Categoria: Dall’Italia
Esterometro per acquisti e cessioni con soggetti non stabiliti in Italia
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 16 febbraio 2023 di Alessandro Mastromatteo
MONITORAGGIO
Restano escluse le operazioni documentate con bolletta doganale di import o export e con fattura elettronica inviata tramite Sdi
Esterometro per tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi verso e da soggetti non stabiliti nel territorio dello Stato, senza ulteriori limitazioni: ai fini della trasmissione dei relativi dati occorre guardare solamente al fatto che il soggetto, cliente o fornitore, non sia stabilito in Italia.
L’invio delle informazioni prescinde anche dalla natura della controparte estera, nonché dal fatto che l’operazione realizzata rilevi o meno a fini Iva nel territorio nazionale. La trasmissione dei dati con l’estero costituisce infatti un obbligo comunicativo: non risponde pertanto a finalità di controllo delle operazioni rilevanti a fini Iva effettuate tra soggetti passivi ma, al contrario, è funzionale esclusivamente al monitoraggio di acquisti o cessioni e prestazioni di servizi nelle quale una delle due parti risulta essere “estera”. Devono perciò essere comunicate tutte le operazioni con controparti non stabilite in Italia, con le uniche esclusioni di natura oggettiva individuate per espressa previsione normativa: l’obbligo di esterometro non deve essere assolto quando acquisto, cessione o prestazione risultano documentate con bolletta doganale, di importazione o esportazione, o anche con l’emissione o la ricezione tramite Sdi (Sistema di interscambio) di una fattura elettronica.
Restano quindi escluse anche le operazioni da e verso la Repubblica di San Marino quando documentate con fattura elettronica emessa o ricevuta tramite Sdi, analogamente alle cessioni nei confronti di viaggiatori extra-Ue ex articolo 38-quater del Dpr 633/72, documentate con fattura elettronica (tax free shopping) trasmessa mediante il sistema Otello 2.0.
L’esclusione opera, infine, anche in presenza di acquisti di beni e servizi non rilevanti territorialmente ai fini Iva in Italia, ai sensi degli articoli da 7 a 7-octies del Dpr 633 del 1972, quando di importo inferiore, per singola operazione, a 5mila euro, comprensivo dell’eventuale imposta: si tratta di fattispecie molto frequenti quali, ad esempio, le spese sostenute all’estero per alberghi o ristoranti, rifornimenti di carburante, noleggi di autovetture, voli aerei esteri. Al contrario le medesime operazioni territorialmente non rilevanti, ma di importo superiore alla soglia indicata, andranno comunque comunicate al fisco con l’esterometro sebbene anch’esse non costituiscano oggetto di registrazione.
Come indicato dall’agenzia delle Entrate con la circolare n. 26/E del 13 luglio 2022, e da ultimo con le risposte a specifici quesiti nel corso di Telefisco2023 (si veda articolo in pagina), la comunicazione dei dati delle operazioni da e verso l’estero impatta anche nella realizzazione di una serie di adempimenti a fini Iva quali le integrazioni ovvero le autofatture per operazioni con l’estero.
Più nello specifico, per quanto riguarda il ciclo passivo estero, la trasmissione dei tipi documento TD17, TD18 e TD19, unitamente alle ricevute generate da Sdi al momento del loro invio/ricezione, costituisce prova dell’avvenuta trasmissione e di adempimento dell’obbligo dell’esterometro come previsto dall’articolo 1, comma 3-bis, del Dlgs 127 del 2015. Le Entrate hanno precisato infatti come l’esterometro, da un lato, e gli obblighi di integrazione di un documento ricevuto e di autofatturazione, dall’altro, costituiscono adempimenti autonomi.
Non vi è infatti un obbligo di assolvere ai doveri di integrazione/autofatturazione mediante la procedura di trasmissione dei dati tramite file xml utilizzando i tipo documento TD17, TD18 e TD19: integrazione o autofattura potrebbero anche avvenire in forma analogica. Tuttavia, il mancato/tardivo invio dei dati attraverso l’esterometro costituisce violazione sanzionabile.
