Decreto Delegato 31 Ottobre 2025 nr 131 – Disposizioni in materia di scambio automatico obbligatorio di informazioni in materia di cripto-attività

8 Novembre 2025

A partire dal 1° gennaio 2026 i soggetti prestatori di servizi in cripto-attività che effettuano operazioni o negoziazioni su piattaforme digitali per clienti o per conto degli stessi, sono soggetti agli obblighi di adeguata verifica e di comunicazione previsti dagli articoli 3, 4 e 5 del Decreto Delegato nr 131.

I soggetti obbligati sono, come indicato all’art. 3  1. comma:

(…) a) un’entità o una persona fisica residente a fini fiscali a San Marino;
       b) un’entità che:
                    1) è costituita od organizzata a norma della legislazione sammarinese e
                   2) ha personalità giuridica a San Marino o ha l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi all’UO Ufficio Tributario di San Marino;
      c) un’entità gestita da San Marino;
     d) un’entità o una persona fisica che ha una sede abituale di attività a San Marino (…)

A decorrere dal periodo d’imposta 2027, chi possiede i requisiti di cui sopra i deve trasmettere una Dichiarazione:
– sia nel caso abbia intrattenuto rapporti con Utenti di Cripto-Attività

– sia che non abbia intrattenuto rapporti (dichiarazione di “nil return”, ovvero di assenza di dati da trasmettere)

– sia nel caso di rapporti con Utenti di cripto-attività non identificati come tali o non classificabili    come persone oggetto di comunicazione.

I dati dovranno essere trasmessi nel formato XML con modalità indicate da apposita Circolare.

Il termine di presentazione è fissato al 30 aprile dell’anno successivo a quello cui le informazioni fanno riferimento.

Per tutti gli interessati si allega il testo completo.

DD131-2025+All

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Buona fede esclusa per chi in dogana non dichiara i contanti

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore 15 Ottobre 2025 di Alessandro Galimberti

Cassazione

L’esimente non è compatibile con norme chiare e invariate dal 1990

Presunzione di colpevolezza per chi in dogana non dichiara di trasportare contanti oltre la soglia di legge (10mila euro). Non vale infatti mai l’esimente della buona fede perché alle infrazioni valutarie si applicano i principi delle sanzioni amministrative (articolo 3 della Legge 689 del 1981) “non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di avere agito senza colpa”.

La Cassazione – Seconda civile ordinanza 27347/2025 depositata ieri – torna sulla infrazioni valutarie per cassare la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che aveva “perdonato” l’amministratore di una Srl locale pizzicato al valico di San Marino con  395 mila euro oltre la franchigia di legge. L’uomo aveva ottenuto l’annullamento del decreto del Ministero dell’Economia che gli aveva irrogato 98.750 euro di sanzione per violazione dell’articolo 3 del Dlgs 195 del 2008, per aver omesso di redigere la dichiarazione di esportazione al seguito, fatto commesso nell’agosto del 2007. Il Tribunale di Ravenna nel 2013 accoglieva l’opposizione e annullava il provvedimento sul rilievo che, in forza delle disposizioni internazionali in vigore tra i due Stati, “sussisteva ( e tuttora sussiste) tra Italia e San Marino uno spazio doganale e valutario unico, con piena libertà di circolazione dei capitali, compreso il contante, con equiparazione tra i soggetti residenti nei due Stati”.

L’appello di Bologna arrivava per altra via alle stesse conclusioni “perdoniste” ravvisando che il Dlgs 195 del 2008 ebbe effetto dal 1° gennaio 2009, 16 mesi dopo la violazione contestata. I giudici riconobbero anche l’esimente della buona fede, “a causa dell’obiettiva situazione d’incertezza della normativa in materia e delle indicazioni fornite dall’ Amministrazione” poiché la Pa “riteneva che i rapporti valutari tra Italia e Repubblica di San Marino fossero disciplinati esclusivamente dalle convenzioni valutarie (Convenzione del  1991 e del 2000), le quali escludevano qualsiasi limitazione alla libera circolazione del denaro tra i due Paesi”.

La Cassazione ha però cassato entrambi gli approcci, rilevando una continuità normativa specifica e incontestata sul punto a partire dal 1990 (DL167) transitata fino al Regolamento CE 1889 del 2005, che riaffermava il mai modificato limite soglia dei 10mila euro. “Il che è sufficiente al fine di escludere la tesi del venir meno dell’obbligo dichiarativo, nonché qualsiasi ipotesi di buona fede del trasgressore, che la Corte d’Appello ha erroneamente riconosciuto”.

