Operazioni inesistenti, prova a carico delle Entrate

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 28 Ottobre 2017 di A.I.

Frodi. La Cassazione

Nell’ipotesi in cui sia contestata l’inesistenza soggettiva dell’operazione, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche in via presuntiva, l’interposizione fittizia del cedente, ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, nonché la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa. Spetta, invece, al contribuente che intende esercitare la detrazione dimostrare l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente. È questo il principio ribadito ieri da due ordinanze 25538 e 25545 della Cassazione in tema di fatture soggettivamente inesistenti. In entrambe le pronunce la Corte ha rigettato i ricorsi delle Entrate secondo cui, contrariamente alle decisioni dei giudici di merito, l’Iva assolta dai contribuenti, che avevano ricevute fatture soggettivamente inesistenti, non poteva essere detratta.
In entrambe le vicende i contribuenti interessati avevano acquistato merce da soggetti che poi erano stati ritenuti “cartiere” con la conseguenza che, stante l’oggettiva effettuazione dell’operazione commerciale e risultante fittizio il cedente, veniva richiesta l’Iva detratta a fronte di tali acquisti.
I giudici di merito ritenevano dimostrata l’inconsapevolezza degli acquirenti e quindi la loro buona fede, con la conseguenza che non potevano ritenersi coinvolti nella frode commessa dai fornitori. In simili circostanze, la buona fede diventa centrale per evitare il coinvolgimento negli illeciti Iva. Tale concetto è stato in un qualche modo introdotto nel nostro ordinamento dalla Corte di giustizia, intervenuta sul tema. Un soggetto, infatti, non può avvalersi delle norme del diritto Ue quando nell’ambito di un’evasione o di un abuso, sapeva o avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. A tal fine, è legittimo pretendere che l’operatore adotti tutte le misure (che gli si possono ragionevolmente chiedere) per assicurarsi che l’operazione non comporti una propria partecipazione all’evasione.
La Cassazione ha così confermato che spetta alle Entrate dimostrare che il contribuente «sapeva o avrebbe dovuto sapere» che con il proprio acquisto partecipava ad una frode.

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Beni situati in Paesi black list: raddoppio dei termini limitato

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 30 Ottobre 2017 di Giorgio Gavelli

Fisco internazionale. Il giro di vite del Dl 78/2009 non è retroattivo ed esclude i periodi ante 2010

Secondo la decisione 1085/4/2017 della Commissione tributaria provinciale di Genova (presidente Del Vigo, relatore Silvano), depositata lo scorso 25 agosto, il raddoppio dei termini di accertamento previsto dall’articolo 12 del Dl 78/2009 per i beni situati in Paesi black list e non oggetto di monitoraggio non può operare per i periodi d’imposta anteriori al 2010. Si tratta di un tema che assai spesso ricorre nel contenzioso tributario (si veda Il Sole 24 Ore del 23 agosto scorso).
Il caso trattato dalla Commissione genovese riguarda una polizza emessa da una società con sede nelle Isole Bermuda, sottoscritta nel 2007 dal contribuente e mai riportata (come del resto i relativi guadagni) in dichiarazione dei redditi.
L’articolo 12 del Dl 78/09 prevede, in sintesi, che:
gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di monitoraggio, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione (comma 2, prima parte);
in tale ipotesi le sanzioni ordinariamente previste per le violazioni dichiarative sono raddoppiate (comma 2, seconda parte);
per l’accertamento di tale presunzione gli ordinari termini sono raddoppiati (comma 2-bis), così come i termini per accertare le violazioni in tema di monitoraggio (comma 2-ter).
L’agenzia delle Entrate ha sempre ritenuto la “stretta” operata dal Dl 78/2009 come «di natura procedimentale» e, quindi, sostanzialmente retroattiva (circolari 19/E/2017, 6/E/2015 e 27/E/2015) e su questo ragionamento ha impostato la procedura di voluntary disclosure.
Tuttavia, la dottrina prevalente e buona parte della giurisprudenza hanno sempre nutrito perplessità sulla retroattività della presunzione sulla costituzione “in nero” di investimenti ed attività nei paradisi fiscali e sull’applicabilità ai periodi d’imposta anteriori al 2010 del raddoppio dei termini per le violazioni del monitoraggio e dei termini e delle sanzioni per quelle dichiarative.
Nel caso di specie, la presunzione di aver costituito provvista all’estero “in nero” non si applicava, avendo il contribuente documentato l’esistenza del capitale impiegato nella polizza già in anni anteriori. Restavano validi, tuttavia, secondo l’ufficio il raddoppio della sanzione sul monitoraggio ed il prolungamento dei termini di accertamento sul reddito non dichiarato. La Commissione genovese, tuttavia, non è di questo avviso. Da un lato appare indubbio che la norma «esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito» e, di conseguenza, non può applicarsi a fattispecie anteriori la sua entrata in vigore (così Ctr Lombardia 1865/1/2017, Ctp Rimini 42/1/2017 e Ctp Milano 3933/7/2017). Dall’altro, il raddoppio appare strettamente collegato alla operatività della presunzione sul capitale (Ctr Lombardia 4382/27/2015).
Nel merito, peraltro, il non aver allegato all’atto di accertamento la documentazione della Guardia di finanza consolida, secondo la Ctp, l’illegittimità dell’accertamento impugnato.

