Categoria: Dall’Italia
Credito sui dividendi esteri alle persone fisiche residenti
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore 27 settembre 2022 di Luca Ferrari
Nonostante gli utili siano soggetti a ritenuta d’imposta o a imposta sostitutiva
Necessaria la certificazione dell’autorità fiscale straniera che attesti il pagamento
Riconosciuto alle persone fisiche residenti il credito per le imposte pagate all’estero sui dividendi distribuiti da società non residenti e relativi a partecipazioni non qualificate, nonostante gli stessi siano assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta o a imposta sostitutiva. Questo il principio di diritto affermato con la sentenza 25698/2022 dalla sezione tributaria della Corte di cassazione.
Il credito per le imposte pagate all’estero è lo strumento utilizzato dall’ordimento tributario italiano per eliminare la cosiddetta doppia imposizione giuridica internazionale che si verifica quando un medesimo componente di reddito è assoggettato a imposizione in capo allo stesso contribuente in più Stati.
I dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti e relativi a partecipazioni non qualificate (e, a partire dal 2018, anche a quelli relativi a partecipazioni qualificate) sono assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta con aliquota del 26% da applicarsi da parte dell’intermediario che interviene nella riscossione degli stessi o, in mancanza di intermediario, a imposta sostitutiva con la medesima aliquota in sede di dichiarazione dei redditi.
In base alla disciplina interna in materia di credito per le imposte pagate all’estero, i redditi di fonte estera danno diritto a tale credito a condizione che questi siano inclusi nel reddito complessivo del contribuente (condizione che non si verifica, ad esempio, qualora gli stessi siano assoggettati, come i dividendi esteri, a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva).
In relazione ai dividendi esteri, il contribuente non ha alcuna possibilità di farli concorrere al reddito complessivo e, pertanto, secondo la normativa interna, a far valere il credito d’imposta.
Tuttavia, la maggior parte delle convenzioni contro le doppie imposizioni concluse dall’Italia (compresa quella stipulata con gli Stati Uniti, oggetto del caso esaminato dalla Suprema Corte) prevedono l’obbligo per l’Italia di riconoscere il credito d’imposta, fatto salvo il solo caso in cui il componente di reddito sia assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta su richiesta del contribuente.
In caso di dividendi di fonte estera l’assoggettamento a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva non è rimessa ad un’opzione del contribuente. In tale situazione, si è in presenza di un contrasto tra la normativa interna e quanto previsto dalla disciplina convenzionale che, secondo i principi generali dell’ordinamento italiano, dovrebbe risolversi a favore di quanto previsto dalla normativa pattizia. Nonostante ciò, l’Amministrazione finanziaria ha sino a oggi sempre negato la spettanza del credito d’imposta estero in relazione ai dividendi esteri percepiti da persone fisiche residenti, facendo così prevalere la normativa interna rispetto a quella convenzionale.
Ora, la Cassazione, con la sentenza 25698/2022, ha chiaramente affermato il diritto al credito d’imposta a favore delle persone fisiche residenti sui dividendi esteri, salvo il caso in cui il trattato contro le doppie imposizioni concluso con lo Stato estero preveda espressamente che il credito non sia riconosciuto anche nel caso in cui il componente di reddito sia assoggettato obbligatoriamente a ritenuta a titolo d’imposta.
In merito alla documentazione idonea a comprovare il pagamento delle imposte all’estero, i Supremi giudici hanno indicato, oltre alla dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero (qualora questo adempimento sia previsto), una certificazione rilasciata dall’autorità fiscale estera che attesti il predetto pagamento oppure una certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi, accompagnata o dalla ricevuta di versamento delle imposte pagate da tale soggetto o dall’indicazione e prova del fatto che, in base alla normativa straniera, lo stesso soggetto sia obbligato al versamento.
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Corsi online, imposta da pagare nel luogo di residenza del cliente
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore 5 agosto 2022 di Paolo Parodi e Benedetto Santacroce
AGENZIA/CONSUMATORE FINALE
Nuovo intervento dell’agenzia delle Entrate sul tema della territorialità Iva nel settore della formazione online, con molte conferme ma anche con talune conclusioni foriere di criticità sia sotto il profilo concettuale sia in termini di operatività.