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Marchi, i principi nazionali non sono applicabili se contrastano con norme Ue

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 27 Ottobre 2025 di Gianluca De Cristofaro Matteo Di Lernia

Non è possibile applicare principi di diritto basati sulla giurisprudenza nazionale ma non conformi a quanto previsto, in materia di tutela di marchi d’impresa, dalla direttiva 2015/2436 e/o dal regolamento Ue 1001/2017. Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue con la decisione C452/24 del 1° agosto 2025 che riguardava un principio di diritto finlandese secondo il quale un’azione per contraffazione va proposta entro un termine ragionevole dal momento in cui si è venuti a conoscenza del fatto contestato, altrimenti il diritto ad avviare l’azione decade.

Per la Corte di Giustizia questo principio generale del diritto finlandese non è conforme alla direttiva Ue 2015/2436 che pone limiti ben precisi alla preclusione della possibilità da parte del titolare di un marchio registrato di fare valere i propri diritti di esclusiva nei confronti di un terzo che usa un marchio identico o simile per prodotti identici o affini. Il principio di diritto finlandese, essendo molto più generico non può quindi essere applicato.

Il principio nazionale

Il principio di diritto oggetto della radicata tradizione giurisprudenziale finlandese prevede che l’avente diritto deve proporre un’azione o far valere una pretesa entro un termine ragionevole a partire dal momento in cui lo stesso sia venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza dei fatti su cui si basa la sua pretesa. In caso contrario, si verifica una decadenza dei diritti all’esercizio dell’azione per contraffazione.

Nel caso oggetto della decisione della Corte di Giustizia, l’avente diritto aveva atteso diverso tempo prima di agire in giudizio, e il Markkinaoikeus (Tribunale delle questioni economiche finlandese) ha ritenuto che ciò ormai impedisse di poter agire a tutela dei propri diritti. E questo nonostante il marchio oggetto di contestazione non fosse stato registrato ma fosse solo in uso continuativo e continuasse ad essere utilizzato dalla controparte, senza, peraltro, che quest’uso avesse fatto sorgere diritti in capo alla controparte.

La decisione

La decisione del Tribunale finlandese è stata impugnata, sulla base dell’argomentazione per cui l’applicazione del principio di diritto nazionale relativo alla decadenza dai propri diritti costituiva una limitazione dei diritti esclusivi conferiti da un marchio al suo titolare, in violazione di quanto previsto dalla direttiva n. 2015/2436, che prevede situazioni specifiche di decadenza da tali diritti.

In particolare, l’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva limita la sfera di esclusiva attribuita al titolare di un marchio verso un marchio registrato posteriormente quando quest’ultimo non potrebbe essere dichiarato nullo ai sensi – in particolare – dell’articolo 9, paragrafo 1 o 2, della stessa. L’articolo 9 fa riferimento ad una situazione cosiddetta di «preclusione per tolleranza», che si verifica esclusivamente per l’uso di marchi posteriori “registrati”.

La direttiva, dunque, nel contesto dell’armonizzazione delle legislazioni sui marchi d’impresa, prevede in quali casi l’inattività del titolare di diritti su un marchio possa emergere come limitazione a questi ultimi, inquadrando solo la tolleranza di un marchio posteriore registrato, ma non – come accaduto nel caso deciso dal tribunale finlandese – la tolleranza di un segno non tutelato che non conferisce alcun diritto esclusivo.

La Corte di Giustizia Ue ha quindi chiarito che la preclusione del diritto di agire scatta solo quando il marchio contestato è stato registrato da almeno cinque anni e in quel periodo di tempo non è stato consapevolmente impugnato. La preclusione dell’efficacia dei diritti di marchio riguarda perciò solo il caso in cui vi sia stata una situazione di tolleranza (consapevole) almeno quinquennale dell’uso di un marchio registrato.

Il principio generale del diritto finlandese in forza del quale l’inattività del titolare di un marchio entro un termine ragionevole comporta la preclusione del suo diritto non è quindi conforme a quanto previsto dall’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva n. 2015/2436, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 1 o 2, di quest’ultima.

Infatti, obiettivo della direttiva, dice la Corte, è garantire ai marchi di impresa registrati una protezione uniforme negli ordinamenti giuridici di tutti gli Stati membri.