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Russia nella black list Ue: stretta sui costi deducibili
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 15 febbraio 2023 di Luca Gaiani
Scattano i vincoli reintrodotti dalla manovra 2023
Monitoraggio sui prezzi per verificare la conformità al valore normale
La Russia entra nella lista dei Paesi non collaborativi che fa scattare la deducibilità limitata dei costi provenienti da fornitori ivi domiciliati introdotta dalla legge di Bilancio 2023 (si veda anche il servizio a pagina 14). A partire da ieri, scattano nuovi vincoli anche per Costa Rica, Isole Vergini Britanniche e Isole Marshall.
L’articoli 110, commi 9-bis e seguenti, del Tuir, come modificato dalla legge 197/2022, stabilisce che i costi e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni con fornitori domiciliati in Paesi o territori inclusi nella lista delle giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali redatta dalla Ue sono deducibili limitatamente al valore normale (articolo 9 del Tuir).
La norma, entrata in vigore dal 1° gennaio 2023, non ha una specifica decorrenza e dovrebbe dunque applicarsi dall’esercizio che ha inizio a partire da tale data (periodo di imposta 2023 per le società con esercizio coincidente con l’anno solare). Il vincolo introdotto dalla disposizione può essere disapplicato, deducendo importi anche superiori al valore normale, solo qualora l’impresa italiana fornisca al fisco la prova che le operazioni, oltre ad avere avuto concreta esecuzione, rispondono ad un effettivo interesse economico.
Una ulteriore deroga è prevista per operazioni con fornitori black list che sono società controllate dell’impresa italiana a cui si applica la norma Cfc prevista dall’articolo 167 del Tuir e dunque il cui reddito viene imputato per trasparenza in capo al socio italiano.
Anche rispettando il limite del valore normale, i componenti reddituali derivanti da operazioni con fornitori black list dovranno essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi. La mancata o incompleta indicazione di tali spese, anche in presenza dei requisiti per la loro integrale deduzione, farà scattare una sanzione estremamente pesante (articolo 8 comma 3-bis del Dlgs 471/1997) pari al 10% delle spese stesse, con un minimo di 500 e un massimo di 50 mila euro.
I Paesi a cui si applica la disposizione sono quelli contenuti nella lista degli Stati non cooperativi ai fini fiscali aggiornata periodicamente dal Consiglio d’Europa. Con un comunicato diffuso ieri, la Ue ha inserito nell’elenco quattro nuovi Stati: Russia, Isole Vergini Britanniche, Costa Rica e Isole Marshall, che si aggiungono ai dodici già presenti: Samoa Americane, Anguilla, Bahamas, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Turks e Caicos, Isole Vergini Americane e Vanuatu.
Con riferimento ai fornitori domiciliati in Russia e negli altri tre nuovi Paesi non collaborativi, la norma dovrebbe applicarsi solo per le operazioni effettuate dal 14 febbraio 2023, data di aggiornamento della lista (cioè per i costi sostenuti in base alle regole di competenza da tale giorno).
Le imprese interessate dovranno dunque tempestivamente aggiornare i propri sistemi di monitoraggio dei costi provenienti da tali fornitori, verificando altresì la conformità dei relativi prezzi al valore normale, onde poterli indicare separatamente nei prospetti che saranno contenuti nelle dichiarazioni del 2024.
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Marchi contraffatti e vendite online: Corte Ue più severa con le piattaforme
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Gianluca De Cristofaro Matteo Di Lernia
Per i giudici il portale internet può rispondere per le vendite di terzi
Dirimente il fatto che l’utente ritenga il provider coinvolto nel commercio
Il gestore di una piattaforma e-commerce risponde per l’uso illecito del marchio altrui se le attività svolte sulla piattaforma inducono un utente normalmente informato e ragionevolmente attento a ritenerlo direttamente coinvolto nella vendita dei prodotti, anche se i prodotti sono venduti da soggetti terzi. La Corte di giustizia Ue (cause riunite C-148/21 e C-184/21) con la decisione del 22 dicembre scorso ha, per la prima volta, ritenuto fondamentale la percezione dell’utente della piattaforma al fine di riconoscere un ruolo attivo ai provider. Una direzione sempre più seguita dai giudici italiani.
