Trasferimenti all’estero e fiscalità, rebus residenza per chi ha legami con più Paesi

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore  21 Marzo 2022 di Alberto Crosti e Stefano Vignoli

A oltre due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 riparte il trend di crescita della mobilità delle persone fisiche e dei lavoratori, che comporta però complicazioni fiscali legate al trasferimento di residenza spesso non adeguatamente analizzate.
L’individuazione della residenza è infatti di fondamentale importanza: sulla base del worldwide principle taxation (articolo 3, comma 1, del Tuir), il residente fiscale italiano è tenuto a dichiarare, oltre a redditi e patrimonio in Italia, anche quanto prodotto o detenuto all’estero.

Per molti contribuenti con interessi diffusi in Italia e in altro Paese, la determinazione della residenza presenta ampi margini di incertezza, che non possono essere risolti attraverso istanze di interpello (Circolare 9/E/2016) ma richiedono un’analisi differenziata a seconda della presenza di Convenzioni contro le doppie imposizioni o dell’eventuale trasferimento in “paradisi fiscali”.

Fiscalità e requisiti per la residenza

La prima verifica richiede di individuare se ricorre uno dei tre criteri alternativi previsti dall’articolo 2, comma 2, del Tuir per determinare la residenza in Italia:
1.
 iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente,
2.
 domicilio
3.
 o residenza nel territorio dello Stato, ex articolo 43 del Codice civile.

Quando per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni, 184 se anno bisestile) è presente almeno uno dei tre requisiti, il contribuente è fiscalmente residente in Italia.

Così, chi ha legami con un Paese non legato all’Italia da accordo internazionale dovrà necessariamente assoggettare a imposizione il reddito mondiale a prescindere dall’eventuale utilizzo concomitante di tale criterio da parte dello Stato estero, con evidenti rischi di doppia tassazione.

Inoltre, sugli italiani che hanno trasferito la residenza in uno Stato non white list, grava l’onere di provare l’effettiva residenza estera (articolo 2, comma 2-bis, Tuir).

Nel caso invece, più frequente, in cui il contribuente risieda fiscalmente – in virtù delle legislazioni locali – in due Paesi “convenzionati”, opera il divieto di dual residence previsto dall’articolo 4 del modello Ocse. L’accordo pattizio è infatti norma speciale, sovraordinata alla legge nazionale: pertanto, le disposizioni concernenti le imposte sul reddito si applicano «fatti salvi gli accordi internazionali» (articolo 75 del Dpr 600/1973) e le disposizioni del Tuir si applicano in luogo dell’accordo internazionale soltanto se più favorevoli al contribuente (articolo 169 del Tuir).

Le regole con i Paesi convenzionati

In presenza di una Convenzione occorre infatti applicare la tie break rule per determinare l’unica residenza del contribuente sulla base di quest’ordine gerarchico:
● disposizione di abitazione permanente;
● centro degli interessi vitali;
● luogo di soggiorno abituale;
● nazionalità;
● accordo tra Stati.

Tenuto conto del tie break, il contribuente sarà residente nel Paese dove dispone di un’abitazione, e soltanto quando dispone di almeno un’abitazione in entrambi i Paesi si ricorrerà al criterio degli interessi vitali, siano essi di natura economica o sociale/affettiva/familiare. Questi ultimi tendono ad avere un peso maggiore nell’individuazione della residenza, secondo la prevalente giurisprudenza in Italia e nella Ue (Cgue C-262/99, Louloudakis).

Nell’ordine convenzionale emerge come il criterio del soggiorno per almeno 183 giorni, considerato preminente nel “sentire comune” di molti contribuenti, è determinante solo al terzo livello, quando gli interessi vitali sono diffusi in entrambi i Paesi convenzionati.
In presenza di Convenzione, infatti, la legge nazionale deve lasciare il passo e occorre determinare la residenza sulla base dell’accordo pattizio.

Il freno del requisito formale anagrafico

In quest’ottica lascia perplessi il filone giurisprudenziale che individua erroneamente la residenza italiana attribuendo presunzione assoluta alla mancata cancellazione all’anagrafe, a prescindere dall’effettivo trasferimento in un altro Stato convenzionato (da ultimo, ordinanza Cassazione 1355/2022).

Se la norma interna viene comparata alla regola convenzionale, sono evidenti i disallineamenti, in particolare in riferimento alla rilevanza dell’iscrizione all’anagrafe, requisito non richiesto in ambito convenzionale e sconosciuto a molti Paesi (si veda anche l’articolo «Residenza all’estero, Convenzione in campo se manca l’iscrizione all’Aire»).