Il caso affrontato con la risposta ad interpello 409/2022 riguarda diverse tipologie di corsi di formazione, della durata di alcuni giorni, resi dalla società a distanza sia a favore di soggetti “business” che di consumatori finali. I corsi consentono l’interazione fra i docenti e i partecipanti e i docenti svolgono la loro attività in luoghi diversi, mediante il canale elettronico. L’Agenzia osserva che, considerando la possibilità di interazione fra docente e discenti, la qualificazione del servizio prestato non rientra nella nozione di «servizio prestato tramite mezzo elettronico» di cui all’articolo 7 del regolamento Ue 282/11. Il passaggio successivo, al fine di valutare l’applicabilità o meno delle deroghe fissate dall’articolo 7-quinquies, è costituito dalla necessità di distinguere le fattispecie in cui il committente sia un soggetto business (B2B) rispetto alle situazioni in cui il committente sia un consumatore finale (B2C). Per i corsi online verso soggetti business, non essendovi accesso in luogo fisico ove si svolge la formazione, trova applicazione la regola generale dell’articolo 7-ter: la territorialità Iva è nel Paese del committente e sarà questo ad assolvere l’imposta nel proprio Paese. Per i corsi verso consumatori finali opera invece la deroga dell’articolo 7-quinquies e dunque la territorialità Iva è nel Paese ove si svolge la formazione. Ma qui sorge la criticità interpretativa: qual è il luogo ove si svolge la formazione? La soluzione prospettata dalla società istante era quella di ritenere che le prestazioni devono considerarsi «materialmente eseguite» nel luogo ove sono fornite dal gestore della piattaforma, vale a dire nel luogo della sede delle attività economiche. L’Agenzia, invece, non ha accolto tale soluzione, ritenendo che i corsi B2C assumano rilevanza territoriale nel luogo di residenza del cliente. A sostegno dell’interpretazione, l’Agenzia richiama le linee guida approvate dal Comitato Iva nella riunione 118 del 19 aprile 2021, per i servizi consistenti in sessioni interattive filmate e trasmesse in tempo reale via internet (ad esempio, video-chat), nonché le modifiche operate dalla Direttiva Ue 2022/542 all’articolo 54 della Direttiva Iva, paragrafo 1, in relazione alle trasmissioni in streaming.
L’assimilazione della formazione online con interazione alle sessioni filmate o alle trasmissioni in streaming non appare pienamente condivisibile e comunque, nei casi in esame, genera non poche difficoltà operative per il fatto che il prestatore deve essere in grado di assolvere l’Iva nei diversi Paesi di stabilimento degli utenti.
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Due residenze e cittadinanze non fermano l’accertamento
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore 12 agosto 2022 di Massimo Romeo
Dirimente la verifica sull’effettiva presenza e sulle attività svolte
Il possesso della doppia cittadinanza e della doppia residenza non elimina tout court la pretesa del fisco italiano. Un cittadino con cittadinanza e residenza italiana e ucraina, impugnava l’avviso di accertamento all’esito di un’ indagine delle Dogane relativa a spese non compatibili con la dichiarata assenza di redditi in Italia.
Fra i motivi, il ricorrente eccepiva la residenza fiscale in Ucraina e precisava che l’attività in Italia era solo a scopo perlustrativo. I giudici di prime cure accoglievano il ricorso osservando che la questione assorbente riguarda stabilire se il ricorrente fosse o meno residente in Italia; in tal senso, la Ctp riteneva che dalla documentazione prodotta risultava che il ricorrente (e il coniuge), non era residente in Italia, fatto dimostrato dal certificato doganale dei transiti. L’Ufficio, sia in primo grado che in fase di proposizione dell’appello, aveva precisato che se un soggetto non è residente paga in Italia solo per i redditi ivi prodotti, mentre se è residente paga per i redditi ovunque prodotti. Nel caso di specie, l’Agenzia puntualizzava che il ricorrente aveva: a) il centro degli interessi in Italia, b) la residenza italiana; c) conti correnti e una vettura intestata; d) investimenti patrimoniali effettuati dalla moglie.