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Licenziato chi copia i dati aziendali

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 26 Ottobre 2017 di Giampiero Falasca

Cassazione. Anche se non protetti da password e non sono divulgati all’esterno

È legittimo il licenziamento del dipendente che copia su una pen drive personale, senza autorizzazione del datore di lavoro, alcuni dati aziendali riservati, anche se queste informazioni non vengono divulgate a terzi.
La violazione dei doveri contrattuali, infatti, si verifica anche quando una certa condotta, pur non producendo un danno concreto, ha una intrinseca potenzialità lesiva degli interessi del datore di lavoro.
La Corte di cassazione (sentenza 25147/2017), con un ineccepibile rigore interpretativo, ricostruisce alcuni principi importanti in tema di sicurezza dei dati aziendali, una questione sempre più rilevante per le imprese nell’attuale contesto tecnologico, dove è molto facile sottrarre e spostare grandi quantità di informazioni riservate.
La vicenda riguarda il licenziamento di un dipendente che ha trasferito su una pen drive di sua proprietà (poi smarrita e ritrovata casualmente nei locali aziendali) un numero rilevantissimo di dati appartenenti all’azienda. Il dipendente ha contestato la legittimità del licenziamento, sostenendo di essersi limitato a copiare i dati, senza diffonderli in alcun modo; il lavoratore, inoltre, ha evidenziato che i file in questione non erano protetti da password e non erano coperti da specifici vincoli di riservatezza.
La Suprema corte ha rigettato queste argomentazioni, ritenendo che la condotta del dipendente sia riconducibile all’ipotesi – sanzionato dall’articolo 52 del Ccnl del settore aziende chimiche con il licenziamento – della grave infrazione alla disciplina o alla diligenza del lavoro. Il Ccnl riconduce a tale fattispecie alcune condotte quali il furto, il danneggiamento volontario del materiale di impresa e il trafugamento di schede, disegni, utensili e materiali affini.
In coerenza con questa impostazione, la Corte ha escluso che la semplice copiatura dei file aziendali sia collocabile nell’ipotesi meno grave dell’utilizzo improprio degli strumenti di lavoro aziendali (per la quale il Ccnl prevede solo sanzioni conservative).
Ciò in quanto la condotta del dipendente è comunque connotata dalla finalità di sottrarre informazioni a prescindere dall’effettiva divulgazione dei dati, mentre la fattispecie dell’uso improprio si può applicare a condotte nelle quali manca tale finalità.
La sentenza chiarisce anche che è irrilevante, ai fini della valutazione disciplinare, la circostanza che i dati sottratti siano protetti oppure no da specifiche password; il fatto che l’accesso ai dati sia libero, precisa la Corte, non autorizza un dipendente ad appropriarsene per finalità proprie, né consente di farli uscire dalla sfera di controllo del datore di lavoro.