Pertanto, alla luce delle ondivaghe sentenze di legittimità e della sempre più accentuata mobilità personale in ambito internazionale, sarebbe auspicabile una rivisitazione normativa che elimini o riduca la rilevanza del requisito formale anagrafico, come peraltro già avvenuto in tema di accesso ai regimi degli impatriati e dei ricercatori.

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Auto con targhe estere senza più limiti in Italia Entrate fiscali a rischio

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 marzo 2022 di Maurizio Caprino

Liberalizzazione. Con la legge europea cade il divieto di guida per i residenti Scatta la corsa ai veicoli immatricolati in altri Paesi per ottenere sconti fiscali

Apparentemente è solo una possibile stretta sulla platea dei prossimi incentivi auto. Ma l’esclusione delle imprese (e di tutte le altre persone giuridiche, tranne le società di car sharing) dai beneficiari dei contributi statali all’acquisto di vetture nuove, se confermata nei prossimi giorni dal testo definitivo del Dpcm la cui bozza è stata anticipata dal Sole 24 Ore il 23 marzo, rischia di segnare una svolta negativa in Italia. Non solo per il mercato dell’auto (nel 2021 gli acquisti delle aziende sono stati il 37,5% del totale), ma anche per il Fisco. Perché alla lunga molti potrebbero togliergli gettito, decidendo di circolare con targa estera: da una settimana, farlo è perfettamente legale per chiunque senza alcun vincolo, se registra il veicolo e tiene a bordo un documento.

A spingere verso questa scelta, c’è una coincidenza con le difficoltà di trovare auto, per la mancanza di materie prime e microchip causata dalla pandemia e dalla guerra. Non sembra invece essere un problema il possibile protrarsi del pluridecennale divieto di piena detraibilità dell’Iva (articolo in basso).

L’ok alle targhe estere

Insomma, c’è un sovrapporsi di novità legislative ed eventi cui probabilmente nessuno ha pensato abbastanza. L’elemento scatenante è la rettifica alla stretta sui “furbetti della targa estera” che era stata data con il Dl 113/2018. Per adeguarsi alle norme europee, la Legge europea 2019 (la n. 238/2021) ha modificato gli articoli 93, 94, 132 e 196 del Codice della strada ed è stato aggiunto l’articolo 93-bis. Alcune novità sono in vigore dal 1° febbraio, ma il nuovo regime è pienamente in vigore dal 18 marzo.

In linea di principio, si è passati da un divieto di guidare sul territorio nazionale veicoli con targa estera per chi risieda in Italia da più di 60 giorni a (articolo 93-bis) un obbligo di immatricolare con targa italiana il proprio veicolo entro tre mesi (chi era residente da prima del 1° febbraio deve mettersi in regola dal 1° maggio, secondo la circolare 9868U/2022 emanata dalla direzione centrale Specialità della Polizia il 23 marzo). La chiave di tutto sta nel fatto che, nel nuovo regime, l’immatricolazione in Italia si può evitare se il conducente residente in Italia non coincide col proprietario (residente all’estero): in questo caso, si è in regola se si tiene a bordo un documento con data certa firmato dal proprietario, che indichi a che titolo e per quanto tempo il conducente può utilizzare il veicolo. Se il diritto di questi a disporre del mezzo «supera un periodo di 30 giorni, anche non continuativi, nell’anno solare», titolo e durata dell’utilizzo vanno registrati in un nuovo archivio, tenuto dal Pra: il Reve (Registro veicoli immatricolati all’estero).

I vantaggi del nuovo regime

Dunque, basta poter documentare un comodato, un noleggio o un leasing con una persona o un operatore stranieri e iscrivere il veicolo al Reve per poter circolare in Italia all’infinito, senza problemi. Certo, non sarà più la cuccagna di prima: le multe potranno essere notificate all’indirizzo italiano dell’utilizzatore del mezzo, che sarà tenuto a pagarle davvero. Ma, almeno in parte, non si sarà soggetti al Fisco italiano.

Innanzitutto, ad oggi non è richiesto il pagamento nè dell’Ipt (Imposta provinciale di trascrizione) né del bollo auto (che va alla Regione) e dell’eventuale superbollo, nonostante il nuovo comma 4-ter dell’articolo 94 del Codice istituisca nel Pra un elenco dedicato alle targhe estere, a fini fiscali.

