No alle presunzioni per il pagamento delle royalties

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 27 Gennaio 2018 di Alessandro Galimberti

Ctp Milano. Rapporti infragruppo

Il pagamento di royalties per lo sfruttamento del marchio non può essere dedotto in via presuntiva dall’amministrazione se non risulta in contabilità, e comunque l’ufficio ha l’onere di provare l’effettiva corresponsione degli importi soggetti a ritenuta.
Una recente decisione della Commissione provinciale di Milano (n° 7134/23/17, depositata il 27 dicembre scorso) può diventare un punto di riferimento per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre. La Ctp ha infatti accolto il ricorso di una società milanese contro gli avvisi di accertamento per gli anni 2011-12-13-14 sugli omessi versamenti di ritenute per lo sfruttamento del marchio di proprietà di una società svizzera (importo complessivo di circa 340 mila euro).
Le Entrate avevano in sostanza considerato, nonostante la mancata evidenza in bilancio, che i rapporti tra la branca italiana e la casa madre svizzera fossero la prosecuzione di un accordo in vigore negli anni precedenti le contestazioni, in base al quale era riconosciuta alla società di diritto svizzero una royalty pari al 2,5%. In realtà, come emerso già in sede di contraddittorio e poi nel procedimento, a partire dal 2009 l’entità distributiva “AG” era stata accentrata in Svizzera «assumendo la duplice veste di titolare del trademark rights e di distributore accentrato del gruppo». In sostanza, argomenta la Ctp, non è qui utilizzabile la direttiva Ocse che presume l’incorporazione del compenso (royalty) nel prezzo fatturato solo quando «un’impresa vende a un’altra prodotti non finiti, mettendo a disposizione al tempo stesso la propria esperienza per un’ulteriore lavorazione di questi prodotti». Nel caso in esame, invece, la società italiana si era limitata a vendere prodotti finiti e totalmente “gestiti “oltre frontiera.
I giudici hanno così risolto la questione della (im)possibilità da parte degli uffici finanziari di pretendere le ritenute su royalties non risultanti dalla contabilità, ma accertate in via presuntiva come ricomprese nel prezzo delle merce distribuita in Italia con marchio appartenente alla casa madre estera. La Commissione ha escluso tale possibilità in quanto è “inammissibile” ipotizzare il pagamento di royalties alla casa madre quando la società controllata italiana limita la propria attività alla sola distribuzione e, in capo alla casa madre estera, la funzione di distribuzione coincide con la proprietà del marchio.
«Si tratta – argomenta il legale della ricorrente, Angelo Vozza – di sentenza interessante per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre perché, con un esame approfondito, dichiara illegittimo l’accertamento della ritenuta su una royalty presunta in modo del tutto irragionevole».

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Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 30 Gennaio 2018 di Antonio Zappi

Ctr Veneto. Il conto corrente

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).
L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.
Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.
Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».
Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.
Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.
Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

 

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L’esterovestizione non esonera dall’obbligo di dichiarazione Iva

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 23 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi

Cassazione. L’operazione non abusiva comporta l’adempimento

L’esterovestizione di una società non è un’operazione abusiva con la conseguenza che l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia costituisce una fattispecie penalmente rilevante. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2407 depositata ieri.
La vicenda nasce da una contestazione della Gdf con la quale veniva considerata esterovestita una società tedesca. Il legale rappresentante veniva così accusato di omessa dichiarazione Iva.
Il Gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia nei confronti della società sia del suo amministratore, fino a concorrenza dell’imposta evasa. Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro e l’indagato, il legale rappresentante della società, proponeva ricorso per Cassazione.
Tra i motivi di doglianza, la difesa rilevava che la realtà tedesca non era stata indagata dalle relative autorità; quindi, al massimo poteva essere contestato, attesa la veridicità delle operazioni commerciali, un abuso del diritto di stabilimento della sede operativa, ma non il reato di omessa presentazione in Italia della dichiarazione. Non era configurabile alcun delitto, poiché nel nostro ordinamento è esclusa la rilevanza penale delle operazioni abusive (articolo 10 bis dello Statuto del contribuente).
I giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza precedente, hanno innanzitutto ricordato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se c’è una stabile organizzazione in Italia. Tale caratteristica si desume da elementi fattuali rilevanti quali la sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (la cosiddetta “alta amministrazione”) nonché della conduzione delle attività costituenti l’oggetto sociale.
Nella specie, in Italia era stata rinvenuta in sede di verifica tutta la documentazione contabile, bancaria (peraltro di conti correnti italiani) e commerciale e la bontà di tali prove era stata già valutata dal Tribunale con adeguata motivazione sul punto.
Con riferimento all’abuso del diritto, per la Suprema corte le operazioni abusive si configurano solo quando non violano disposizioni tributarie e penali tributarie; è una norma di applicazione solo residuale rispetto ad altre relative a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione ed all’utilizzo di documentazione falsa. Perciò non può esistere abuso quando i fatti in contestazione integrano fattispecie penali connotate da elementi costitutivi specifici. Dai documenti in atti era indubbio che si trattasse di esterovestizione e pertanto che la società avesse dovuto rispettare gli obblighi fiscali italiani.

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Prestanome responsabile in concorso

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 17 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Omessa dichiarazione. Per la Cassazione autore principale è l’amministratore di fatto

Il prestanome risponde in concorso con l’amministratore di fatto per il reato di omessa dichiarazione. È responsabile, infatti, di non aver impedito l’evento delittuoso. A confermare questo principio di diritto è stata la Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 1590/2018, depositata ieri.
La sentenza riguarda la vicenda del legale rappresentante di una società che veniva condannato per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dalla quale era conseguita un’evasione di imposta penalmente rilevante.
La condanna di primo grado veniva confermata anche in appello e l’imputato ricorreva così in Cassazione. Lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione.
Più precisamente, nella sentenza di secondo grado non sarebbe emersa la valutazione delle prove riguardanti la consapevolezza della commissione del reato. L’imputato, infatti, non era l’amministratore di fatto della società e pertanto era concretamente estraneo alle scelte aziendali.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il collegio territoriale aveva correttamente valutato la vicenda posta a base dell’intera contestazione.
La società era stata costituita per emettere fatture soggettivamente inesistenti, al fine di giustificare contabilmente gli acquisti di merce in nero effettuati da un’altra società del “gruppo”.
Dai documenti in atti, risultava che l’amministrazione di fatto delle società era affidata ad un terzo soggetto, diverso cioè dal legale rappresentante di diritto.
Dal disegno criminoso emergevano quindi l’omessa presentazione delle dichiarazioni e il mancato versamento dell’Iva, che erano preordinati all’evasione fiscale.
Con riguardo alla responsabilità, la Cassazione ha precisato che l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, poiché è il titolare effettivo della gestione sociale. È infatti l’unico soggetto che si trovi nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.
L’amministratore di diritto, invece, è un mero prestanome. Per questo motivo, è responsabile a titolo di concorso per avere omesso di impedire l’evento. La Corte di cassazione, però, ha precisato che tale concorso interviene a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma. Quindi, nella fattispecie, occorre che il prestanome abbia agito con il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sull’Iva ovvero consentire l’evasione fiscale di terzi.
Tuttavia, poiché nella maggior parte delle ipotesi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che è sufficiente il dolo eventuale.
Il prestanome, quindi, accettando la carica accetta anche i rischi connessi a tale carica.
Nella specie, il giudice territoriale aveva rilevato una forma di partecipazione attiva alla vita sociale da parte dell’amministratore di diritto, poiché risultava coinvolto nella gestione operando sui conti correnti bancari.
Era così consapevole dei meccanismi illeciti e peraltro, su tali considerazioni, l’imputato non aveva eccepito alcuna osservazione.