Gli annunci di terzi
La Maison Louboutin ha agito per contraffazione nei confronti di Amazon (prima davanti al Tribunale circoscrizionale di Lussemburgo e poi al Tribunale del commercio di Bruxelles) poiché riteneva che gli annunci di venditori terzi relativi a scarpe con suole rosse violassero il marchio “suola rossa” con cui contraddistingue le proprie calzature a tacco alto con una suola rossa (codice 18.1663TP della scala colori Pantone). Secondo Louboutin la piattaforma svolgeva un ruolo attivo nell’uso del marchio “suola rossa”, permettendone la visualizzazione e, inoltre, avendo detenuto, spedito e consegnato i prodotti.
Di contro Amazon ha ribadito il suo ruolo di mero gestore di un mercato online, esente da responsabilità per gli annunci di venditori terzi (articolo 14 della Direttiva 2000/31 Ce).
I giudici di entrambi i tribunali hanno considerato che la piattaforma:
nella comunicazione commerciale presenta le pubblicità, proprie e di terzi, in modo uniforme/analogo, senza distinzione sulla loro origine e tramite l’accostamento del suo marchio a quello del rivenditore;
offre servizi complementari di stoccaggio e spedizione dei prodotti.
Si sono poi chiesti se dovesse essere presa in considerazione anche la percezione degli utenti della piattaforma. Per entrambe le questioni i giudici hanno quindi effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
La responsabilità del provider
La Corte Ue ha innanzitutto ricordato l’orientamento tradizionale, secondo il quale l’uso di un marchio altrui in offerte di vendita in un mercato online non è di per sé riconducibile al gestore della piattaforma, poiché non si tratta di una sua comunicazione commerciale (C-324/09, L’Oréal; C-567/18, Coty c. Amazon).
Tuttavia, secondo la Corte, bisogna considerare lo specifico contesto delle condotte della piattaforma. A questo riguardo, per la prima volta la Corte ha stabilito che debba essere tenuta in considerazione la percezione che gli utenti hanno dell’attività svolta dal provider sulla piattaforma.
La Corte ha, quindi, per la prima volta, stabilito il principio per cui la percezione dell’utente mediamente informato della piattaforma rileva ai fini di verificare la responsabilità di quest’ultima. In particolare, secondo la Corte, le condotte del gestore di una piattaforma online rilevano ai fini di una sua responsabilità qualora l’utente abbia l’impressione che sia proprio il gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, anche i prodotti offerti in vendita dai venditori terzi.
Con riguardo alle specifiche condotte tenute dalla piattaforma e identificate dai giudici del rinvio, la Corte ha stabilito che le stesse rilevano ai fini dell’indagine dell’impressione generata negli utenti.
Questa sentenza costituisce quindi una stretta da parte della giurisprudenza Ue sulla responsabilità degli hosting provider già più volte affermata in Italia con decisioni che sempre più di frequente escludono il ruolo meramente “passivo” delle piattaforme e le considerano responsabili. Con la sentenza del 10 agosto 2022, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto Vimeo un hosting provider “attivo” in quanto organizzava e sfruttava i contenuti immessi in rete selezionandoli, indirizzandoli, correlandoli, associandoli ad altri. Sempre nel 2022 il Tribunale di Milano (ordinanza del 15 febbraio) ha attribuito un ruolo attivo alla piattaforma Farfetch in ragione dei servizi di promozione, conclusione dei contratti, organizzazione della consegna e assistenza clienti.
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Obbligo di indicazione nel quadro RW dal 2023 e senza minimo di legge
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Stefano Capaccioli e Dario Deotto
Prima della manovra le Entrate avevano richiamato le sole valute
Anche le disposizioni della legge di Bilancio 2023 relative al monitoraggio fiscale e alla “emersione” delle cripto-attività generano dubbi.
Il primo di questi è legato al fatto che (solo) a partire dal 2023 viene stabilito che le criptoattività devono essere dichiarate nel quadro RW. Il problema è l’aspetto sanzionatorio in caso di inadempimento. Come più volte si è riportato su queste pagine, l’articolo 5 del Dl 167/1990 individua le penalità in ragione dell’ubicazione territoriale delle attività (Paesi non black list, sanzione dal 3 al 15% delle attività non dichiarate, mentre per i Paesi black list la sanzione è raddoppiata). Il fatto è che, perlomeno quando il contribuente non ricorre a intermediari, disponendo egli stesso del wallet, si è in presenza di fenomeni che sono affrancati da un territorio, per cui è di difficile individuazione il trattamento sanzionatorio, essendo quest’ultimo, come si è visto, radicato a un territorio “fisico”. Si auspica, quindi, che l’annunciata riforma del sistema sanzionatorio, disciplini espressamente questi fenomeni.