Perdite rilevanti anche per l’erario statale: il veicolo viene acquistato in un Paese europeo (a scapito peraltro della rete commerciale italiana e del suo indotto) da un soggetto che vi risiede, fruendo spesso di un’Iva inferiore a quella italiana (si veda la tabella sopra) e magari di un incentivo all’acquisto che negli acquisti in Italia rischia di non esserci più per tutta la tornata di bonus che sta per iniziare (e che durerà fino al 2030). Anche se in alcuni Stati l’operazione non conviene perché ci sono anche altre pesanti tasse sull’immatricolazione.

Sembrano invece ininfluenti le limitazioni italiane alla detraibilità dell’Iva sui costi di acquisto e utilizzo dei veicoli per le imprese: per i contratti di durata superiore a 30 giorni, valgono le regole italiane a prescindere dal Paese in cui il mezzo è stato immatricolato.

Il caso del noleggio

Qui s’innestano le altre coincidenze. Già per la prossima estate l’Aniasa (l’associazione confindustriale di noleggiatori e car sharing) ha invitato i turisti a prenotarsi per tempo, lasciando anche intendere che ci sarà un aumento dei prezzi, soprattutto in Sardegna e Sicilia: le difficoltà nella produzione delle auto non consentono di avere flotte adeguate alla domanda. Per rimediare almeno in parte, d’estate si potranno trasferire in Italia vetture da Paesi meno turistici.

Ma a questo punto lo schema potrebbe ripetersi anche a regime: le nuove regole del Codice della strada sono state interpretate da Polizia e Aci (circolare del 15 marzo) in modo da ammettere la possibilità per gli operatori di dare in noleggio in Italia anche veicoli che essi stesso hanno preso a noleggio all’estero.

L’Italia ha tutto il diritto di penalizzare fiscalmente la mobilità privata, per ragioni sia di debito pubblico sia di tutela dell’ambiente. Ma le nuove regole sui veicoli con targa estera rischiano di spiazzarla.

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San Marino verso storico accordo fiscale con il Regno Unito

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 9 marzo 2022 di Simone Filippetti

Visita di Stato con Johnson: si esamina l’accordo sulla doppia imposizione

La Gran Bretagna e San Marino sono più vicine: la repubblica del Titano va verso un epocale accordo sul fisco. I due paesi stanno trattando per stipulare un trattato sulla doppia imposizione: chi paga le tasse a San Marino non dovrà pagarle nel Regno Unito; e viceversa. Il reciproco riconoscimento tributario di fatto apre le porte della ricca Inghilterra, e di Londra, a San Marino: la leva fiscale è oggi una delle armi più importanti nella competizione tra paesi per attrarre i paperoni globali. Gli inglesi sono usciti dalla Ue l’anno scorso, il piccolo paese appenninico non ne ha mai fatto parte. La comunanza, lo avvicina all’orbita inglese. La firma del trattato, secondo indiscrezioni, è attesa per i primi di aprile. Ieri, una delegazione della Rocca è stata ricevuta una Londra, in una visita di Stato che per la lillipuziana nazione è già di per sé memorabile.

I due capitani reggenti, Francesco Mussoni e Giacomo Simoncini, hanno varcato la soglia del 10 di Downing Street per incontrare il primo ministro Boris Johnson in persona; e Lord Chamberlain, l’ufficiale a capo della Casa Reale, in veste della Regina Elisabetta II. Oltre all’emergenza della guerra in Ucraina, i capi di Stato hanno discusso delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il micro-stato dell’Adriatico, che si fregia di essere la più antica repubblica d’Europa, ha inviato una richiesta di accordo fiscale con la Gran Bretagna. L’accordo, che fonti vicine alla trattativa danno in dirittura d’arrivo, ha anche un forte significato geo-politico: significherebbe il riconoscimento ufficiale di San Marino, un’ammissione nell’Olimpo dei paesi grandi e affidabili. Per decenni la repubblica romagnola è stata vista e percepita come una sorta di paradiso fiscale dentro al territorio italiano. Lo sdoganamento fiscale anglosassone equiparerà il piccolo paese alla stessa Italia, con cui esiste da decenni un trattato sulle doppie imposizioni. Ma soprattutto innescherà un effetto a cascata: sulla scia di Uk, anche altri paesi potranno siglare accordi fiscali con San Marino. Il reciproco riconoscimento faciliterà anche futuri investimenti inglesi nel micro-stato romagnolo: su eventuali capitali che arriveranno nella Rocca, non ci sarebbero rischi che HMRC, il temibile fisco inglese, possa sollevare problemi o contestazioni.