La Ctr, pur con differente risultato, condivide il modus procedendi ritenendo che dirimente rispetto sia l’accertamento dell’assoggettabilità del ricorrente al sistema tributario italiano. Il Collegio osserva che, a prescindere dalle evidenze riscontrate dall’Ufficio come pure dalle contrapposte ragioni, a risolvere il contrasto interpretativo sul “se” e “quando” un soggetto debba considerarsi fiscalmente residente in Italia, è ancora intervenuta la Suprema corte che con l’ordinanza del 18 gennaio 2022 (n. 1355) ha stabilito che «le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dal Dpr 1986/917, articolo 2, in ogni caso residenti, e, pertanto, soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».
Pertanto, considerato che il dato formale della residenza anagrafica in Italia non era stato contestato dal ricorrente, né risultava la stessa essere stata sospesa dall’iscrizione all’Aire, si doveva concludere che il contribuente fosse soggetto alla normativa tributaria del Paese di cui era anche cittadino (Italia). A fronte delle spese e degli investimenti accertati, il ricorrente non aveva contestato la correttezza delle imputazioni trincerandosi dietro a considerazioni poco plausibili (quali quelle afferenti agli oneri di casa) o a generici rinvii a prassi estere di poca presa (l’assenza, nell’ordinamento ucraino, di obblighi di tracciabilità delle movimentazioni di denaro).
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Partita Iva italiana anche con residenza UK
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore 17 agosto 2022 di Giovanni Parente
Domicilio fiscale nel luogo di svolgimento dell’attività Tassazione nel nostro Paese
Domicilio fiscale nel luogo di svolgimento dell’attività libero-professionale in Italia all’apertura della partita Iva per il contribuente iscritto all’Aire e residente nel Regno Unito. In questo modo, l’operatore sarà considerato soggetto passivo d’imposta alla stregua di un residente. I redditi prodotti da tale attività saranno tassati in Italia. Così la risposta a interpello 429/2022 delle Entrate.
Il caso riguarda una cittadina italiana residente nel Regno Unito e iscritta all’Aire, che è intenzionata a svolgere un’attività libero-professionale in Italia senza averla svolta prima nel Paese estero di residenza. Il quesito è se potesse indicare all’apertura della partita Iva in Italia la sede di svolgimento dell’attività professionale come domicilio fiscale.
Le Entrate riconoscono l’intenzione della contribuente di costituire nel territorio italiano il «centro dei propri interessi» e di svolgere l’attività lavorativa in tale luogo. Di conseguenza, secondo l’Agenzia, «la circostanza che nel territorio italiano venga costituito il domicilio fiscale, pur in presenza della residenza in un paese terzo (Regno Unito), non è di ostacolo a considerare l’istante quale soggetto passivo di imposta alla stregua di un soggetto residente». Tra l’altro, la contribuente dovrà indicare nel modello AA9/12 di dichiarazione attività ai fini Iva «il domicilio fiscale ossia il luogo ove sarà svolta l’attività lavorativa, al fine di dotarsi di una partita Iva ordinaria».
C’è poi il fronte dell’imponibilità. A detta delle Entrate, «i redditi riconducibili all’attività svolta in Italia andranno ivi assoggettati a imposizione». La risposta a interpello fa riferimento all’articolo 14 della Convenzione tra Italia e Regno Unito (approvata con la legge 329/1990). Il passaggio chiave è il concetto di «base fissa» per l’attività libero-professionale. In estrema sintesi, la disposizione assoggetta a imposizione i redditi provenienti da una libera professione o da un’attività indipendente esclusivamente nello Stato di residenza ma «fa salvi i redditi che il beneficiario ottiene grazie ad una “base fissa” posta nell’altro Stato contraente, ipotesi che rende applicabile un regime di tassazione concorrente in entrambi i Paesi e la successiva applicazione del credito d’imposta nel Paese di residenza per le imposte pagate all’estero».
