saranno consultabili mediante l’accesso a un unico portale) e spunti di riflessione suscitati dalle norme particolari dedicate alle singole materie trattate dalla direttiva.
L’atto costitutivo della Spa
Appare di notevole rilevanza la previsione, contenuta nell’articolo 10, secondo cui l’atto costitutivo e lo Statuto della società per azioni e le sue modifiche, devono rivestire la forma di atto pubblico ogni qualvolta la legislazione dello Stato Ue non preveda, all’atto della costituzione, un controllo preventivo amministrativo o giudiziario. In Italia, peraltro, questa previsione è già oggi assorbita dalla regola generale (articolo 2328, comma 2 del Codice civile) per la quale l’atto pubblico è la forma richiesta ad substantiam per l’atto costitutivo di Spa.
Il capitale della Spa
L’articolo 45 della direttiva stabilisce che, per costituire una società azionaria, deve risultare sottoscritto un capitale minimo di valore nominale non inferiore a 25mila euro (in Italia, attualmente, il capitale minimo è stabilito in 50mila euro). Si tratta di una soglia che il Parlamento e il Consiglio europeo rivedono ogni cinque anni, in funzione dell’evoluzione economica e monetaria che siano intervenute nel periodo, nonché in relazione all’obiettivo di «riservare» la forma della Spa «alle grandi e medie imprese». L’articolo 46, a sua volta, sancisce il divieto di conferire nella Spa prestazioni d’opera o di servizi, prescrizione che la legge italiana già osserva (articolo 2342, ultimo comma, del Codice civile).
La rappresentanza della Spa
La direttiva spinge l’acceleratore sul punto che gli atti compiuti da organi societari non possono essere invalidati da questioni inerenti l’invalidità della nomina degli organi stessi, l’estraneità degli atti compiuti dagli organi sociali rispetto all’oggetto sociale, da limitazioni ai poteri di rappresentanza della società.
L’articolo 8, in particolare, dispone che l’adempimento delle formalità di pubblicità relative alle persone che, nella loro qualità di organo sociale, hanno il potere di obbligare la società, rende inopponibile ai terzi ogni irregolarità nella loro nomina, a meno che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza.

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Soggetta anche l’attività della società inglese

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore del 14/08/2017  di Antonio Iovine (L’Esperto Risponde)

Ho una società inglese che possiede due appartamenti in Toscana. Vorrei affittarli saltuariamente a turisti per brevi periodi. Non vorrei comunque aprire partite Iva, per evitare grosse spese amministrative. Devo comunque prendere una licenza base per affittacamere?
D.B.MONTELUPO FIORENTINO
Qualunque attività svolta da una società, prescindendo da ogni altro ulteriore requisito, costituisce per presunzione effettuazione di attività nell’esercizio d’impresa, ex articolo 4, comma 2, lettera b, del Dpr 633/1972, che menziona anche le società straniere. Pertanto, nella situazione in esame, posto che la prestazione è resa da una società, seppure di diritto britannico, essa si ritiene effettuata nell’esercizio d’impresa e, quindi, soggetta a Iva. La società britannica dovrebbe acquisire una posizione Iva in Italia ai fini di regolare l’applicazione dell’imposta sui servizi fatturati, qualora i committenti siano dei privati, come sembra emergere dal quesito.
Si segnala, infine, che nella circolare 12/E/2007 e nella successiva risoluzione 18/E/2012 l’agenzia delle Entrate ha chiarito che la locazione di abitazioni a turisti dev’essere considerata “prestazione alberghiera”, soggetta ad aliquota Iva nella misura del 10% (n. 120 della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972), con conseguente riconoscimento della detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti.

Il Sole 24 Ore del 14/08/2017  di Antonio Iovine (L’Esperto Risponde)

Ho una società inglese che possiede due appartamenti in Toscana. Vorrei affittarli saltuariamente a turisti per brevi periodi. Non vorrei comunque aprire partite Iva, per evitare grosse spese amministrative. Devo comunque prendere una licenza base per affittacamere?
D.B.MONTELUPO FIORENTINO
Qualunque attività svolta da una società, prescindendo da ogni altro ulteriore requisito, costituisce per presunzione effettuazione di attività nell’esercizio d’impresa, ex articolo 4, comma 2, lettera b, del Dpr 633/1972, che menziona anche le società straniere. Pertanto, nella situazione in esame, posto che la prestazione è resa da una società, seppure di diritto britannico, essa si ritiene effettuata nell’esercizio d’impresa e, quindi, soggetta a Iva. La società britannica dovrebbe acquisire una posizione Iva in Italia ai fini di regolare l’applicazione dell’imposta sui servizi fatturati, qualora i committenti siano dei privati, come sembra emergere dal quesito.
Si segnala, infine, che nella circolare 12/E/2007 e nella successiva risoluzione 18/E/2012 l’agenzia delle Entrate ha chiarito che la locazione di abitazioni a turisti dev’essere considerata “prestazione alberghiera”, soggetta ad aliquota Iva nella misura del 10% (n. 120 della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972), con conseguente riconoscimento della detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti.

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