Un’altra perplessità è come possa trovare giustificazione una sanatoria per il passato (commi 138 e seguenti) a fronte di un obbligo di legge che viene inserito per la prima volta dal 2023. In passato, vi sono stati solo interventi di prassi (poi anche le istruzioni al modello) che hanno riportato la necessità di indicazione nel quadro RW, peraltro delle sole valute virtuali, ma la norma non disponeva tale obbligo. Tant’è che esso viene stabilito solo oggi. Tra l’altro la norma stabiliva, come d’altronde ora, che solo quando le attività detenute all’estero risultano «suscettibili di produrre reddito imponibili in Italia» le si doveva indicare nel quadro RW. E stante l’assimilazione – fatta in passato dalla prassi – delle valute virtuali con le valute estere, in molti casi (quando la giacenza media era inferiore a 51.645 euro per almeno 7 giorni lavorativi) la stessa Agenzia aveva riportato che le criptovalute non determinavano obblighi reddituali. Con la conseguenza– per la normativa riferita alle valute estere – che non si era in presenza di attività «suscettibili di produrre reddito imponibile in Italia».
Senza contare, come detto, che l’obbligo di indicare nel quadro RW era stato affermato dalle Entrate per le sole valute virtuali, mentre ora la legge lo impone per tutte le criptoattività, senza un minimo di legge.
In questo contesto appare meno rilevante anche il fatto che se si vuole aderire alla sanatoria per il passato anche ai fini reddituali (pagando il 3,5% sul valore delle attività, oltre allo 0,5%) la medesima prassi aveva detto (interpello 788/2021) che le operazioni crypto su crypto relative a valute virtuali, quando la giacenza media risultava superiore a 51.645 euro per sette giorni lavorativi continui, si dovevano considerare rilevanti, mentre ora non lo sono.
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Proprietà industriale, condannati importatori paralleli e distributori
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2023 di Alessandro Galimberti
Il Tribunale di Roma condanna l’intera rete di vendita di un marchio Usa
Respinta l’eccezione di «esaurimento»: smercio mai autorizzato né tollerato
MILANO
Importatori e venditori al dettaglio condannati in solido per importazione parallela di un noto marchio di abbigliamento. Il Tribunale delle imprese di Roma (sentenza 18090/22) ha risolto in questo modo il contenzioso tra Ralph Lauren e una «articolata struttura» per l’importazione non autorizzata nello spazio economico europeo (See) di decine di migliaia di articoli di abbigliamento con il celebre marchio raffigurante un’azione di polo. Secondo l’azienda – rappresentata a giudizio dai legali Gian Paolo Di Santo e Gabriele Girardello – la merce venne acquistata negli outlet degli Usa tra il 2013 e il 2018 all’insaputa del titolare del marchio, importata poi in Europa grazie a una struttura commerciale che verteva su società americane compiacenti e, in Italia, terminali societari che smistavano a distributori regionali, basati a loro volta nel Lazio ma con diffusione in tutt’Italia. Prodotti originali e non contraffatti quelli oggetto di disputa, quindi, con la contestazione dell’illecito relativa solo all’importazione parallela.
Nella loro difesa, le due principali convenute avevano fatto riferimento al principio dell’«esaurimento comunitario», nello specifico la possibilità di rivendere prodotti già messi in commercio in un paese Ue dal titolare dei marchi. Tuttavia, ha sottolineato il Tribunale capitolino, l’esaurimento comunitario (articoli 7 della Direttiva 2008/95/Ce, 15 del Regolamento Ue 1001/2017 e articolo 5 del Codice della proprietà industriale) opera solo se il titolare del marchio mette in commercio direttamente o presta il consenso all’importazione/immissione nello spazio europeo, dovendo l’autorizzazione essere espressamente rilasciata dal titolare o, se tacita, desumibile da elementi incontrovertibili e verificabili (sentenza nella causa C-337/95). L’istruttoria ha portato i giudici ad escludere il coinvolgimento nelle asserite trattative di soggetti apicali di RL «idonei ad esprimere un valido consenso all’esportazioni di prodotti al di fuori dei normali circuiti di distribuzione selettiva», e ha rilevato che un ulteriore «elemento di sicura riconoscibilità da parte dei terzi rivenditori della provenienza illecita dei beni è dato dal prezzo di acquisto»: i distributori vendevano alla propria rete parallela una t-shirt Ralph Lauren con il 30% di ribasso rispetto ai rivenditori accreditati, con il prezzo finale al dettaglio che sfiorava il 50% di (illecito) sconto per il consumatore.