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Il Fisco estero prevale sulle presunzioni italiane

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 12 Dicembre 2017 di Massimo Romeo

Ctp di Milano. Se le informazioni fornite scagionano il contribuente

Le informazioni fornite dall’autorità fiscale straniera prevalgono sulle presunzioni del fisco italiano. L’intento elusivo deve essere provato in capo al contribuente accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi, tanto più laddove, nell’ambito dello scambio automatico di informazioni, l’autorità fiscale straniera abbia dichiarato il soggetto quale beneficiaria effettiva delle operazioni. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp di Milano 67292017 (presidente e relatore Ortolani).
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguarda l’impugnazione da parte di una Spa di un avviso di accertamento per omesso versamento di ritenute su interessi corrisposti alla consociata (società veicolo), intermediaria di pagamenti aventi quali beneficiari effettivi soggetti domiciliati in Paesi black list e pertanto senza diritto all’esenzione da ritenuta prevista dal trattato contro le doppie imposizioni. La ricorrente, fra i vari motivi opposti, ha eccepito la mancata allegazione di documenti richiamati dal fisco nella motivazione dell’atto impositivo, l’infondatezza dell’avviso per aver dimostrato l’esistenza dei presupposti richiesti, nonché la mancata prova che non fosse beneficiaria effettiva.
L’ufficio ha difeso l’atto emesso focalizzando l’attenzione sulla società percipiente, qualificandola quale soggetto strumentale interposto per veicolare gli interessi corrisposti verso gli effettivi beneficiari residenti in Paesi a tassazione privilegiata o esente. La condotta elusiva è stata rilevata guardando sia ai flussi finanziari di raccolta e impiego tra loro correlati nel tempo e nelle dimensioni quanto alla provenienza, sia all’erogazione alla ricorrente quale beneficiaria dei finanziamenti, nonché per l’assenza di struttura e mezzi propri idonei in capo alla consociata tali da giustificare in via autonoma tale attività finanziaria.
Il collegio lombardo da un lato riconosce che l’attività di contrasto all’elusione è un principio immanente nelle leggi e nei trattati comunitari, per cui non è necessario che tale principio trovi una specifica ricezione nell’ordinamento interno; dall’altro che l’intento elusivo deve essere provato in capo al soggetto accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi.
Sulla base di questi principi i giudici milanesi risolvono la controversia a favore della parte privata in tema dell’onere della prova. In sostanza, avendo il fisco italiano richiesto e ricevuto dall’autorità straniera informazioni circa la reale attività finanziaria con raccolta di fondi e impieghi svolta dalla consociata, e avendo chiarito che la società ungherese era il beneficiario effettivo delle attività di finanziamento italiano, sarebbe spettato all’ufficio fornire elementi diversi e ulteriori rispetto a quanto richiesto e risultante dalle indagini , in forma ufficiale e formale, svolte e comunicate dall’autorità fiscale estera.

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La Svizzera rilancia il segreto bancario

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 14 Dicembre 2017 di Alessandro Galimberti

Un filtro alle richieste di dati – Sono 37 i Paesi che possono ancora opporre un veto totale