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Stabile organizzazione anche «personale»

9 Novembre 2017

IL Sole 24 Ore 24 Ottobre 2017 di Benedetto Santacroce

Modelli Ocse. Sterilizzata la frammentazione delle attività

L’Italia con la legge di bilancio cerca di recepire la nuova versione dell’articolo 5 del modello Ocse, in materia di stabile organizzazione così come modificato a seguito dell’Action 7 del Beps. In effetti, l’intervento, almeno nella bozza disponibile, riforma l’articolo 162 del Tuir sotto tre profili:
rivede integralmente il comma 4, inserendo il concetto di disponibilità dei beni e dei luoghi, concetto presente nel nuovo commentario Ocse. Il comma 4 definisce i casi in cui la sede fissa d’affari non è considerata stabile organizzazione. La nuova norma utilizza un’espressione diversa, in quanto viene previsto che il termine «stabile organizzazione» non comprende tutti i casi in cui l’impresa non residente dispone in Italia di luoghi destinati al mero deposito, ai soli fini di acquistare beni o merci o di raccogliere informazioni per l’impresa o per svolgere attività preparatorie o ausiliarie;
introduce nel nostro ordinamento il nuovo paragrafo 4.1 dell’articolo 5 dell’Ocse che è diretto a sterilizzare gli effetti della frammentazione delle attività anche nell’ambito dei gruppi ai fini della valutazione del carattere preparatorio o ausiliarie delle medesime. In particolare, costituisce stabile organizzazione una sede d’affari utilizzata o gestita da un’impresa se la stessa impresa o un’impresa strettamente correlata svolge la sua attività nello stesso luogo o in un altro luogo del territorio dello Stato;
viene modificato il concetto di stabile organizzazione personale e viene stabilito che se un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente e abitualmente conclude contratti o porta a conclusione contratti senza modifiche sostanziali essa costituisce stabile organizzazione del soggetto non residente. In questo caso l’Italia si conforma con la convenzione multilaterale.

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Per i clienti societari si guarda alla proprietà diretta o indiretta

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore del 23 Ottobre 2017

Esperto Risponde  a cura di Luigi Ferrajoli e Flavia Silla

Il titolare effettivo è chi detiene oltre il 25% delle quote

IL QUESITO: Sono un commercialista cui è stato affidato l’incarico di seguire un finanziamento per la Srl X, che svolge attività di produzione e vendita di elementi di arredo. Il capitale sociale di questa Srl è suddiviso tra quattro soci: A è una persona fisica e ha in mano il 10%, B è persona fisica titolare del 3%, C è una Spa con il 19% e D è una Srl che possiede il 68 per cento. Vorrei capire, in base all’attuale disciplina, come va determinato il titolare effettivo e come devo assolvere agli adempimenti di adeguata verifica della clientela ai fini dell’antiriciclaggio.
A. C. – LECCE