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Compila Redditi chi lavora all’estero senza essere iscritto Aire
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore 24 agosto 2022 di Giovanni Esposito
Le imposte pagate oltreconfine costituiscono un credito
Il contribuente è sottoposto alla maggiore delle due tassazioni
In base al cosiddetto principio della tassazione mondiale (world wide taxation principle), sul quale si fonda anche il sistema fiscale italiano, il cittadino che lavora all’estero non iscritto all’Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) e quindi fiscalmente residente nel nostro Paese, ha comunque l’obbligo di pagare le imposte in Italia anche sui redditi prodotti all’estero, salvo che sia diversamente indicato da disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
Le eventuali imposte pagate a titolo definitivo nei Paesi in cui i redditi sono stati percepiti si possono comunque detrarre da quelle italiane, sotto forma di credito d’imposta, fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione. In altri termini il contribuente soggiace alla maggiore delle due (italiana/ estera) imposizioni senza possibilità di monetizzare alcun credito.
Il quadro RC
Premesso che per convertire in euro i redditi espressi in valuta estera deve essere utilizzato il cambio indicativo di riferimento del giorno in cui gli stessi sono stati percepiti, quello del giorno antecedente più prossimo o in mancanza il cambio medio del mese, analizzando il caso della percezione di reddito da lavoro dipendente in Usa per 52.491 euro, nella dichiarazione Redditi 2022 nelle colonne al rigo RC1 si indica:
1 “2” redditi di lavoro dipendente o assimilati;
2 “1”se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato, ovvero “2” se a tempo determinato;
3 l’importo dei redditi percepiti; in colonna 4, il codice che identifica la fonte estera dei redditi indicati nelle colonne precedenti (“1” se nella colonna 1 è indicato il codice 1).
Le imposte estere
I dati delle imposte estere andranno così indicati nelle colonne del rigo CE1:
1 il codice dello Stato estero;
2 il periodo d’imposta;
3 il reddito prodotto all’estero;
4 le imposte pagate all’estero (nel caso Usa pari alla somma della Federal income tax e State and local income taxes);
5 il reddito complessivo;
6 l’imposta lorda italiana;
7 l’imposta netta italiana;
10 la quota d’imposta lorda italiana costituita dal risultato della seguente operazione: (colonna 3 / colonna 5) x colonna 6 (si precisa che se il rapporto tra reddito estero e reddito complessivo assume un valore maggiore di 1, tale rapporto deve essere ricondotto a 1);
11 l’importo dell’imposta estera ricondotta eventualmente entro il limite della quota d’imposta lorda, quest’ultima diminuita del credito utilizzato nelle precedenti dichiarazioni relativo allo stesso Stato ed anno di produzione. A tal fine si riporta il minore importo tra quello indicato nella colonna 4 (imposta estera) e il risultato della seguente operazione: colonna 10 – colonna 9.
Il credito d’imposta
Nelle colonne del rigo CE4:
1 sarà indicato il periodo d’imposta;
2 il totale degli importi indicati nella colonna 11 del rigo CE1;
3 l’importo dell’imposta netta;
4 l’importo per il quale è possibile fruire del credito pari al minore tra l’importo di colonna 2 e l’importo di colonna 3 di questo rigo. L’importo del credito così determinato va riportato nel rigo CE23 e, al netto di crediti di cui all’articolo 165 comma 6 e importi già utilizzati, il risultato finale nel CE26.
L’importo come prima quantificato è, infine, riportato nel rigo RN29, colonna 2, del quadro RN.
Cosicché l’imposta da versare sarà pari alla differenza tra l’imposta netta italiana (16.267 euro) e quelle pagate all’estero (11.362 euro).
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Così il socio italiano dell’impresa elvetica si finge dipendente
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore lunedì 22 agosto 2022 di Ivan Cimmarusti
Faro della Gdf su aziende oltreconfine in realtà controllate dai loro addetti
IMAGOECONOMICA In dogana. Controlli sui mezzi alla frontiera di Chiasso
Sulla carta risultano quali semplici lavoratori dipendenti italiani di società svizzere, ma nei fatti ne sono i proprietari. La Guardia di finanza di Como accende i fari investigativi sui frontalieri: l’ipotesi è che, in alcuni casi, la corretta tassazione sia stata aggirata attraverso architetture societarie che farebbero apparire come subordinato – e dunque assoggettato al più conveniente regime fiscale dei dipendenti in Svizzera – chi in realtà è un amministratore con reddito da tassare in Italia.