Milano. Non sarà ancora un vento di restaurazione, ma il raffreddamento di sensibilità sulla trasparenza fiscale internazionale – mantra degli ultimi 5 anni – è ormai un dato di fatto difficile da ignorare.
Dopo l’allerta dell’Ocse, che nel suo Implementation report di novembre segnalava il ritardo di decine di Paesi nell’adeguamento agli standard per il futuro scambio di informazioni (si veda il Sole 24 Ore del 6 dicembre scorso), ora la cronaca porta dritto in Svizzera. Domani il plenum dei due rami del Parlamento di Berna voterà un’interpretazione molto restrittiva del rilascio delle informazioni riguardanti cittadini stranieri con conti e investimenti nei suoi istituti finanziari, tornando in sostanza a rilanciare lo storico brand di cassaforte alpina di “segreti&riservatezza”. Le banche e gli altri intermediari dovranno avvisare in anticipo i correntisti/risparmiatori/investitori stranieri circa i dati che si accingono a inviare automaticamente alle loro autorità fiscali. Non a caso avvocati e professionisti stanno già mettendo a punto la strategia di rallentamento per via giudiziaria (ricorsi e opposizioni) del rilascio delle info, soprattutto in direzione Sud.
L’inversione di orientamento sul tema “trasparenza” non è comunque un’esclusiva d’oltralpe. Come si vede nella cartina mappamondo pubblicata a lato, dall’incrocio dei 148 Paesi che hanno siglato accordi multilaterali o bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali, ben più della metà (90) mantengono una forma più o meno intensa di segreto bancario, e 37 di questi addirittura conservano il totale segreto bancario. Ancora più esplicita la posizione di altri 22 Paesi che non hanno siglato alcun tipo di accordo per lo scambio di informazioni fiscali.
Questa fotografia spiega meglio di ogni altra considerazione l’ultimo rapporto dell’Ocse (Implementation report on automatic exchange of information) secondo cui tra l’essere compliant nella legislazione e l’attivare gli scambi con le altre giurisdizioni c’è un saltum non da poco. L’atteggiamento temporeggiante è variegato, tra Paesi che non stanno raccogliendo i dati che poi dovrebbero trasmettere ai 100 e più partner «in quanto non interessati a ricevere informazioni», e altre giurisdizioni che stanno impiegando «tempi eccessivamente lunghi per mettere in opera le basi legali per il funzionamento dello scambio automatico e per gli accordi multilaterali» necessari a far “scorrere” le informazioni. Il 15 % della platea degli Stati, narra il rapporto, non ha neppure terminato l’allineamento con la legislazione internazionale, tra questi un buon numero dei paesi del Golfo (a cominciare da Quatar, Emirati, Kuwait, Brunei) e la Turchia che per varie ragioni non hanno ancora ratificato la Convenzione per lo scambio automatico. Altri paesi caraibici e “oceanici” sono ancora più indietro nei processi di risalita verso l’emersione, tanto che il Report conclude che «un certo numero di giurisdizioni ha mancato pietre miliari» sul percorso e ora ha timeline sfidanti, per usare un eufemismo.
Intanto però l’Europa, molto attiva in queste settimane sul piano del rilancio della fiscalità, ha approvato ieri le raccomandazioni sui reati fiscali. Si tratta di misure ispirate dai 211 suggerimenti formulati dalla Commissione speciale d’inchiesta del Parlamento europeo sul riciclaggio di denaro, l’elusione fiscale e l’evasione fiscale, che i deputati hanno approvato con 492 voti in favore, 50 contrari e 136 astensioni. Tra i piani d’azione spicca la creazione di registri pubblici dei titolari effettivi delle aziende, le sanzioni contro gli intermediari che favoriscono la pianificazione fiscale aggressiva e la richiesta di costituire una commissione permanente per indagare sulla fiscalità.

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L’ufficio non può sindacare l’utilità delle sponsorizzazioni

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 18 Dicembre 2017 di Saverio Cinieri