Per evitare che una società, un trust o un ente vengano utilizzati come schermi per rendere difficile l’accertamento e l’individuazione di attività di riciclaggio e/o di finanziamento del terrorismo, la legge (e non più un allegato tecnico) stabilisce i criteri per determinare il cosiddetto “titolare effettivo”.
Quest’ultimo, in base all’articolo 1 del Dlgs 90/2017, viene identificato nella persona fisica o nelle persone fisiche, diverse dal cliente, «nell’interesse della quale o delle quali, in ultima istanza, il rapporto continuativo è istaurato, la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita».
Se il cliente è una società o un ente, il titolare effettivo è colui al quale è attribuibile la proprietà diretta o indiretta dell’ente, ovvero il controllo diretto o indiretto sullo stesso. A tal fine, la nuova formulazione dell’articolo 20 del Dlgs 231/2007 stabilisce che la proprietà diretta di una società va riferita alla titolarità di una partecipazione superiore al 25% del capitale del cliente, detenuta da una persona fisica; mentre la proprietà indiretta è connessa alla titolarità di una quota di partecipazione superiore al 25% del capitale posseduto tramite una società controllante, una fiduciaria o per interposta persona. In altre parole, il rapporto continuativo, la prestazione professionale o l’operazione eseguita si riconducono alla persona fisica che, in ultima istanza, risulta intestataria di una rilevante quota della società.
Quando l’assetto proprietario non consente di giungere a una precisa individuazione, il titolare effettivo va identificato nella persona fisica che controlla la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria o gode di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in tale assemblea, oppure colui al quale – sulla base di vincoli contrattuali – è consentito di esercitare in assemblea un’influenza dominante.
Il titolare effettivo della Srl
Nel caso in questione, il socio che risulta titolare di una quota superiore al 25% è il socio D, rappresentato da una Srl. Poiché il titolare effettivo va identificato per legge in una persona fisica, per assolvere all’obbligo di adeguata verifica è quindi necessario valutare la compagine societaria. In assenza di ulteriori indicazioni da parte del lettore, si ipotizzi ad esempio che il capitale sociale del socio D (titolare del 68% della Srl X) sia suddiviso fra tre persone fisiche: Tizio partecipa per il 5 %, Caio per il 42%, Mevio per il 53 per cento. Così i titolari effettivi della Srl X risulterebbero essere Caio e Mevio, perché ognuno di loro – avendo una partecipazione superiore al 25% – controllerebbe, ai fini della normativa sull’antiriciclaggio, la Srl D e indirettamente la Srl X.
Quest’ultima, come ogni persona giuridica tenuta all’iscrizione al registro delle imprese, deve comunicare per via telematica le informazioni relative alla propria titolarità effettiva, i cui dati vengono inseriti in una particolare sezione riservata. L’accesso a tale sezione è infatti consentito alle autorità competenti (Mef, autorità di vigilanza), alle autorità preposte al controllo dell’evasione fiscale, all’autorità giudiziaria, ai soggetti privati compresi quelli portatori di interessi diffusi (sempre che la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per tutelare, in pendenza di un procedimento giurisdizionale, i loro interessi) e infine ai soggetti obbligati alla comunicazione stessa.
Se i dati sulla titolarità effettiva non vengono comunicati, a carico dell’amministratore della società si applica la sanzione prevista dall’articolo 2630 del Codice civile, che va da un minimo di 103 euro fino a un massimo di 1.032 euro. Ma che si riduce a un terzo quando la comunicazione è effettuata con un ritardo non superiore a 30 giorni rispetto al termine previsto.
La sanzione è riferita a ogni singolo amministratore, se la società è dotata di un organo amministrativo pluripersonale, e anche a ogni sindaco, se tale organo è presente e non ha provveduto alla comunicazione in caso di inerzia da parte degli amministratori.
L’attiva collaborazione
Per poter individuare correttamente il titolare effettivo e procedere agli obblighi di adeguata verifica della clientela, l’articolo 22 del Dlgs 231/2007 conferma a carico del cliente gli obblighi di attiva collaborazione. In particolare, nel caso in esame, l’amministratore (o gli amministratori) della società X è tenuto (sono tenuti) a fornire al destinatario – cioè al commercialista – e per iscritto tutti i dati e le informazioni necessari all’osservanza degli adempimenti citati. Per la società vi è poi un ulteriore obbligo, introdotto dal Dlgs 90/2017 : acquisire e conservare accurate e aggiornate informazioni sulla propria titolarità effettiva per un periodo di almeno cinque anni.
Oltre che nell’individuare l’effettivo titolare, gli obblighi di adeguata verifica ai fini dell’antiriciclaggio consistono anche in altri adempimenti:
identificazione del cliente e verifica della sua identità tramite un documento di riconoscimento o altro documento equipollente (attività che viene svolta prima dell’instaurazione di un rapporto continuativo, dell’incarico di svolgere la prestazione o dell’esecuzione dell’operazione occasionale);
acquisizione dal cliente di informazioni in merito alla natura e allo scopo del rapporto continuativo o della prestazione professionale. Si tratta di dati e di informazioni relativi all’instaurazione del rapporto, alla relazione tra il cliente e il titolare effettivo, nonchè alla situazione economico-patrimoniale del cliente. Qualora sussista un forte rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, occorrerà applicare la procedura di acquisizione e valutazione dei dati e delle informazioni anche alle prestazioni e alle operazioni occasionali;
controllo costante, per tutta la durata del rapporto o della prestazione del rapporto con il cliente, tramite la verifica e l’aggiornamento dei dati acquisiti.

 

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Clausole dei contratti senza registro

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 17 Ottobre 2017 di  Angelo Busani

Compravendite immobiliari. La Ctp di Pesaro spiega che l’imposta riguarda l’atto e non i suoi contenuti