Il regista della visita e del futuro accordo è Maurizio Bragagni: l’imprenditore toscano di Pieve Santo Stefano riveste il ruolo di console di San Marino nel Regno Unito. Forte delle sue relazioni nel partito Tory (è esponente di spicco degli Italian British Conservatives), sta da tempo, dietro le quinte, cucendo una laboriosa diplomazia tra i due paesi. Il culmine del lavoro è un futuro accordo che farebbe uscire San Marino da una zona grigia per presentarsi come paese affidabile e trasparente.

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La cessione di beni intra–Ue non imponibile ai fini Iva

8 Aprile 2022

Un artigiano, che svolge l’attività di tappezziere in Italia, riceve da una ditta tedesca del tessuto per eseguire il rivestimento di panche destinate ad arredo di gelaterie. I fusti delle panche sono realizzati dall’artigiano su disegno del committente Ue, e gli stessi sono tappezzati con il tessuto fornito dal cliente tedesco. Al termine della lavorazione, l’artigiano si reca in Germania per consegnare le panche rivestite ed eseguire il montaggio delle stesse in loco.

Ai fini Iva, l’operazione si deve considerare come prestazione di servizi, ex articolo 7–ter del Dpr 633/1972, oppure come cessione intracomunitaria, ex articolo 41, comma 2, lettera A del Dl 331/1993, considerato che il valore del materiale fornito dall’artigiano è prevalente rispetto a quello del materiale ricevuto in conto lavoro dal committente comunitario?

B.G.TREVISO

L’operazione descritta si qualifica come cessione intra–Ue, non imponibile ex articolo 41, comma 1, lettera c, del Dl 331/1993.

Secondo quanto precisato dalla circolare ministeriale 13/1994, la base imponibile della cessione è costituita dall’importo complessivo, comprendente sia il valore del bene che quello del montaggio in loco.

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Nel Cda privo di deleghe rischiano di rispondere del reato tutti i consiglieri

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 29 marzo 2022 di Laura Ambrosi

La confisca per equivalente si può applicare anche ai beni della società

In assenza di deleghe specifiche ai membri del Cda rischiano di rispondere del reato tributario tutti i consiglieri.

In futuro, inoltre, a seguito dell’inserimento, dei delitti tributari nei reati presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, la confisca per equivalente per tali illeciti, riguarderà anche le società e non solo gli amministratori.

Ad affermare questi interessanti principi sono due sentenze della corte di Cassazione depositate ieri.

In una prima pronuncia (la numero 11087) i giudici di legittimità sono intervenuti a proposito del sequestro preventivo eseguito nei confronti di un membro del consiglio di amministrazione di una società.

Secondo la tesi difensiva, in assenza di una specifica delega, i componenti del Cda non hanno alcuna responsabilità sull’operato altrui.

La Suprema corte ha ricordato che l’articolo 2392 del Codice civile dispone che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, fatta salva l’ipotesi di attribuzioni proprie ascritte in concreto ad uno o più soggetti.

Secondo la Cassazione, quindi, occorre distinguere l’ipotesi in cui il Cda operi con o senza deleghe: se un determinato atto non rientra nelle attribuzioni delegate, tutti i componenti del consiglio rispondono degli illeciti, salvo il dissenso esternato.

Se invece, sono attribuite specifiche materie a determinati componenti del consiglio, essi rispondono di quanto compiuto.

In conclusione, quindi, in assenza di deleghe grava su tutti i consiglieri la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti in essere dal Cda.

Sempre ieri, la Cassazione (sentenza numero 11086) ha affrontato la possibile incompatibilità del sequestro preventivo per equivalente operato sui beni dell’amministratore della società, rispetto alla necessaria misura adottata sempre in forma per equivalente in capo all’ente in applicazione della responsabilità amministrativa disciplinata dal Dlgs 231/2001. Infatti, anche alcuni delitti tributari rientrano dal 25 dicembre 2019 tra i reati presupposto per i quali è possibile eseguire, in caso di condanna, la confisca in capo all’ente.

I giudici hanno così rilevato che l’innovazione normativa impone in futuro una più ampia indagine sul patrimonio dell’ente sin dalla fase cautelare: ove non sia possibile preservare il profitto diretto (di norma le disponibilità liquide della società), la misura per equivalente potrà applicarsi sui beni della società e non soltanto come avvenuto in passato su quelli del reo/rappresentante legale.