Le informazioni contenute nel registro di commercio del Canton Ticino, incrociate con le banche dati Gdf, avrebbero permesso di scoperchiare un presunto “sistema” per evadere il Fisco italiano. Bisognerà capire quanto sia estesa la prassi sotto inchiesta. Allo stato gli accertamenti riguardano solo un segmento della categoria dei frontalieri: quelli con domicilio fiscale nei Comuni limitrofi al confine con la Svizzera, che contemporaneamente sono titolari di quote e lavoratori dipendenti di queste società elvetiche. L’ipotesi che si tratti di false «subordinazioni» è nei processi verbali di contestazione finora eseguiti.
Secondo l’attuale normativa – in corso di modifica – il lavoratore frontaliero è quel soggetto residente in un Comune italiano il cui territorio è compreso nella fascia dei 20 chilometri dal confine, che svolge il suo lavoro in Svizzera. In particolare, il frontaliere, pur mantenendo la residenza in Italia, presta la propria attività in qualità di dipendente/subordinato in via esclusiva e continuativa, per conto di un datore di lavoro estero. Una regola valida per i frontalieri in Francia, Austria, Slovenia, San Marino e, ovviamente, Svizzera. Tutto ciò ha un beneficio. Come hanno ricordato le Entrate, con la risoluzione 38/E/2017, «i salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della rimunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta». Un vantaggio fiscale non da poco quando si tratta di Svizzera.
Ora i soggetti sotto accertamento risultano titolari di quote delle società per le quali sono subordinati. Secondo la Gdf alcuni risultano titolari dell’intero capitale delle società per le quali lavorano. In sostanza si tratterebbe di lavoratori dipendenti, ma solo sulla carta. Tutto ciò permetterebbe un duplice beneficio: i soggetti non subiscono alcuna tassazione in Italia, mentre in Svizzera assolvono a una minima tassazione sul lavoro dipendente; evitano di dichiarare compensi da amministratore, considerato l’imposizione più onerosa, pari al 30% circa di ritenuta a titolo d’imposta.
Secondo il commercialista Stefano Noro, partner dello studio Sala Noro e Associati, «dai verbali visionati, emerge che la Gdf propone di tassare il salario del frontaliere sempre come reddito di lavoro dipendente, ma secondo le regole previste per i frontalieri fuori fascia e quindi con una tassazione Irpef, al netto della franchigia di legge, scomputando le imposte trattenute in Svizzera. Appare però curioso che prima venga disconosciuto al frontaliere il rapporto di lavoro subordinato, ma poi la proposta di tassazione sia sempre come reddito di lavoro dipendente». Aggiunge che «secondo logica, se non esiste la subordinazione, non può esserci una classificazione di reddito di lavoro dipendente, né come frontaliere di fascia, né come frontaliere fuori fascia. Questi accertamenti possono avere una portata esplosiva per i lavoratori, ma anche nei rapporti tra i due Stati. Inoltre, si pone il problema per i lavoratori italiani di come comportarsi in futuro in quanto, lato Svizzera, il contratto di lavoro è perfettamente legittimo».
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Social usati sull’auto aziendale: sì al recesso
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore lunedì 15 agosto 2022 di Marisa Marraffino
Il giudice conferma che agli autisti è richiesta la massima attenzione
Usare i social network mentre si è alla guida di un veicolo aziendale può costare il licenziamento per giusta causa. Lo ha precisato il Tribunale di Cosenza (giudice Lo Feudo) con la sentenza 1240 pubblicata il 13 luglio scorso, a seguito del ricorso di un conducente di pullman licenziato per avere, in più occasioni, commentato post su Facebook durante un tragitto di lavoro.