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Dividendi, la soglia di partecipazione al 10% penalizza la distribuzione alle società residenti

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore 24 Ottobre 2025 di Marco Piazza

Stando allo schema di legge di Bilancio 2026, gli utili d’esercizio e le riserve di utili che saranno distribuiti dal 1° gennaio 2026 da società di capitali ed enti commerciali residenti e da società ed enti di ogni tipo non residenti potranno beneficiare della parziale esenzione oggi vigente solo se relativi a partecipazioni dirette nel capitale della società che li distribuisce pari o superiore al 10% (si veda il Sole 24 Ore del 21 ottobre).

La novità interesserà i dividendi percepiti da società di capitali, enti commerciali, società in nome collettivo e in accomandita semplice residenti in Italia, oltre che quelli derivanti partecipazioni relative a stabili organizzazioni in Italia di non residenti.

Il limite del 10% è in linea con quello contenuto nell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/96/UE (direttiva «Madri e figlie»). Tuttavia, lo schema di legge aggiunge che ai fini della percentuale si considerano anche le partecipazioni detenute indirettamente tramite società controllate attraverso la maggioranza dei voti in assemblea ordinaria, tenendo conto della eventuale demoltiplicazione prodotta dalla catena partecipativa di controllo.

Per fare un esempio, la società A detiene in C una partecipazione diretta del 7% e – per mezzo di una partecipazione del 60% nel capitale di B (società controllata attraverso la maggioranza dei diritti di voto in assemblea ordinaria) – detiene anche una partecipazione indiretta del 5%. In questo caso, il dividendo distribuito da C e percepito da A beneficia dell’esenzione poiché possiede una partecipazione diretta del 7% a cui si somma, ai fini del calcolo della soglia, quella indiretta del 3% (60% del 5%).

Se B è una società estera, la verifica del controllo dei diritti di voto presuppone che la società sia dotata di assemblea e, presumibilmente, che sia localizzata in un Paese che consente lo scambio di informazioni (si veda, per analogia, la circolare Assonime n. 10 del 2024, pag 33).

Poiché la tassazione dei dividendi avviene per cassa, il test sarà fatto nel giorno della percezione del dividendo.

La nuova norma ridurrà i casi di applicazione delle disposizioni di contrasto al meccanismo del dividend washing di cui all’articolo 109, commi 3-bis e 3-ter, del Testo unico.

I diritti di godimento (come l’usufrutto) non sono considerati partecipazione al capitale (si veda la circolare Assonime n. 63 del 1994, ma, di recente, si vedano anche le risposte delle Entrate 147/2019, 381/2020; 238/2021 e 116/2024). Si tornerà a discutere del trattamento delle operazioni di mutuo di titoli garantito.

Non è chiaro il trattamento degli strumenti finanziari partecipativi i quali non costituiscono partecipazione al capitale.

L’articolo 89, comma 3-bis, del testo unico pare estendere l’esenzione di cui al comma 2 a prescindere dalle condizioni previste in questa norma. Del resto, se così non fosse, gli strumenti finanziari partecipativi con partecipazione agli utili sarebbero irragionevolmente penalizzati.

Viene modificato il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 89 per limitare l’applicazione della cosiddetta «mini-pex» ai dividendi distribuiti da Cfc con esimente della commercialità ai soci che detengono almeno il 10% del capitale della società estera come sopra calcolato.

Le nuove norme si applicheranno agli utili e riserve distribuiti a partire dal 1° gennaio 2026.

La decorrenza agganciata alla distribuzione anziché alla percezione causerà tutti i disagi già sperimentati per effetto dell’articolo 1, comma 1005, della legge 205 del 2017 in occasione della unificazione del regime delle partecipazioni qualificate e non qualificate.

Per diverse tipologie di utili, la norma non produrrà effetti innovativi.

Ad esempio, non interesserà i dividendi percepiti da persone fisiche residenti al di fuori dell’esercizio d’impresa (che restano soggetti all’imposta secca del 26%), né a quelli distribuiti ad enti non commerciali al di fuori dell’esercizio d’impresa, che concorrono integralmente a formare il reddito complessivo dell’ente (77,74% per i dividendi formati con utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2016), né a quelli relativi a partecipazioni non immobilizzate di soggetti Ias/Ifrs che già oggi concorrono alla formazione del reddito complessivo dell’entità senza alcuna esenzione (articolo 89, comma 2-bis, del Tuir), né infine ai dividendi provenienti da Paesi a fiscalità privilegiata che, salvo la dimostrazione dell’esimenti di cui all’articolo 47-bis, comma 2, lettera b), sono già oggi integralmente tassabili in capo al percipiente, a meno che non siano già stati tassati per trasparenza o mediante applicazione dell’imposta sostitutiva di cui all’articolo 167, comma 4-ter.