Terzo settore. La deduzione delle somme versate allo sport dilettantistico

Sono sempre inerenti le spese di sponsorizzazione a favore di associazioni sportive dilettantistiche che svolgono attività riconosciute dalle federazioni sportive nazionali, se è rispettato il limite di spesa annuo di 200mila euro e se l’attività promozionale è svolta realmente. Si tratta di costi inerenti per presunzione legale assoluta. Ad affermare il principio è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 310/2/2017 depositata il 5 dicembre 2017 (presidente e relatore Montanari).
Il ricorso traeva origine da due avvisi di accertamento ai fini Ires, Irap e Iva emessi dalle Entrate per il 2012 e 2013, con i quali era stata contestata a una società la deduzione dei costi relativi ai contratti di sponsorizzazione stipulati tra la stessa e due associazioni.
I contratti puntavano a divulgare il marchio e i prodotti della società durante lo svolgimento dei campionati giovanili di calcio. L’ufficio aveva ritenuto mancante – nel caso concreto – il requisito dell’inerenza poiché, mentre la clientela della società era di tipo internazionale e di “anzianità” anteriore alla stipula dei contratti, la sponsorizzazione era avvenuta in occasione di eventi (le partite di calcio) a carattere locale senza, quindi, alcun reale vantaggio economico.
Nel ricorso in Ctp, il contribuente, oltre a confermare che le associazioni erano entrambe iscritte al Coni e svolgevano attività nei settori giovanili riconosciuti dalle federazioni sportive nazionali (l’ufficio aveva erroneamente affermato la mancanza di tale requisito per una di esse), ribadiva che le spese rientravano nei limiti di 200mila euro l’anno e i soggetti sponsorizzati avevano effettivamente posto in essere l’attività promozionale. Inoltre, i corrispettivi pagati alle associazioni erano congrui con il volume d’affari e l’attività di sponsorizzazione aveva favorito l’entrata della società nei mercati locali.
La Ctp ha ritenuto fondato il ricorso. Seguendo il consolidato principio di diritto della Cassazione, il collegio ha rilevato che la norma in questione (articolo 90, comma 8, della legge 289/2002) ha introdotto una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti di 200mila euro, come spese di pubblicità (inerenti e, quindi, deducibili) di quelle volte alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante il corrispettivo (Cassazione, 7202/17 e 5720/16). La presunzione sussiste al verificarsi di quattro condizioni:
il soggetto sponsorizzato deve essere una associazione sportiva dilettantistica;
l’ammontare massimo di spesa annuale deve rispettare il limite di 200mila euro;
la sponsorizzazione deve promuovere l’immagine e i prodotti dello sponsor;
il soggetto sponsorizzato deve effettivamente porre in essere una specifica attività promozionale (ad esempio, apponendo il marchio sulle divise, esibendo striscioni in campo da gioco eccetera; Cassazione, 8981/17 e 7202/2017).
Tutte condizioni che ricorrono nel caso oggetto della controversia rendendolo, pertanto, meritevole di accoglimento.

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Verifica preventiva sugli acquisti da San Marino

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 19 Dicembre 2017 di Giampaolo Giuliani

L’applicazione. Il rappresentante fiscale deve indicare in fattura se l’operazione è soggetta a scissione dei pagamenti