A incastrarlo i fogli di viaggio sottoscritti e gli screenshot dei post pubblicati durante il servizio. Inoltre, un altro dipendente aveva reso una dichiarazione scritta in cui riferiva che, dopo la contestazione disciplinare, aveva sentito il collega, che aveva confermato l’addebito, minimizzando la gravità del fatto.
Il conducente aveva tentato di difendersi, eccependo genericamente che a scrivere i post fosse stata la figlia che viaggiava sul pullman con lui, ma la circostanza non aveva trovato riscontri ed era stata anzi smentita dalle altre risultanze istruttorie.
Così, per il Tribunale il licenziamento è giustificato vista la gravità della condotta, che mette a rischio la fedeltà, il rispetto del patrimonio e della reputazione del datore di lavoro. A nulla rileva la circostanza che il datore di lavoro non abbia affisso in bacheca il Codice disciplinare: la violazione delle norme e dei doveri fondamentali del lavoratore è talmente grave che non necessita di ulteriore specifica previsione.
Per il giudice chi guida un mezzo aziendale deve prestare un «grado massimo di attenzione, a protezione dell’incolumità degli utenti del servizio e più in generale della sicurezza della circolazione aziendale».
Il principio si applica a tutti i mezzi aziendali usati per ragioni di servizio e richiama i lavoratori al rispetto delle norme stradali. In caso di infrazioni non si rischiano solo sanzioni amministrative ma anche disciplinari, visto che legittimamente il datore di lavoro ripone nei dipendenti l’affidamento sul rispetto del Codice della strada.
Non è la prima volta infatti che le violazioni del Codice della strada legittimano un licenziamento. Era successo anche a Caltanissetta dove un addetto ai trasporti era stato licenziato, questa volta per giustificato motivo, perché aveva travolto e ucciso un pedone che stava attraversando le strisce pedonali. Nel verbale della polizia municipale il lavoratore aveva dichiarato di non essersi accorto della presenza del pedone perché distratto da una chiamata in arrivo sul cellulare. A prescindere dal fatto che il dipendente avesse risposto o meno al telefono senza auricolari o viva voce, la violazione delle norme di prudenza alla guida del mezzo aziendale è stata ritenuta tale da legittimare di per sé il licenziamento (Tribunale di Caltanissetta, decreto del 14 giugno 2019).
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Operazioni inesistenti di ditte individuali: contestazione in salita
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore lunedì 22 agosto 2022 di Alessandro Borgoglio
Per la Ctp Torino non basta l’assenza di personale, sede e dotazioni strumentali
Il Fisco non può contestare l’inesistenza oggettiva di operazioni fatturate da titolari di ditte individuali, sulla base dell’assenza di dotazione personale e strumentale, di utenze, di locali sede dell’attività e di contratti di assicurazione, data la genericità di tali considerazioni formulate dall’ufficio. A queste conclusioni è pervenuta la Ctp di Torino (presidente Grimaldi e relatore Pierro), con la sentenza 520/1/2022.
Il Fisco aveva contestato a un impresario edile l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti emesse da tre soggetti, alcuni dei quali di nazionalità estera, recuperando a tassazione i relativi costi ritenuti indeducibili. La contestazione dell’ufficio muoveva dal fatto che gli imprenditori individuali non avevano presentato alcuna dichiarazione fiscale, non avevano dipendenti, non avevano alcuna utenza commerciale, non erano proprietari né conduttori di locali a uso commerciale e non avevano stipulato alcun contratto assicurativo o di finanziamento (tranne uno di loro, che aveva speso 220 euro per un’assicurazione contro gli infortuni). A fronte di tale articolato compendio indiziario, l’impresario edile si era limitato a esibire le fatture e i relativi pagamenti.
Secondo il collegio di merito, però, non convince la ricostruzione operata dall’ufficio, fondata sulla indisponibilità di attrezzature e/o personale, senza che sia stato accertato in concreto se il tipo di prestazioni richieste, effettuate e fatturate ne richiedessero l’impiego, atteso che i tre soggetti sono artigiani la cui manodopera è stata impiegata per svolgere l’attività di cantiere. La natura e l’esercizio di queste attività, stante l’articolo 53 Tuir, potrebbe essere qualificata attività artigianale di lavoro autonomo che non richiede per il suo esercizio la disponibilità di beni strumentali, né di personale alle proprie dipendenze. Neppure era poi rilevante – per i giudici torinesi – che i tre soggetti avessero omesso di presentare le dichiarazioni reddituali. Da qui la bocciatura dell’accertamento.