Nessuna novità per quanto riguarda i dividendi corrisposti a non residenti, che – se non relativi a stabili organizzazioni in Italia – restano:

O totalmente esenti se corrisposti a “madri” comunitarie (articolo 27-bis del Dpr 600/1973) o “madri” svizzere, in virtù dell’articolo 9 dell’Accordo Ue-Svizzera del 26 ottobre 2004 e a Oicr istituiti nella UE o nello spazio economico europeo;

O tassati con l’imposta secca dell’1,20%, se percepiti da società alle quali non si applica l’esenzione di cui all’articolo 27-bis citato, ma sono residenti e soggette ad imposta in Stati Ue o SEE (articolo 27, comma 3-ter, del Dpr 600/1973),

O soggetti ad imposta definitiva dell’11% se corrisposti a determinate tipologie di fondi pensione esteri;

O altrimenti, soggetti all’imposta del 26% ridotta in base alle convenzioni contro le doppie imposizioni.

La modifica non incide neppure sul regime della participation exemption (articolo 87 del Tuir) in caso di cessione della partecipazione.

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Casa, rete familiare e conti correnti provano il centro di interessi all’estero

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 20 Ottobre 2025 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza

Non è soggetto a imposizione fiscale in Italia il contribuente che provi di aver stabilito all’estero la propria residenza e di avere all’estero il centro degli interessi economici e personali. A dirlo è la Cgt della Lombardia con sentenza n. 1880/25/2025 (presidente Evangelista, relatore Vicini).

Una contribuente contestava l’accertamento per omissione della compilazione del quadro RW relativo a disponibilità finanziarie detenute in Svizzera per l’anno 2012. Il primo grado aveva respinto il ricorso, ritenendo prevalente la presunzione di legame con l’Italia. Il secondo grado, invece, ha accolto l’appello sulla base della documentazione prodotta dalla contribuente relativa all’effettivo trasferimento e alla collocazione a Zurigo del centro dei suoi interessi.

La Corte ha analizzato con attenzione i profili anagrafici, personali, patrimoniali e economici utili a verificare il centro degli interessi. Ha ritenuto decisiva la prova dell’iscrizione anagrafica a Zurigo a partire da febbraio 2012 e la documentazione che dimostra la disponibilità dell’abitazione a Zurigo con pagamenti riferibili alla contribuente e il successivo subentro nel contratto di locazione. La Corte, inoltre, ha valorizzato l’esistenza di relazioni familiari prevalentemente localizzate in Svizzera e la cessazione delle cariche in Italia, nonché la costituzione e l’attività sostanziale di una società svizzera di consulenza di cui la contribuente era socia e legale rappresentante. Sul piano finanziario, poi, la Corte ha considerato significativo il trasferimento delle disponibilità dal conto corrente italiano a un conto in Svizzera avvenuto nel 2012.

Alla luce di questi elementi la vicenda è stata ricondotta al criterio giurisprudenziale che vede nel domicilio e nel centro degli interessi il parametro decisivo per la determinazione della residenza fiscale quando l’iscrizione anagrafica risulti trasferita all’estero. La valutazione delle fonti documentali, dunque, ha portato a ritenere assorbita la questione dell’imponibile con conseguente annullamento delle pretese impositive.

Si afferma così il valore probatorio delle produzioni documentali, anche in appello, quando risultino determinanti per la decisione. La Corte ha motivato la compensazione delle spese per la particolare controvertibilità della materia e per il ruolo decisivo svolto dalla documentazione fornita dalla contribuente. La sentenza ha valorizzato il fascicolo probatorio, ritenuto idoneo a dimostrare la perdita di ogni significativo collegamento con il territorio italiano.

Sul punto si ricorda che l’onere della prova grava sull’ufficio quando questo sostiene la persistenza di un collegamento fiscale con l’Italia. Se l’ufficio attiva presunzioni legali e circostanze indizianti per ricostruire la residenza o il domicilio fiscale, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria idonea a dimostrare la perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la concreta localizzazione all’estero del centro degli interessi. In pratica il giudice valuta elementi anagrafici, familiari, patrimoniali e reddituali (iscrizioni anagrafiche, contratto di locazione o titolarità di abitazione estera, fonti di reddito, rapporti societari, movimentazioni finanziarie e prova della reale fruizione dei servizi nel paese estero). E solo il contribuente che allega e documenta in modo coerente questi elementi può efficacemente ribaltare la presunzione dell’amministrazione.