L’allargamento della platea degli operatori soggetti alla procedura della scissione dei pagamenti (split payment) determina come naturale conseguenza un coinvolgimento di un maggiore numero di aziende; è dunque facilmente ipotizzabile che si presenterà agli operatori un vasto numero di casistiche a volte di difficile soluzione. Tra queste vi sono certamente anche gli acquisti presso operatori sammarinesi per i quali devono essere adottate soluzioni differenziate a seconda delle modalità con cui viene effettuata l’operazione. Al riguardo, una prima riflessione deve essere fatta relativamente alla circostanza che, normalmente, le cessioni di beni provenienti da San Marino costituiscono importazioni, che, come tali, sono escluse dalla applicazione del sistema dello split payment, atteso il disposto dell’articolo 17-ter del Dpr 633 del 1972, il quale prevede che la scissione dei pagamenti debba essere applicata soltanto alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi. Questa limitazione oggettiva esclude, perciò, gli acquisti in cui l’imposta è assolta dall’acquirente italiano mediante l’inversione contabile o con la procedura dell’Iva prepagata. Diverso è il caso in cui l’operatore sammarinese si avvale di un proprio rappresentante fiscale in Italia. Si tratta di una procedura che non è disciplinata dal decreto del 24 dicembre del 1993 che regola il rapporto tra i due Stati, ma che è stata, comunque, avallata dall’amministrazione finanziaria italiana con nota 1998/68727/D dell’8 settembre 1988. In questo caso la cessione in Italia avviene in due fasi.
La prima riguarda la materiale introduzione in Italia dei beni, operazione che viene realizzata dal rappresentante fiscale mediante la procedura dell’inversione contabile prevista dall’articolo 16 del decreto del 24 dicembre 1993.
La successiva cessione al cliente italiano costituisce un’operazione interna, anche se il bene acquistato proviene direttamente dal fornitore sammarinese.
Questo significa che si dovrà operare una distinzione tra i soggetti acquirenti, perché se questi sono operatori economici o soggetti ad essi assimilati l’imposta viene assolta da questi ultimi mediante il meccanismo del reverse charge che per esplicita previsione normativa impedisce l’applicazione dello split payment. Diversamente se l’acquirente nazionale è un privato, il rappresentante deve emettere fattura indicando l’Iva connessa all’operazione effettuata. Lo stesso accade anche nell’ipotesi in cui il cliente sia un ente o un soggetto ad esso assimilato, rientrante tra quelli indicati dall’articolo 17-ter, privo di soggettività Iva. In tal caso, infatti, il rappresentante fiscale, all’atto dell’emissione della fattura, dovrà assoggettare l’operazione a Iva, ma dovrà anche indicare che l’operazione è interessata dalla scissione dei pagamenti.

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Tassazione dividendi, non conta la delibera

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore di Primo Ceppellini e Roberto Lugano
Società. Le novità della manovra e l’impatto dell’equiparazione delle partecipazioni qualificate e non
Le nuove regole sui dividendi percepiti dalle persone fisiche, che derivano dalla totale equiparazione delle partecipazioni qualificate a quelle non qualificate, si applicheranno alle somme percepite a partire dal 1° gennaio 2018. Tuttavia, le novità previste dal disegno di legge di bilancio 2018 prevedono un regime transitorio destinato a rimanere in vita parecchi anni.
Vengono infatti dichiarate applicabili tutte le regole del decreto ministeriale del 26 maggio 2017, e questo comporta il fatto che il regime di tassazione dei dividendi non dipende dalla data in cui viene deliberata la distribuzione, ma piuttosto dal periodo nel corso del quale si sono formati gli utili che vengono distribuiti.
Nel corso degli anni, infatti, abbiamo assistito alla progressiva riduzione dell’aliquota dell’Ires, accompagnata di volta in volta da un corrispondente aumento della quota di dividendi che concorre a formare il reddito imponibile dei percettori.
L’applicazione del regime transitorio comporta adempimenti per le società e regole di tassazione differenziata per i soci. Possiamo sintetizzare le regole per le società di capitali nel seguente modo:
le società devono mantenere separata memoria delle riserve di utili, distinguendole in base al periodo in cui si sono formate;
quando vengono deliberate distribuzioni di riserve si applica il criterio Fifo, ovvero si considerano distribuiti per primi gli utili formati in periodi più lontani.
La persona fisica che detiene partecipazioni qualificate e che beneficia della distribuzione di utili deve tassarli ai fini Irpef nel seguente modo:
utili formati fino al 2007: concorrono al reddito imponibile per il 40% del loro ammontare;
utili formati dal 2008 al 2016: concorrono al reddito imponibile per il 49,72% del loro ammontare;
utili formati nel 2017: concorrono al reddito imponibile per il 58,14% del loro ammontare;
utili formati a partire dal 2018: sono soggetti alla ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento e quindi non devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi.
In base alle norme proposte dal disegno di legge di bilancio, queste disposizioni transitorie si applicheranno a tutte le distribuzioni di utili deliberate fino al 31 dicembre 2022. Fino a quella data, quindi, le società di capitali non hanno nessuna urgenza di distribuire utili formati in vecchi esercizi solo con il fine di mantenere il regime di tassazione più favorevole in capo ai soci: questo effetto si consegue automaticamente con la regola FIFO che abbiamo sopra ricordato.
A partire dal 2023, invece, tutte le riserve rimaste in capo alle società saranno accorpate in un’unica categoria, e la loro distribuzione sarà soggetta a un unico regime fiscale, ovvero all’applicazione della ritenuta del 26% a titolo di imposta. Sarà in prossimità della fine dell’anno 2022, quindi, che andranno fatte valutazioni sulla convenienza (in capo ai soci) di effettuare distribuzioni per evitare l’applicazione della cedolare secca del 26 per cento, che comporta una tassazione più elevata.