Nel dispositivo i giudici hanno inflitto alle due importatrici la condanna a complessivi 3 milioni di euro di risarcimento e di oltre 600mila euro totali ai 12 dettaglianti, che non potevano non sapere: il marchio Usa è diverso da quello presente in Europa.
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La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Raffaele Rizzardi
MERCI
Un quesito di interesse generalizzato per le imprese italiane che hanno merce in deposito all’estero è stato presentato in occasione della giornata di Telefisco e ha ricevuto una risposta dettagliata.
Non si tratta del call-off stock, in cui il cliente deve essere individuato sin dal momento in cui la merce esce dall’Italia, con particolari procedure nel caso in cui i beni dovessero poi andare ad un successivo diverso soggetto.
La questione riguarda invece chi ha merce all’estero, destinata alla vendita a una possibile pluralità di clienti del Paese di deposito.
Questa modalità di consegna è particolarmente interessante in termini commerciali, in quanto la cessione al cliente finale non è più una cessione intracomunitaria, con tutti i relativi adempimenti, ma una cessione interna con l’imposta di quel Paese. Se poi lo Stato membro, come l’Italia (articolo 17, secondo comma, della legge sull’Iva) ha recepito la facoltà dell’articolo 194 della vigente direttiva 2006/112/Ce, il cliente non deve nemmeno finanziare l’Iva da pagare al fornitore, in quanto l’assolvimento del tributo avviene in regime di reverse charge.
La cessione intracomunitaria è solo quella che l’impresa fa a se stessa, dalla partita Iva italiana a quella di cui deve dotarsi nello Stato di deposito (in alcuni si può utilizzare l’identificazione del depositario), come previsto dall’articolo 41, comma 2, lettera c).
Per questa operazione viene emessa una fattura, che quindi è caricata nello SdI, con la natura N3.2, non imponibili – cessioni intracomunitarie – con partita Iva estera e codice destinazione dell’emittente, e che quindi confluirà nella dichiarazione annuale al codice VE30-3, concorrente al volume d’affari.
La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana. La risposta dell’agenzia delle Entrate ipotizza la fatturazione ex articolo 21, comma 6-bis, lettera a), legge Iva, che peraltro riguarda solo clienti domiciliati nella Unione e solo se quel Paese ha recepito la facoltà – non obbligo – dell’articolo 194 della direttiva.
Il tema deve essere approfondito se lo Stato estero non ha recepito la norma sopra ricordata, e quindi la fatturazione è in questo caso imponibile solo nell’Iva locale. Per la merce depositata in territorio extra-unionale, il riferimento è sempre al comma 6-bis, ma nella lettera b).
A questo punto si aggancia il tema dell’esterometro – articolo 1, comma 3-bis, del decreto legislativo 127/2015 – che obbliga a comunicare tutte le operazioni con una controparte non residente.
La risposta riconosce l’inesistenza di obblighi di fatturazione secondo le disposizioni della legge Iva, ma occorre emettere la fattura solo per poter caricare l’importo nello SdI con mera funzione di esterometro.
L’emissione di questa fattura – anche se “fuori campo” – trasferisce l’importo nel quadro VE della dichiarazione – nella specie VE34 – e quindi raddoppia lo stesso volume d’affari già esposto in VE30. Questo anomalo incremento deve essere corretto, ed al riguardo c’è una strada molto semplice, che va ovviamente convalidata dall’agenzia delle Entrate.
Cos è la fatturazione a se stessi per il rifornimento del deposito estero? Evidentemente quella di un passaggio interno. Queste operazioni devono essere espunte dal volume d’affari, come dispone l’articolo 20 della legge Iva, che al momento fa esplicito riferimento a queste operazioni solo nel caso di contabilità separata (articolo 36 legge Iva).