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Non c’è esterovestizione per l’impresa che ha oltreconfine una sede effettiva

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 3 Marzo 2022 di Alessandro Germani

Le ultime letture di Entrate e Cassazione sulle fittizie localizzazioni all’estero

Un check sulla catena partecipativa per stabilire la residenza della holding

La localizzazione all’estero delle strutture societarie deve essere sempre effettiva e genuina per evitare contestazioni, che tuttavia vanno sempre adeguatamente supportate in relazione al presunto vantaggio fiscale che il contribuente vorrebbe perseguire. In tema di pianificazione estera occorre distinguere le casistiche di residenza fiscale effettiva e di esterovestizione. Può essere il caso di una holding estera che controlli una società italiana. Per stabilire l’effettiva residenza della holding occorrerà fare un check sull’intera catena partecipativa e sulla residenza dei componenti dell’organo amministrativo. Due recenti pronunce di prassi e di giurisprudenza consentono di trarre alcuni elementi utili. Vediamole in dettaglio.

Le Entrate

La risposta n. 27 del 17 gennaio 2022 ha riguardato una società Alfa estera controllata al 51% da una società italiana e amministrata da due persone fisiche delle quali una residente in Italia e l’altra all’estero. Nel caso di specie non si trattava neppure di una holding, non avendo partecipazioni in Italia. La norma dell’esterovestizione (articolo 73, comma 5-bis, del Tuir) introduce una presunzione relativa di residenza in Italia di una società estera che controlla, ex articolo 2359, comma 1, del Codice civile, società ed enti residenti in Italia, se, in alternativa:

è controllata, anche indirettamente, ex articolo 2359, comma 1, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

è amministrata da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Quindi perché scatti la presunzione di esterovestizione occorre che l’estera, che controlla l’italiana, sia a sua volta controllata da un’altra italiana o amministrata prevalentemente da soggetti italiani. Questo è il quadro di riferimento che bisogna focalizzare.

Se dunque a valle Alfa non controlla alcuna società italiana, la precondizione della norma sull’esterovestizione non è integrata e la disciplina non si applica. Correttamente le Entrate fanno presente che l’esterovestizione è fattispecie ben differente dalla residenza fiscale di una società, stabilita dal comma 3 dell’articolo 73, determinata dal fatto di avere la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta. Come dire che una struttura può definirsi esterovestita se controlla una società italiana e a sua volta è controllata sempre da una società italiana o amministrata prevalentemente da italiani. Ma nulla toglie che quand’anche non sia esterovestita possa comunque considerarsi da parte del fisco italiana se si prova che in realtà è solo fittiziamente localizzata all’estero. Qui va fatta una valutazione caso per caso.

La Cassazione

Veniamo ora alla sentenza della Cassazione n. 4463 dell’11 febbraio 2022 dove i giudici di legittimità in un caso di presunta esterovestizione hanno dato ragione al contribuente in quanto, trattandosi di una norma con finalità antielusive, sta all’Agenzia di provare che l’obiettivo preponderante da parte del contribuente sia quello di conseguire un vantaggio fiscale.

La Cassazione ha di fatto avallato il giudizio della Ctr Lombardia. Infatti la società estera è una holding lussemburghese che ha sempre svolto la propria attività di gestione delle partecipazioni. In questo caso l’Amministrazione, colpevolmente, non si è neppure preoccupata di identificare il vantaggio fiscale conseguito o conseguibile con la collocazione artificiosa della sede sociale in Lussemburgo e non in Italia. Non basta, infatti, reperire nella controllata italiana una documentazione «sporadica e discontinua» che appare insufficiente a dimostrare l’esterovestizione. Militano poi a favore del contribuente anche la residenza estera della maggioranza dei consiglieri d’amministrazione e l’imposizione fiscale cui la società Alfa è sottoposta in Lussemburgo. Un’artificiosa localizzazione estera deve infatti rispondere a un trattamento fiscale di favore (Cassazione 16697/19 e 2869/13) e lo scopo essenziale dell’operazione deve limitarsi all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (causa C-419/14, W. Kft). Perché di contro il contribuente sarà sempre libero di scegliere la soluzione che gli consenta di ottimizzare il carico fiscale. Quindi una localizzazione estera può essere contrastata dalla norma nazionale solo se l’obiettivo è quello di contrastare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica (causa C-196/04 e Cassazione 33234/18). I paletti posti dalla Cassazione a favore del contribuente appaiono molto netti.