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La clausola russian roulette evita lo stallo della società

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 28 Dicembre 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. L’accordo è valido – Tutelate entrambe le parti

Non è nullo il patto parasociale che contiene una clausola del tipo russian roulette; cioè una clausola diretta, per il caso di stallo gestionale (dead-lock), alla risoluzione del rapporto sociale con l’uscita forzata di uno dei due soci e l’acquisizione dell’intero capitale sociale da parte dell’altro. È questa la conclusione a cui è giunto il Tribunale di Roma (presidente Cardinali, relatore Romano) nella sentenza 19708 del 19 ottobre.
La vicenda ha visto contrapposte una Srl e una Spa, socie di una terza società. In base a un patto parasociale stipulato dalle parti in lite nel 2006, il rapporto sociale si sarebbe risolto in caso di inattività degli organi sociali o di mancato rinnovo dello stesso patto dopo cinque anni. In particolare, ricorrendo una di queste situazioni, la Spa avrebbe potuto determinare il prezzo del 50% del capitale sociale, mentre la Srl avrebbe dovuto acquisire la partecipazione della Spa a quel prezzo o, in alternativa, vendere alla socia la propria quota per lo stesso importo.
Nel 2011 la Spa, rilevato che non le era pervenuta la dichiarazione di rinnovo del patto, aveva stimato in 40milioni di euro il 50% del capitale sociale e aveva invitato la Srl a scegliere se acquistare o cedere le azioni secondo l’accordo. La Srl ha, allora, chiesto al giudice di dichiarare la nullità del patto del 2006; la Spa ha domandato il rigetto della pretesa della Srl, sostenendo che il contratto era stato concluso in condizioni di parità tra i contraenti.
Il giudice, a conclusione di un articolato ragionamento, ha respinto la domanda, ritenendo che la clausola russian roulette sia «diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (articolo 1322, comma 2, del Codice civile). Infatti, durante la vita della società si possono presentare situazioni di stallo (dovute a conflitto insanabile tra i soci o a disinteresse di alcuni di essi), che rischiano di portare «alla dissoluzione dell’impresa economica».
In questi casi, la russian roulette «consente, da un lato, di salvaguardare il progetto imprenditoriale e, dall’altro, di evitare i costi e le lungaggini della procedura di liquidazione».
Né, comunque, la clausola è nulla perché è rimessa a una delle parti la determinazione del valore delle partecipazioni sociali. Ciò perché l’equilibrio negoziale è garantito dal fatto che «la scelta tra l’acquisto e la vendita spetta alla parte che non ha operato la determinazione del prezzo». Così come non è violato il divieto di patto leonino, che non consente gli accordi in base ai quali «uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite» (articolo 2265 del Codice civile). Infatti, le clausole antistallo non sono idonee a escludere un socio dalla responsabilità della gestione né a consentire a uno di essi «di approfittare di una determinata situazione per escludere l’altro».
Per questi motivi, il tribunale ha rigettato la domanda della Srl. Le spese di lite sono state compensate tra le parti, non essendo stati rinvenuti precedenti giurisprudenziali sulla questione.

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