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Successioni con beni all’estero: le tasse francesi e il caso Armani

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 20 Ottobre 2025 di Angelo Busani  e Xaviera Favrie *

Agli eredi di una persona residente in Italia può costare cara la scelta del de cuius di intestarsi direttamente (e non, ad esempio, attraverso una “società veicolo” con sede in Italia) beni “esistenti” in uno Stato che applica un prelievo più alto dell’imposta di successione italiana: si pensi al caso degli immobili ubicati in Francia o alle quote di partecipazione in società con sede legale in Francia. È quello che potrebbe accadere nella successione di Giorgio Armani, che era accreditato come titolare di circa il 2% del capitale di Essilor Luxottica (società con sede a Parigi e quotata all’Euronext Paris): un pacchetto che, il 4 settembre, valeva circa 2,4 miliardi di euro.

Il residente con beni all’estero

Nel caso di una persona fisica con residenza in Italia (la cittadinanza è irrilevante), la legge italiana stabilisce che:

a) l’imposta di successione è applicata al valore imponibile di tutti i beni di titolarità del defunto ovunque situati (articolo 3, Dlgs 346/1990 oppure, dal 1° gennaio 2026, articolo 88, Dlgs 123/2025);

b) dall’imposta di successione da pagare in Italia si detraggono le imposte pagate a uno Stato estero, in dipendenza della stessa successione e in relazione a beni esistenti in tale Stato, fino a concorrenza della parte dell’imposta di successione proporzionale al valore dei beni stessi (articolo 26, Dlgs 346/1990, o dal 1° gennaio 2026, articolo 111, Dlgs 123/2025.

In pratica, se un residente in Italia muore avendo la proprietà di un bene (ad esempio, di valore 200) situato in altro Stato, il quale applica a quel bene una tassazione del 40%, mentre l’aliquota italiana è pari al 4%, in Italia non si paga nulla in quanto dagli 8 dovuti al fisco italiano si detraggono gli 80 pagati allo Stato estero, il quale evidentemente… ringrazia.

La convenzione Italia-Francia

In materia di imposta di successione, l’Italia ha stipulato poche convenzioni contro la doppia imposizione e cioè con Stati Uniti, Svezia, Regno Unito, Danimarca, Grecia, Israele e Francia. Quest’ultima (ratificata con legge 708/1994) è senz’altro la più nota, per frequenza di utilizzo: in essa, peraltro, nulla si aggiunge rispetto a quanto si applicherebbe in sua assenza, in quanto, sia con riguardo agli immobili (articolo 5) sia con riguardo alle quote di partecipazioni in società (articolo 8), viene sancito che questi beni sono tassati nello Stato in cui sono situati. In particolare, per “situare” una società, si fa riferimento al suo «domicilio» e, quindi, alla sua sede legale. La convenzione infine ribadisce (articolo 11) che, nello Stato ove era residente il de cuius, si detrae l’imposta pagata nell’altro Stato in relazione a beni situati in quest’ultimo Stato.

Le differenze tra i due Paesi

In Italia le aliquote dell’imposta di successione sono tre: in sintesi, il 4% per le successioni in linea retta (con franchigia esente di 1 milione di euro), il 6% per le successioni tra fratelli (con franchigia di 100mila euro) e l’8% per le successioni tra persone non legate da parentela.

In Francia, le aliquote applicabili variano in base alla parentela e sono sensibilmente più elevate:

in linea retta, le aliquote progressive vanno dal 5% al 45%, dopo una franchigia generale di 100mila euro per ciascun erede;

tra fratelli e sorelle, le aliquote vanno dal 35% al 45%, con una franchigia di 15.932 euro;

tra parenti fino al 4° grado compreso, l’aliquota è del 55%, dopo l’applicazione di un abbattimento di 1.594 euro;

tra persone senza vincolo di parentela, l’aliquota raggiunge il 60%, dopo l’applicazione di un abbattimento di 1.594 euro.

L’imponibile di quote e azioni

In Italia, la base imponibile per le azioni e le quote di partecipazione al capitale sociale di società non quotate si determina applicando la percentuale di capitale appartenuta al defunto al valore del patrimonio netto contabile. Per le azioni quotate, si assume come imponibile la loro quotazione al giorno del decesso.