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È il puro artificio la prova di esterovestizione

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 16 marzo 2022 di Laura Ambrosi

La localizzazione in un Paese con fiscalità più vantaggiosa non è operazione elusiva

La localizzazione della sede di una società in un Paese con un minor carico fiscale non costituisce di per sé un’operazione elusiva, tanto meno se la tesi è fondata solo sullo svolgimento in Italia dei servizi amministrativi. L’esterovestizione, infatti, sussiste se all’estero c’è una creazione di puro artificio priva di sostanza economica. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8297 depositata ieri.

Ad una società con sede in Lussemburgo veniva notificato un accertamento con il quale era contestata una esterovestizione e conseguentemente tassato in Italia il relativo reddito.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito lo annullava. In particolare, la Ctr rilevava che lo svolgimento dei servizi amministrativi in Italia non era di per sé sufficiente a dimostrare l’esterovestizione, poiché sussistevano altri elementi che confermavano l’effettiva attività all’estero.

L’Agenzia impugnava la decisione in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata applicazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che per esterovestizione si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, più precisamente in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso. Tale comportamento, però, è abusivo solo se ha come risultato l’ottenimento indebito del vantaggio fiscale. Occorre a tal fine il riscontro dello scopo essenziale dell’operazione.

Tuttavia, in base ai principi unionali, il contribuente può sempre scegliere tra due operazioni, non essendo obbligato a preferire quella che implica il pagamento di imposte superiori. Egli, infatti, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale.

In riferimento alla localizzazione all’estero della residenza, secondo il principio di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in un determinato Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa, non costituisce di per sé un abuso di tale libertà. Ne consegue così che una misura nazionale che restringa la scelta è ammessa soltanto se riguarda le costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta del territorio nazionale (Cassazione 33234/2018).

Nella specie, il giudice di merito aveva correttamente applicato i citati principi rilevando che l’Ufficio non aveva prospettato l’indebito vantaggio conseguito dall’asserito abuso perpetrato attraverso la sede estera. Da qui la conferma dell’illegittimità della pretesa.

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Nel mirino del Fisco gli 8mila italiani residenti a Montecarlo

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore16 febbraio 2022 di Angelo Mincuzzi

Domicili fittizi. Le Entrate hanno avviato gli accertamenti e alcune posizioni sono già state sanate. Ora obiettivo Dubai, Lussemburgo e Svizzera

Sono giorni di fibrillazione tra gli italiani residenti a Montecarlo. Gli 8mila connazionali che vivono nel Principato di Monaco sono finiti, infatti, nel mirino dell’agenzia delle Entrate. Il Fisco è partito alla ricerca dei falsi residenti nella Rocca dei Grimaldi e sta passando al setaccio le posizioni di tutti gli iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Il passaparola nel piccolo Stato, che conta 39mila abitanti su una superficie di due chilometri quadrati, è partito immediatamente tra i vip che vi risiedono (nel 2021 erano, per la precisione, 7.894), soprattutto perché in questi giorni i primi italiani hanno già regolarizzato la propria posizione versando all’Erario cifre dell’ordine di parecchi milioni di euro.

Più di metà degli italiani residenti a Montecarlo provengono dalla Lombardia e dalle aree limitrofe. Si tratta soprattutto di imprenditori, finanzieri, professionisti, vip e campioni sportivi che nel Principato non pagano nessuna imposta sui redditi delle persone fisiche. A loro toccherà l’onere di dimostrare che la residenza a Montecarlo è reale e che lì si trova davvero il centro dei loro “interessi vitali”.

Monaco è però soltanto il primo passo, perché gli uomini dell’agenzia delle Entrate stanno lavorando anche sui nominativi dei residenti in altri paesi, come Lussemburgo (30.933 italiani secondo l’ultimo censimento Aire relativo al 2021), Dubai (10.795 contando anche gli altri Emirati), Svizzera (639.508) e Liechtenstein (1.824 italiani iscritti).

L’accelerazione dell’agenzia delle Entrate sugli italiani residenti nel Principato di Monaco è stata agevolata dal recente accordo tra Fisco, Comando regionale della Lombardia della Guardia di Finanza e Comune di Milano, firmato il 13 gennaio 2022 dal direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, dal generale Stefano Screpanti, dal sindaco Giuseppe Sala e dal direttore della Direzione specialistica incassi e riscossioni del capoluogo lombardo, Monica Mori.