Fuori dall’imposizione delegazioni di pagamento, penali e caparre

La clausola che, in un contratto di compravendita immobiliare, contiene una delegazione di pagamento non è autonomamente soggetta a imposta di registro; questa, infatti, concerne il contratto di compravendita e non la clausola contenuta. Lo ha deciso la Commissione tributaria provinciale di Pesaro nella sentenza 951/2017 .
La pronuncia, nonostante sia assai laconica (e un po’ superficiale: menziona il Dpr 634/1972, quando la legge di registro è oggi contenuta nel Dpr 131/1986) e provenga da una Corte di primo grado, è importante non solo perché non esistono precedenti (sebbene la clausola di delegazione sia frequentissima) ma anche perché consente di affrontare l’impervio e mai approfondito tema della tassazione delle singole clausole di cui un contratto si compone.
La clausola di delegazione, in particolare, è quella (articolo 1268 e seguenti del Codice civile) con la quale il venditore Tizio (debitore della banca Alfa a seguito di un mutuo) vende la sua casa all’acquirente Caio, delegandogli di pagare il prezzo dovuto, in tutto o in parte, alla banca Alfa ad estinzione del mutuo contratto da Tizio.
Questa pattuizione, contenuta in un atto a sé, genererebbe senz’altro l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota del 3% (articolo 9, Tariffa Parte I allegata al Dpr 131/1986, testo unico del registro). Ma che succede se l’accordo di delegazione è una mera clausola di un contratto?
L’articolo 21 del Dpr 131/1986 dispone che se un atto contiene più negozi, ciascuno di essi ha una propria tassazione (comma 1) a meno che le varie “disposizioni” del contratto siano intrinsecamente connesse (comma 2), caso nel quale si tassa la più “costosa” fiscalmente (come nel caso della permuta). Infine, l’articolo 21, comma 3, esonera da tassazione le clausole di quietanza e di accollo contestuali ad altre pattuizioni.
Quest’ultima norma è assai importante: essa non dice che quietanze e accolli, se contestuali, sono clausole intrinsecamente connesse al contratto cui accedono; né rappresenta una norma eccezionale rispetto alla regola del primo comma in tema di individuale tassazione dei vari negozi contenuti in un atto. La norma del comma 3 vuol significare che le singole clausole di un contratto sono irrilevanti agli occhi dell’imposta di registro, poiché questa imposta riguarda gli “atti” (articolo 1, Dpr 131/1986) e non le loro “clausole”. Quindi, quando il legislatore contempla accolli e quietanze nel comma 3 dell’articolo 21, intende evidentemente compiere con tale norma un’opera chiarificatrice relativa a clausole di frequente ricorrenza, sgombrando il campo una volta per tutte da appetiti che il fisco intenda, caso per caso, manifestare.
Questo ragionamento porta a concludere che qualsiasi singola clausola di un contratto non è in sé rilevante per l’imposta di registro, a meno che la legge non lo imponga espressamente. Divengono quindi in particolare irrilevanti la clausola penale, la caparra o multa penitenziale (la clausola con cui si “paga” il recesso da un contratto ex articolo 1386 del Codice civile) e le clausole di indennizzo, frequenti nelle compravendite immobiliari di notevoli dimensioni, nonché nelle cessioni di partecipazioni e di aziende; e ciò anche se la Cassazione ha espresso una frettolosa decisione nel senso della loro tassabilità nella sentenza n. 17948 del 19 ottobre 2012.

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Il Fisco fa cadere il velo sui conti esteri

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 2 Ottobre 2017 di Marco Mobili e Giovanni Parente

I primi dati in arrivo con lo scambio automatico serviranno a innescare le verifiche