Al riguardo si potrebbe utilizzare la voce VE40, che porta in sottrazione i passaggi interni. Un’interpretazione sistematica, in attesa di una modifica normativa sul punto, dovrebbe essere considerata possibile.
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Reato in concorso del Cda se mancano le deleghe e se nessuno dissente
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Illeciti tributari. La Gdf applica l’orientamento severo della Cassazione La presunzione s’interrompe solo con una dichiarazione specifica sul punto
Del reato tributario, in assenza di specifiche deleghe, rispondono tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salva l’ipotesi in cui qualcuno abbia espressamente esternato il proprio dissenso. Se invece sussistono specifiche deleghe ad uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri delegati. A fornire questa interpretazione, in completa adesione con i principi della Suprema Corte, è la Guardia di Finanza in risposta a una domanda proposta in occasione di Telefisco 2023.
Più in particolare, è stato richiesto in che misura siano responsabili per le violazioni tributarie penalmente rilevanti i membri del cda, in assenza di deleghe. La Gdf ha, innanzitutto, ricordato che secondo il criterio seguito dal legislatore le condotte delittuose devono essere ascritte in capo ai soggetti ritenuti responsabili dell’illecito. In ambito societario, occorre a tal fine un attento esame delle funzioni svolte in aderenza al modello organizzativo adottato o dei poteri esercitati onde individuare i responsabili delle violazioni. Ne consegue che per i delitti dichiarativi, la verifica deve considerare l’esistenza di persone fisiche munite dei relativi poteri di rappresentanza in base agli statuti o alla legge.
La Gdf ha richiamato una sentenza della Suprema corte (Cassazione 11087/2022) secondo la quale per gli illeciti tributari posti in essere da un consiglio di amministrazione privo di specifiche deleghe, la responsabilità grava solidalmente su tutti i suoi componenti. Fa tuttavia eccezione, l’ipotesi in cui uno o più componenti espressamente esternino il proprio dissenso al compimento di una determinata operazione.
Qualora, invece, specifiche materie siano attribuite a uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati. La Gdf ha tuttavia precisato che resta comunque ferma l’applicabilità dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.
In tale contesto, la Guardia di Finanza (rispondendo ad altro quesito) ha fornito chiarimenti sulla responsabilità del legale rappresentante nell’ipotesi in cui esista una delega ad un terzo amministratore per la sottoscrizione della dichiarazione.
Secondo la Gdf in capo al delegato è ascrivibile, in prima battuta, l’eventuale reato dichiarativo, fermo restando che altri soggetti diversi dal materiale sottoscrittore della dichiarazione possano concorrere nel reato (Cassazione 50201/2015).
Infatti, laddove venga accertato che il delegato abbia tenuto la condotta penalmente rilevante perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni dal rappresentante legale ovvero in attuazione di un accordo con lo stesso, quest’ultimo risponderà del reato tributario a titolo di concorso (Cassazione 18827/2019).
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Amministratore di fatto, serve la prova rafforzata
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 24 gennaio 2023 di Dario Deotto Luigi Lovecchio
Va dimostrato che la società svolge una funzione servente al dominus
Nel mirino emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
Ai fini dell’irrogazione della sanzione tributaria all’amministratore di fatto di una società di capitali non basta la circostanza che la società abbia utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Occorre invece la prova che la società svolga una funzione passiva, meramente servente all’utilità ricavata dall’amministratore. Il principio di diritto è stato affermato dalla Corte di cassazione, nella sentenza n. 1946, depositata ieri.
La questione involgeva una contestazione di emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. In particolare, si era in presenza di una società cartiera, a monte, che aveva emesso delle fatture soggettivamente inesistenti utilizzate a valle da una società, della quale era stato ritenuto amministratore di fatto il signor XY, ricorrente in Cassazione. L’ufficio dell’agenzia delle Entrate, sulla base delle circostanze rappresentate, per un verso, dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da parte della società rappresentata, e, sotto altro profilo, dalla qualificazione come amministratore di fatto del signor XY, ha ritenuto di potere irrogare la sanzione tributaria, in solido, tanto alla società che all’amministratore di fatto.