Il numero degli ex residenti a Milano che si sono iscritti all’Aire è salito dagli 80.140 del 2016 ai 93.230 del 2020, con un aumento del 12,6%. Di questi, 721 risultavano residenti a Montecarlo, altri 1.022 in Lussemburgo, 12.314 in Svizzera, 901 negli Emirati Arabi e 5 in Liechtenstein.

Il protocollo prevede una cooperazione rafforzata per il contrasto all’evasione fiscale con controlli mirati su particolari tipologie di «soggetti, attività e operazioni», per consentire al Comune di Milano un’efficace segnalazione di fenomeni legati all’evasione fiscale. È da sottolineare il fatto che quando la segnalazione qualificata arriva dal Comune, il gettito recuperato finisce totalmente nelle casse dell’amministrazione locale.

La collaborazione consentirà alla Direzione regionale della Lombardia dell’agenzia delle Entrate, guidata da Antonino Di Geronimo, di focalizzare il lavoro su obiettivi particolarmente concreti visto che provengono dall’incrocio di banche dati, anche catastali, con l’attività svolta dal Comune di Milano sul suo territorio. Protocolli di intesa simili sono stati firmati con quasi la metà dei 1.506 comuni della Lombardia e rappresentano un passo importante per rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale.

Un “modello Lombardia” che potrebbe essere presto replicato in altre regioni e con altri grandi comuni italiani, soprattutto per gli effetti positivi per le casse comunali a caccia di risorse.

A Milano l’iniziativa contro i falsi residenti all’estero si era aperta già nel 2017 grazie al cosiddetto “modello Milano” sviluppato dall’ex procuratore della Repubblica, Francesco Greco, che aveva costituito all’interno della procura il “Pool latitanti fiscali” con l’obiettivo di dare la caccia proprio ai finti residenti all’estero. Anche perché la Lombardia è la regione dalla quale è arrivato il maggior numero di istanze di adesione alla prima voluntary disclosure, il 49,07% del totale.

Il decreto legislativo 90/2017 ha modificato in modo rilevante sia la normativa sulla prevenzione e sul contrasto del riciclaggio sia la disciplina sul monitoraggio fiscale. In particolare, la segnalazione periodica all’Anagrafe tributaria – a differenza di quella da inviare all’Uif – non è più subordinata al sospetto di un’evasione o di un’elusione d’imposta. Deve essere, in pratica, quasi automatica. Le categorie dei soggetti “monitorabili” restano invece le stesse, ma viene meno il requisito della residenza in Italia, per cui anche l’ordine di trasferimento per conto o a favore di un soggetto non residente ricade nel campo di applicazione della disciplina.

Questa modifica ha consentito alle autorità fiscali l’acquisizione di informazioni utili a contrastare il trasferimento fittizio all’estero della residenza delle persone fisiche. Casi, per esempio, come la maxi-condanna delle sorelle Gucci al pagamento di oltre 100 milioni di euro al termine dell’istruttoria dell’Ucifi (l’Unità centrale per il contrasto all’evasione internazionale) del Settore contrasto illeciti dell’agenzia delle Entrate.

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La società operativa non equivale a uno schermo

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore 4 febbraio 2022 di Alessandro Galimberti

Operazione esente gli interessi passivi alla controllata

Non può escludersi la «titolarità effettiva» di una società controllata basata in un Paese a fiscalità privilegiata in relazione a pagamenti di interessi per operazioni infragruppo. L’amministrazione fiscale per escludere la controllata come beneficial owner deve verificare tutti i presupposti, a cominciare dalla inesistenza di obblighi giuridici di ritrasferimento delle poste ricevute.

I fatti contestati dall’Agenzia si innestano su una complessa operazione triangolare di ristrutturazione del debito (350 milioni di euro) mediante l’emissione di obbligazioni, operazione risalente ai primi anni 2000.

La società madre, Arnoldo Mondadori, aveva corrisposto gli interessi passivi (circa sette milioni) alla controllata lussemburghese – a sua volta obbligata con i sottoscrittori americani – considerando il trasferimento neutro dal punto di vista fiscale (articolo 26-quater del Dpr 600/1973) e quindi senza applicarvi la ritenuta alla fonte del 12,50 per cento. L’esito finale del pagamento però, secondo l’amministrazione finanziaria, e cioè il successivo trasferimento della cifra corrispondente alla società statunitense, avrebbe prodotto l’aggiramento dell’obbligo in capo al sostituto d’imposta mediante l’utilizzo, appunto della società-veicolo basata nel Granducato lussemburghese. A questa interpretazione, condivisa dalla Ctr Lombardia, si è opposta la contribuente con il ricorso in Cassazione risolto dall’ordinanza 3380/22 della Quinta sezione, depositata ieri.