La paura per gli evasori potrebbe fare davvero “novanta”. Tanti sono gli Stati che aderiscono tra quest’anno e il prossimo allo scambio internazionale in automatico dei dati su conti correnti, depositi e altri rapporti finanziari detenuti all’estero. C’è chi enfaticamente l’ha definita come la fine del segreto bancario. Per capire se davvero sarà così, bisognerà attendere nel dettaglio come e in quale misura sarà utilizzata questa nuova mole di informazioni destinate ad arricchire il patrimonio informativo dell’amministrazione finanziaria. Qualche dubbio è più che legittimo soprattutto alla luce delle ultime settimane caratterizzate dal caos spesometro e dalle “bacchettate” della Corte dei conti sul mancato utilizzo della Superanagrafe dei conti correnti “interni”. Ed è proprio in questo settore dell’Anagrafe tributaria che dovrebbero confluire i dati dei conti correnti detenuti all’estero dai cittadini italiani. Dati in prima battuta relativi al 2016 e che coinvolgeranno 49 Paesi oltre all’Italia, i cosiddetti early adpoters. Già da stamattina i database del Fisco italiano potranno contare su questi nuovi elementi, visto che la deadline di trasmissione per le amministrazioni finanziarie estere (e della nostra verso gli altri Stati aderenti all’accordo) era sabato 30 settembre.
Solo per fare qualche esempio, ci saranno i dettagli su chi detiene conti e altre ricchezze finanziarie nei forzieri di Anguilla, Isole Vergini britanniche e Cayman, oltre a quelli dei principali Paesi europei. Poi dal 2018 arriveranno anche le informazioni (relative al 2017) da Aruba, Hong Kong, Montecarlo, Svizzera, per avere un’idea della capillarità e del coinvolgimento. Coinvolgimento che salirà, quindi, complessivamente a 90 Paesi.
Di fatto, il materiale non mancherà per andare a scandagliare chi ha spostato o accumulato all’estero patrimoni in aree fino ad ora considerate al riparo dagli occhi del Fisco. In realtà, il percorso che dovrà portare all’utilizzo di questo tesoro informativo passa dall’incrocio con altri dati fiscali già attualmente disponibili. La relazione sulla lotta all’evasione che ha accompagnato la Nota di aggiornamento al Def ha messo nero su bianco quale sarà il punto di partenza: «Le informazioni ricevute nell’ambito dello scambio automatico costituiranno un’importante fonte di innesco per successive richieste mirate su casi oggetto di accertamenti fiscali».
Quindi un input o, per semplificare, un campanello d’allarme che potrebbe spingere l’amministrazione finanziaria ad approfondire il rischio-evasione di alcuni contribuenti. E c’è un filo rosso nemmeno tanto sottile che collega questa operazione alla voluntary disclosure. Con la prima edizione la voluntary aveva messo a punto un sistema di archiviazione e un applicativo chiamato «Cover» attraverso l’analisi delle istanze per rilevare statisticamente le condotte evasive più diffuse (soprattutto quelle che prevedono l’allocazione all’estero di risorse e investimenti) e di profilazione di fenomeni ad alta pericolosità fiscale.
Con la seconda, sostanzialmente, si è data un’altra opportunità – a quanti non si erano ancora messi in regola – per sistemare la propria posizione alla vigilia del passaggio automatico delle informazioni (perché sta qui la vera differenza rispetto al passato).
La voluntary-bis, nonostante la proroga in scadenza oggi, finora non è stata colta da tutti i soggetti preventivati. Alla scorsa settimana le adesioni complessive (tra quelle datate 2016 e 2017) pervenute con i canali Entratel e Fisconline risultavano poco più di 16mila, solo il 59% dei 27mila attesi. Tanto è vero che il Governo ha dovuto vedere al ribasso nell’aggiornamento del Def le previsioni di recupero: da 1,6 miliardi a 850 milioni.
I nuovi dati, dunque, potranno essere incrociati con quelli delle richieste di gruppo verso Paesi con cui erano stati siglati accordi per scambi di informazioni bilaterali e con i nominativi già finiti in alcune liste, come quelli dei Panama papers.

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Il costo antieconomico non diventa indeducibile

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 16 Settembre 2017 di Antonio Iorio

Cassazione. Le scelte aziendali spettano all’imprenditore

L’opportunità di un costo, e quindi la sua eventuale antieconomicità, non può essere sindacata dall’amministrazione in termini di indeducibilità, perché si tratta di valutazioni della strategia commerciale riservate all’esclusivo giudizio dell’imprenditore.
Ad affermare questo importante principio è la Corte di cassazione con la sentenza 21405 depositata ieri.
L’Agenzia delle entrate disconosceva ad una società la deducibilità di un cospicuo costo perché ritenuto antieconomico. Più precisamente, la contribuente aveva risolto un contratto di servizi con una società del gruppo per fornitura di attività di marketing, sottoscrivendo uno specifico accordo. In base a tale atto l’impresa sottoposta al controllo fiscale si faceva carico di tutte le spese sostenute dalla società di marketing.
L’Agenzia riteneva che la nuova somma concordata fosse superiore al corrispettivo previsto nel contratto iniziale, tanto è che se lo avesse proseguito sino a scadenza avrebbe avuto minori oneri.
Ne conseguiva, così, che secondo l’amministrazione i maggiori costi assunti, seppur giustificabili nell’economia di un gruppo, non potevano considerarsi inerenti, poiché sostenuti in favore di un soggetto che non aveva alcun titolo per pretendere somme ulteriori rispetto al corrispettivo originariamente pattuito. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito confermava l’illegittimità della rettifica. L’Agenzia ricorreva così in Cassazione lamentando un’errata interpretazione da parte del giudice di appello.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato un orientamento secondo il quale i comportamenti antieconomici rappresentano elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che legittimano il recupero a tassazione dei relativi costi. L’amministrazione, però, non può valutare anche la necessità o l’opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività.
Si tratta, infatti, di una valutazione della strategia commerciale riservata all’esclusivo giudizio dell’imprenditore.
Nella specie, l’antieconomicità derivava esclusivamente dalla considerazione da parte dell’Agenzia dell’accordo risolutivo sottoscritto tra le società del gruppo che risultava oggettivamente di valore superiore rispetto alla mera prosecuzione del contratto originario.
Tuttavia, senza ulteriori elementi rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta della società non poteva essere sindacata.
La decisione appare particolarmente importante poiché rimarca il ruolo dell’imprenditore nelle scelte aziendali.
Secondo il principio affermato ora dalla Cassazione l’eventuale comportamento ritenuto antieconomico da parte dell’Ufficio non può di per sé determinare l’indeducibilità di un costo, con la conseguenza che occorrono altri elementi dai quali desumere l’effettivo intento di evadere.