La Corte di cassazione ha al riguardo ricordato che, ai sensi dell’articolo 7 del Dl 269/2003, per le violazioni imputabili a enti dotati di personalità giuridica, quali le società di capitali, la sanzione è irrogabile unicamente all’ente. Questo in espressa deroga al principio di personalità dell’autore della violazione, sancito nell’articolo 11 del Dlgs 472/1997. Tale criterio, ricorda sempre la Corte, perde tuttavia efficacia ogni qualvolta l’amministratore di società abbia agito per perseguire i propri personali interessi, di modo che la violazione commessa abbia prodotto benefici o utilità a suo favore, e non a favore dell’ente rappresentato. Ciò accade, normalmente, nelle ipotesi degli amministratori di società cartiere, nelle quali non è ravvisabile una effettiva sostanza economica. Tali società, infatti, si risolvono in un mero strumento fittizio attraverso il quale il dominus o amministratore di fatto consegue dei profitti illeciti.
Lo stesso però non vale di fronte a una società che utilizza fatture per operazioni inesistenti che ben potrebbe avere una sua vitalità. Né può ritenersi sufficiente il fatto che attraverso le fatture contestate la società acquirente abbia conseguito, secondo la Corte, degli indebiti risparmi d’imposta, atteso che questa è una connotazione inevitabile dell’illecito in questione che, di per sé, tuttavia non prova la fittizietà della società. Tutt’al contrario, il vantaggio fiscale eventualmente ottenuto dal soggetto partecipato potrebbe dimostrare che l’amministratore di fatto abbia agito a beneficio della società, e non personale. La Cassazione rileva pertanto che l’amministrazione finanziaria deve provare, anche attraverso presunzioni, che la società non sia «vera» o che rappresenti uno strumento artificioso costruito al solo scopo di dissimulare i reali interessi del dominus.
Osserva da ultimo la Cassazione come la condotta dell’Ufficio appaia altresì insanabilmente contraddittoria, rispetto alla tesi sostenuta, nella parte in cui esso irroga la sanzione, in via solidale, tanto alla società che all’amministratore di fatto. Ed invero, delle due l’una: o la società è fittizia, poiché l’unico contribuente è l’amministratore, ed allora la stessa non può essere sanzionata, oppure la società è “viva” ma allora non si può sanzionare l’amministratore di fatto.
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Bancarotta documentale se l’hard disk si rompe
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 23 gennaio 2023 di Sandro Guerra
Per la Cassazione non è una scusante: necessario fare backup e stampe
I libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento, o che siano richiesti dalla natura o dalle dimensioni dell’impresa, possono essere formati e tenuti con strumenti informatici (articolo 2215-bis del Codice civile), ma l’eventuale crash del sistema può costare caro all’imprenditore.
Lo ha ribadito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 45044, depositata il 25 novembre 2022, dichiarando inammissibile – in questa parte – il ricorso relativo ad una condanna per bancarotta semplice documentale.
Nel caso in esame i libri contabili di cui la curatela non era entrata in possesso erano conservati su supporto informatico, divenuto tuttavia inaccessibile per un malfunzionamento del dispositivo
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Frontalieri, l’accordo fiscale arriva al Senato
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2023 di Marco Alfieri
Oggi prima ratifica dell’intesa che entro maggio avrà l’ok definitivo della Camera
Sul confine Italia-Svizzera. Negli ultimi vent’anni i frontalieri italiani in Canton Ticino (nella foto la dogana di Ponte Chiasso) sono passati da 32mila a 77.700
Al sabato, fino a metà anni Novanta, arrivavano a Ponte Tresa i pullman dalla Svizzera interna. Al mercato dietro la chiesa si trovava cibo per tutti i gusti, abbigliamento, articoli per la casa. Grazie al franco, moneta forte per eccellenza, sembrava di non spendere mai. Oggi la tradizione del mercato si è un po’ persa (in compenso hanno aperto supermercati vicini alla dogana, tutti frequentati da svizzeri), quel che resiste e prospera è invece l’approdo del lavoro oltreconfine, dove si guadagna bene e si pagano poche tasse.
Negli ultimi vent’anni i frontalieri italiani in Canton Ticino sono passati da 32mila a 77.700. Il boom è cominciato negli anni Cinquanta quando molte aziende s’insediavano grazie allo statuto del frontaliere che consentiva di procurarsi manodopera a costi ridotti in settori non concorrenziali con i lavoratori residenti: edilizia, ristorazione, tessile, turismo e metalmeccanica.