Diversamente, per la consolidata giurisprudenza di legittimità, in caso di ripresa per operazioni oggettivamente inesistenti, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva, del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, e successivamente spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; il Fisco, per assolvere al suo onere probatorio, può avvalersi anche di elementi indiziari e presuntivi, consistenti nell’assenza di personale (Cassazione 36749/2021) e nella mancanza di una struttura organizzativa (Cassazione 28451/2021), non potendo la prova contraria del contribuente consistere nella esibizione delle fatture o dei mezzi di pagamento (Cassazione 10568/2022, 25079/2021, 15217/2021, 12303/2021).
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Via libera al Dl Semplificazioni: registri contabili solo telematici
12 Settembre 2022
Il Sole 24 Ore 3 agosto 2022 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce
Ieri l’ok definitivo al Senato con 168 voti favorevoli, 23 contrari e 2 astenuti
Operazioni da comunicare nell’esterometro con soglia di 5mila euro
La conversione del Dl 73/2022 (ieri l’ok definitivo dell’Aula del Senato con 168 voti favorevoli, 23 contrari e 2 astenuti) contiene importanti novità in materia di fisco telematico e di obblighi collegati alla gestione informatica dei registri contabili. In particolare, per i registri contabili, gli stessi si considerano regolarmente tenuti e conservati con sistemi elettronici anche se non trasposti su supporti cartacei ovvero se non versati a un sistema di conservazione elettronica a norma, a condizione che il contribuente a richiesta degli organi di verifica provveda a stamparli dimostrando di averli aggiornati secondo le regole imposte dalle regole fiscali.
Inoltre, per quanto riguarda gli obblighi, molto importante è l’introduzione di una soglia di 5.000 euro, per le operazioni che pur essendo carenti del requisito territoriale (articoli da 7 a 7 octies del Dpr 633/72), andrebbero comunicate con l’esterometro. In pratica tali operazioni (limitatamente al lato passivo) per importo non superiore alla soglia sono state escluse dall’adempimento.
Entrambe le previsioni perseguono un principio di semplificazione e sono sostanzialmente in linea con lo scopo del legislatore di far si che i registri e la dichiarazione Iva siano in futuro creati e precompilati dalle Entrate in forza delle informazioni che vengono acquisite con fatture elettroniche, corrispettivi telematici e operazioni con l’estero. Entrambe le previsioni, però, per motivi diversi aprono dei profili di criticità operativa che non possono essere fin da subito sottaciuti.
Registri tenuta e conservazione
L’intervento del legislatore consiste in una modifica dell’articolo 7, comma 4 quater del decreto 357/1997 in cui viene espressamente indicato che i soli registri contabili (libro giornale, libro degli inventari, registri prescritti ai fini Iva) possono essere tenuti e archiviati elettronicamente senza trasposizione su stampa ovvero senza attivazione del relativo processo di conservazione a norma secondo le regole previste dal Cad e dai connessi regolamenti di attuazione quindi anche oltre la scadenza dei tre mesi dal termine di presentazione della dichiarazione dei redditi a condizione che a richiesta dei verificatori vengano stampati su supporto cartaceo.
Deve essere chiaro che la nuova regola che, in qualche modo disattende le interpretazioni fornite nel tempo dalle Entrate, riguarda solo i registri e non gli altri documenti che non essendo inclusi nella disposizione devono rispettare le normali regole di conservazione. Si pensi alle fatture elettroniche che, per legge devono essere conservate in modalità elettronica ovvero i contratti e i documenti a rilevanza fiscale che non configurandosi quali registri contabili non possono essere conservati in modalità elettronica senza essere debitamente stampati ovvero conservati elettronicamente.