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Inerenza in bilico su polizze e parcelle

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 11 Settembre 2017 di Gianfranco Ferranti

Reddito d’impresa. La Cassazione boccia lo sgravio della spesa per la Rc infortuni dei dirigenti dato che il risarcimento va alla società

La Corte detta i confini per la deducibilità dei costi assicurativi e il rimborso delle spese legali

Non sono inerenti, secondo la Cassazione, le spese sostenute dalla società per la difesa legale di dipendenti e amministratori e i premi pagati dalla società per le polizze contro gli infortuni. L’inerenza delle spese continua a far discutere – anche in giudizio – e su questi temi si sono concentrate alcune delle pronunce più recenti.
La Corte ha anche affermato che il contribuente non può provare l’inerenza dimostrando soltanto la legittimità dell’erogazione effettuata, in quanto l’assenza di un obbligo giuridico è indizio di antieconomicità della spesa, superabile dimostrando la sua funzionalità agli obiettivi dell’impresa (sentenza 1544/2017, relativa a costi non stabiliti per contratto).
La difesa dei dipendenti…
La Cassazione ha esaminato (sentenza 6185/2017) il caso del rimborso da parte dell’impresa delle spese sostenute da propri dipendenti per difendersi in sede penale dalla querela sporta da altri dipendenti. Il giudice di merito le aveva considerate deducibili perché l’azienda aveva inteso «tutelare i propri interessi e la propria posizione tanto sul piano patrimoniale che sul piano morale e sociale». Ma la Cassazione pur riconoscendo che «la contribuente abbia agito per un proprio interesse» non ha ritenuto la spesa inerente «in assenza di qualsiasi correlazione» con un’attività «potenzialmente idonea a produrre utili».
Si ritiene che tale correlazione sussisterebbe qualora fosse concretamente provata l’esistenza, ad esempio, di un danno “reputazionale” derivante alla società dall’esito del processo.
…e degli amministratori
La giurisprudenza di legittimità si è espressa in senso analogo rispetto alle spese per la difesa penale degli amministratori, negandone la deducibilità anche se il capo di imputazione concerneva “fatti compiuti nello svolgimento dell’incarico” (sentenze 3737 e 23089/2012, conformi alla Sezioni unite 10680/1994). Quest’ultima sentenza ha ritenuto deducibili “soltanto le spese sostenute dall’amministratore per attività svolte a causa del mandato ricevuto e non semplicemente… in occasione del mandato stesso» e che l’illecito penale non rientri tra le attività per le quali il mandatario può rivalersi sul mandante, anche se l’accusa si rivela infondata.
Si ritiene, quindi, che l’inerenza della spesa sussista in presenza, ad esempio, di un reato fiscale commesso dall’amministratore (o dal manager) che ha sottoscritto la dichiarazione dei redditi, qualora tale funzione sia contrattualmente prevista.
Le polizze assicurative
La Cassazione ha, altresì, affermato, nella sentenza 28004/2009, l’indeducibilità dei premi pagati dalla società per polizze assicurative relative agli infortuni «del personale con qualifica di dirigente, di impiegato e di quadro», perché tali costi «pur se inerenti alla gestione dell’impresa», non sarebbero «diretti alla produzione di reddito, né sono spese poste a vantaggio dei lavoratori come i costi per assicurazione prevista da norma cogente, rimanendo, al verificarsi dell’evento assicurato, il risarcimento di esclusiva spettanza della società». Tale motivazione appare contraddittoria laddove nega la deducibilità di costi previsti da un accordo sindacale e riconosciuti come inerenti alla gestione dell’impresa.
L’Adc ha, invece, sostenuto, nella norma di comportamento 154/2004, la deducibilità dei premi delle polizze stipulate per il rischio di morte o di invalidità degli amministratori – qualora la beneficiaria sia la società – perché si tratta di eventi da cui deriverebbero conseguenze negative per l’attività di quest’ultima (così Ctr Veneto, sentenza 1183/2/16, e Ctp Agrigento, 1840/7/15).
È un orientamento condivisibile e indirettamente confermato dalle Entrate nella risoluzione 178/E/2003, in cui si afferma che i premi pagati dalla società per le polizze sulla responsabilità civile di amministratori e dipendenti non concorrono a formare il reddito dei beneficiari, in quanto spese sostenute nell’esclusivo interesse del datore di lavoro.