I giudici di legittimità, che hanno cassato con rinvio la decisione della Ctr lombarda, hanno ripercorso l’iter storico di formazione del concetto di beneficial owner e di società conduit per validare l’operazione fiscalmente neutra della contribuente. La giurisprudenza europea ha più volte escluso dal perimetro del beneficial owner (titolare effettivo) le società interposte e le fiduciarie, dotate di poteri molto limitati sui redditi imputati (da ultimo, Causa C 115/16), e le regole Ocse dal 2014 hanno poi individuato la figura nel soggetto giuridico che ha obblighi giuridici – legali, contrattuali ma anche evincibili da situazioni di fatto- di ritrasferimento dei flussi di reddito. In tale contesto, in sostanza, la società conduit viene costituita senza motivazioni economiche diverse dal mero risparmio fiscale.

La Corte non esclude neppure che una subholding possa essere considerata titolare effettivo, a condizione che i flussi siano appostati a bilancio e aggredibili dai creditori, oltreché essere liberamente utilizzabili.

Nel caso specifico la Quinta sezione sottolinea che la storia cinquantennale di Mondadori International Sa, la sua struttura operativa «reale», l’oggetto sociale congruente, le caratteristiche corrette dell’operazione finanziaria in questione, l’iscrizione a bilancio degli interessi percepiti, le garanzie proprie poste nell’operazione di finanziamento degli americani e infine l’assenza di obblighi di ritrasferimento degli interessi ricevuti, sono tutti elementi che fanno escludere la qualificazione di società conduit o di società relais.

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Una sola email dai toni forti può costare il posto al dirigente

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 febbraio 2022 di Marcello Floris e Valentina Pomares

La nozione di giustificatezza del recesso è più ampia di quella di giusta causa

Il rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore è particolare e accentuato

Basta un solo episodio di intemperanza perchè il licenziamento di un dirigente sia considerato legittimo. Nel caso esaminato dalla Cassazione nell’ordinanza 2246 pubblicata il 26 gennaio scorso, si è trattato di una email in cui il dirigente accusava la proprietà della società datrice di lavoro di aver tradito la propria fiducia e buona fede. Il licenziamento è stato riconosciuto legittimo, a esito dei tre gradi di giudizio. Nel messaggio di posta elettronica che ha causato il recesso, il dirigente licenziato aveva sottolineato così il deteriorarsi del rapporto con la società: «Non so quanto ancora potrò sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile».

A fronte di queste esternazioni, il dirigente era stato licenziato per giusta causa. In primo grado la sussistenza della giusta causa era stata esclusa, ma il licenziamento è stato comunque ritenuto giustificato e la pronuncia è stata confermata in appello e in Cassazione. Sono state respinte le domande di risarcimento danni per mobbing e dequalificazione e la domanda di indennità supplementare.

La nozione di giustificatezza applicata dalla Corte non è contenuta nella legge, ma trova origine nella contrattazione collettiva e nella elaborazione giurisprudenziale. Il concetto di giustificatezza non coincide con quello di giusta causa e giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ma è molto più ampio ed è applicabile solo al rapporto di lavoro dirigenziale. Fatti o condotte non idonee a integrare la giusta causa o il giustificato motivo possono invece valere a giustificare il licenziamento del dirigente.

In generale, il licenziamento del dirigente, per essere giustificato, deve essere motivato da ragioni non discriminatorie né arbitrarie, ma oggettive e concretamente accertabili o comunque tali da ledere il particolare e accentuato rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore di lavoro. Secondo la giurisprudenza della Cassazione alla quale fa riferimento l’ordinanza 2246/2022, «ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso». Assume così rilevanza qualsiasi motivo che sorregga il recesso, con motivazione coerente, fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto.

Nel caso specifico, la motivazione è stata giudicata idonea a escludere l’arbitrarietà del recesso per effetto della rilevanza del fatto contestato in termini di turbamento del vincolo fiduciario, tanto più intenso quanto più elevato è il ruolo dirigenziale del dipendente. La Corte ha quindi respinto l’assunto difensivo secondo cui un singolo episodio non sarebbe sufficiente a fondare il licenziamento. Parimenti è stato giudicato privo di rilevanza il fatto che il messaggio che ha originato il recesso sia stato una reazione a un preciso accadimento.

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