Esterometro
L’articolo 12 del Dl 73/2022, come modificato in sede di conversione, estende il novero delle operazioni con clienti e fornitori non residenti escluse dall’obbligo di comunicazione dei dati, cosiddetto esterometro.
Si amplia, infatti, il novero delle operazioni per le quali non sussiste l’obbligo di esterometro, ricomprendendovi non solo quelle già oggetto di certificazione fiscale con dichiarazione doganale o con fattura elettronica in formato xml transitata da SdI, ma anche quelle che non solo non rilevano a fini Iva in Italia per carenza del requisito territoriale ma che, per singola operazione, non superano i 5.000 euro. Si tratta di quelle operazioni non rilevanti territorialmente in Italia, e cioè di acquisti di beni e prestazioni di servizi da un fornitore estero e che, di conseguenza, non determinano la necessità di adempiere all’obbligo di integrazione del documento passivo ricevuto o di emissione di una autofattura. Le operazioni interessate sono, ad esempio, quelle relative a immobili all’estero, ovvero acquisti di carburanti o pernottamenti all’estero.
Anche in questo caso l’esistenza di una soglia (anche se per lo più sufficientemente elevata) comporta l’obbligo per il contribuente di distinguere le operazioni da segnalare da quelle da escludere che per un sistema completamente automatizzato crea sicuramente un’alternativa da gestire con ulteriore interventi gestionali.
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Le criptovalute favoriscono l’autoriciclaggio
5 Agosto 2022
Il Sole 24 Ore 14 luglio 2022 di Giovanni Negri
La Cassazione sottolinea l’opacità delle transazioni per il grado di anonimato
La fisionomia del sistema di acquisto di bitcoin «si presta ad agevolare condotte illecite», visto che consente di assicurare un grado elevato di anonimato. Via libera quindi alla custodia cautelare per truffa e autoriciclaggio.
Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza 27023 della Seconda sezione penale depositata ieri. Nel confermare la misura cautelare anche per il reimpiego dei proventi dei delitti di truffa aggravata in attività speculative come l’acquisto di criptovalute la Corte ha così respinto il ricorso della difesa con il quale si sosteneva che le operazioni non avevano finalità speculative e che, in ogni caso, le regole del mercato di riferimento non permettono di nascondere l’identità dell’acquirente perché sono improntate alla massima trasparenza.
La Cassazione tuttavia non è stata di questo parere e ha innanzitutto affermato che l’indicazione normativa fornita dall’articolo del Codice penale sull’autoriciclaggio (648 ter.1) sulle attività in cui il denaro frutto del reato presupposto può essere impiegato o trasferito non costituisce un elenco formale, ma piuttosto individua delle macroaree, tutte collegate dalla caratteristica dell’impiego finalizzato a ottenere un utile, inquinando in questo modo il circuito economico. In questa prospettiva nella nozione di «attività speculative» può essere ricondotta una pluralità di attività.
Per quanto riguarda le valute virtuali, la sentenza sottolinea che queste possono essere utilizzate per scopi diversi dal pagamento e comprendere prodotti di riserva di valore per obiettivo di risparmio e di investimento. E allora , a differenza di quanto sostenuto dalla difesa che aveva valorizzato in termini di trasparenza le registrazioni sulla blockchain e sul distribuited ledger, è invece possibile garantire il massimo «anonimato (sistema permissionless), senza previsione di alcun controllo sull’ingresso di nuovi “nodi” e sulla provenienza del denaro convertito».
Inoltre, afferma la Cassazione, che è «ormai noto» il numero elevato di criptovalute utilizzate nel darkweb proprio per le caratteristiche di opacità: alcune di esse, soprattutto per l’uso di tecniche crittografiche avanzate garantiscono infatti un eccellente grado di privacy sia con riferimento alla persona dell’utente sia in rapporto all’oggetto delle compravendite.
Del resto, la disciplina antiriciclaggio ha provato a fare fronte alla nuova situazione anticipando la V direttiva in materia di criptovalute, valute virtuali e destinatari degli obblighi di prevenzione, affiancando queste misure a quelle penali previste dal Codice su riciclaggio e autoriciclaggio.