Insieme al boom nascono i problemi. Da un lato il rischio di una doppia imposizione fiscale, dall’altro l’arrivo nei comuni di frontiera di molti migranti dal sud Italia, alla ricerca di una occupazione in Svizzera. «L’Accordo del 1974 tra Roma e Berna è la risposta efficace a queste tensioni», ragiona Cecilia Sanna, docente di Diritto dell’Unione europea alla Statale di Milano e figlia di Antonio Sanna, storico sindaco di Ponte Tresa, che di quell’accordo fu l’inspiratore. «La Svizzera aveva bisogno di manodopera ma non voleva stranieri residenti sul territorio; i comuni di frontiera avevano bisogno di soldi per finanziare i servizi di base e far fronte alla ondata migratoria. Nascono così i ristorni sulle remunerazioni dei frontalieri residenti nei comuni di confine».
Ristorno è la parola magica che si accompagna alla figura del frontaliere, basti dire che nel 2021 i rimborsi fiscali ammontano a 97,2 milioni di franchi svizzeri.
A fine anni Novanta lo scenario cambia un’altra volta. «Fino al 1999 la Svizzera faceva selezione in entrata, proteggendo il “suo” mercato del lavoro. Siglando gli accordi europei di libera circolazione, in vigore dal 2002, questo non è stato più possibile», spiega Andrea Puglia, responsabile ufficio frontalieri dell’Ocst, il sindacato cristiano-sociale ticinese. L’effetto è duplice: il boom di assunzioni frontaliere anche nel terziario avanzato e l’insediamento di molte aziende italiane, attirate da incentivi fiscali e burocrazia leggera, nel campo dell’informatica, dei servizi digitali, della moda, della chimica e della farmaceutica. «Nel terziario si passa da 14mila a 52mila assunti in 20 anni». Più di un terzo dei posti di lavoro totali nel cantone (77mila su circa 210mila) oggi è coperto da frontalieri.
I ticinesi cominciano a soffrire la nuova concorrenza, temono l’afflusso dei “padroncini” lombardi che svolgono le loro attività a costi inferiori e denunciano il dumping salariale. In questo clima politico, Italia e Svizzera firmano un nuovo accordo fiscale nel dicembre 2015. Il bilaterale non vedrà la luce perché mai ratificato dai due parlamenti nazionali. Bisogna aspettare altri 4 anni prima che Roma e Berna tornino a negoziare.
Il nuovo accordo italo-svizzero viene firmato nel dicembre 2020, contestualmente a un memorandum sulla fiscalità interna che coinvolge finalmente i territori interessati. Oggi il Testo Unico verrà ratificato dal Senato italiano e poi, entro maggio, dalla Camera. Per entrare in vigore il 1° gennaio 2024.
Cosa cambierà? Per gli attuali frontalieri residenti nei comuni di fascia 20 chilometri nulla fino alla pensione. Continueranno a pagare le tasse in Svizzera. Per i frontalieri residenti nei comuni fuori fascia e per tutti i nuovi frontalieri assunti a partire dal prossimo anno, vigerà una tassazione concorrente Svizzera-Italia ma con una franchigia fiscale alzata a 10mila euro.
«I ristorni resteranno invece attivi fino al 2033, per venire poi sostituiti da trasferimenti statali di pari importo cui si aggiungerà un fondo per il finanziamento di progetti di sviluppo territoriale», spiega Massimo Mastromarino, sindaco di Ponte Tresa e presidente dell’associazione che riunisce i comuni italiani di frontiera.
L’economia di confine è da sempre un microcosmo fragile. Per esempio: «Come impatteranno le nuove forme di lavoro a distanza?». È l’emergenza di questi giorni: la fine del periodo di sospensione causa Covid dell’obbligo di presenza giornaliera in Svizzera. Dal 1° febbraio 2023, se un frontaliere residente nei comuni di confine farà un solo giorno di telelavoro diventa tassabile anche in Italia. «La situazione va risolta attraverso un accordo amichevole con la Svizzera», spiega Puglia. «Dopo la pandemia le aziende si sono adeguate. Anche i frontalieri devono poterlo fare senza incorrere in implicazioni fiscali».