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Società estinte, niente retroattività

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 5 Settembre 2017 di Laura Ambrosi
Accertamento. Per la Cassazione l’ex liquidatore non può presentare ricorso perché privo di capacità processuale
Stop all’avviso per i soggetti cancellati prima del 13 dicembre 2014
È illegittimo l’accertamento emesso nei confronti di una società cancellata dal registro imprese: si tratta infatti di un soggetto inesistente e come tale non può essere destinatario di alcun provvedimento. La nuova norma, peraltro, ha valenza solo per le cancellazioni decorrenti dal 13 dicembre 2014. L’ex liquidatore non può comunque proporre ricorso avverso il provvedimento ricevuto poiché privo di capacità processuale. A confermare questo orientamento è l’ordinanza 20752/2017 della Corte di cassazione depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate ha notificato un accertamento ad una società estinta ed al suo ex liquidatore. Il provvedimento veniva impugnato da parte di entrambi ed annullato dal giudice di merito. In particolare, la commissione regionale, pur respingendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso, ha rilevato che l’ente proprio perché estinto non poteva essere destinatario di alcun atto, ma andava comunque riconosciuto il diritto di difesa.
L’agenzia delle Entrate ha presentato così ricorso in Cassazione lamentando che, secondo la nuova norma, l’estinzione aveva efficacia solo decorso un quinquennio. Inoltre, l’ufficio ha dedotto in ogni caso che il ricorso doveva essere dichiarato inammissibile fin dal primo grado, atteso che proposto da soggetto ormai estinto e privo di capacità processuale.
La Suprema corte, confermando la decisione di appello, ha innanzitutto ricordato che la nuova norma sulle società estinte non è retroattiva e pertanto ha valenza solo ed esclusivamente per le cancellazioni presentate a decorrere dal 13 dicembre 2014 (Cassazione 6743/2015). I giudici di legittimità hanno così rilevato che effettivamente la Ctr avrebbe dovuto accogliere l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio promosso dall’ex liquidatore della società cancellata, attesa la carenza di capacità processuale.
La decisione conferma l’orientamento ormai consolidato sul punto sull’inesistenza degli atti notificati al soggetto estinto.
La nuova norma, infatti, non ha alcun valore per il passato con la conseguenza che in vigenza delle vecchie regole, la società cancellata non può essere destinataria di alcun provvedimento. In passato, la Cassazione in merito al ruolo dell’ex liquidatore aveva già chiarito che il ricorso dallo stesso proposto avverso una cartella di pagamento è inammissibile ed il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio la nullità dell’atto impositivo perché intestato a soggetto estinto (28187/2013).
Tuttavia, in tale occasione era stato anche precisato che la cartella di pagamento non poteva essere emessa e che quindi anche qualora non fosse stata impugnata dall’ex liquidatore non avrebbe prodotto alcuna conseguenza: nessuna esecuzione forzata, infatti, sarebbe stata possibile nei confronti di una società “inesistente”.
La Cassazione osservava poi che, in ogni caso, non può essere negato il diritto di difesa al soggetto che riceve un atto dal quale, benché in astratto, potrebbe conseguirgli un pregiudizio. Per completezza, si segnala che la giurisprudenza di legittimità ha recentemente chiarito che l’estinzione della società non fa venir meno la legittimazione attiva e passiva dei soci in giudizio, anche se la pretesa del fisco resta comunque vincolata a quanto eventualmente percepito nel riparto dell’attivo di liquidazione (sentenza 15035/2017).

 

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