In Francia, per le partecipazioni non quotate la base imponibile è il valore venale alla data del decesso, determinabile con criteri plurimi (patrimonio netto rettificato, redditività, prospettive e comparabili), con la possibilità di considerare il premio di controllo o lo sconto di minoranza. Per i titoli quotati rileva il valore di mercato alla data del decesso; è ammessa, come metodo di stima, la media dei corsi delle 30 sedute anteriori al decesso.

* Notaio a Parigi

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Esente la vendita di società italiane da holding estere

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore 10 Ottobre 2025 di Alessandro Germani

La Corte di giustizia tributaria di I grado di Milano (sentenza 3525 depositata il 5 settembre 2025) ha stabilito che non può essere tassata la plusvalenza che un fondo di private equity internazionale ha realizzato dalla vendita di una partecipazione in una target italiana sostenendo che c’è interposizione da parte delle holding lussemburghesi laddove invece la struttura sia genuina.

L’accertamento

L’accertamento, a fronte del quale la contribuente è stata difesa da Tremonti Partners, ha riguardato l’Ires per il 2016 e aveva comminato imposte, sanzioni e interessi a seguito di verifica della Guardia di Finanza.

Veniva contestata l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia e il mancato assoggettamento ad imposizione della plusvalenza riveniente dalla vendita di una nota società attiva nella cura degli animali detenuta da due holding lussemburghesi.

I verificatori avevano contestato l’interposizione delle strutture lussemburghesi (articolo 37, comma 3, Dpr 600/73) imputando ad esse i redditi di cui apparivano titolari, dimostrando, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che ne erano gli effettivi possessori per interposta persona.

A tale fine era stata contestata la reviviscenza del fondo ormai liquidato nei cinque anni dalla cancellazione al registro imprese (articolo 28, comma 4, Dlgs 175/2014). A fronte di una corposa difesa approntata dalle ricorrenti, l’Agenzia contestava la mancata tassazione della plusvalenza e la successiva distribuzione di dividendi in esenzione che comportava a suo avviso l’interposizione, con due avvisi di accertamento rispettivamente di circa 25 milioni e 118 milioni di euro.

La Corte di Milano dà ragione al contribuente e si sofferma sulla questione e si concentra sulla presunta interposizione fittizia delle holding Lussemburghesi che avrebbe consentito ai fondi di beneficiare di un regime di esenzione da imposizione.

La tesi delle Entrate

L’agenzia delle Entrate ritiene tassabile in Italia la plusvalenza ai sensi degli articoli del Tuir: 23, comma 1, lettera f) (plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti); 73, comma 1, lettera d) (enti non residenti) e 151, comma 3 (reddito degli enti commerciali non residenti) come redditi di natura finanziaria ex articolo 67, comma 1, lettera c) (plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate). Per essa, infatti, tutta la costruzione sarebbe priva di sostanza economica in quanto esclusivamente finalizzata a non tassare in Italia la plusvalenza.

La sentenza della Cgt

I giudici fanno notare che l’interposizione fittizia è fattispecie che fa scattare l’ipotesi di reato. Ma a loro avviso la realtà è differente in quanto la struttura in Lussemburgo era adeguata alle funzioni da svolgere. Le holding avevano a disposizione, e ne hanno sostenuto i costi, uffici e personale propri, per quanto ridotti ed esigui, adeguati in proporzione alla tipologia dell’attività da svolgere.

Inoltre si sono tenute numerose riunioni dei Consigli di amministrazione composti da numerosi professionisti di comprovata esperienza, in parte residenti proprio in Lussemburgo, oltre diverse riunioni assembleari a comprova della autonomia gestionale e decisionale delle holding.

Le holding non sono fittiziamente interposte, né c’è un meccanismo automatico di trasferimento dei proventi percepiti e la decisione sulle opzioni di investimento dei proventi è stata oggetto di due Consigli di amministrazione. Per cui quelle che per l’Agenzia erano presunzioni gravi, precise e concordanti per stabilire l’interposizione fittizia in realtà sono state sconfessate nei fatti dalle ricorrenti.

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Dal 1°gennaio il grande fratello fiscale Ue

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore 8 Ottobre 2025 di Alessandro Galimberti

A meno di tre mesi dall’entrata in vigore della direttiva Dac 8 (2226/2023/Ue), approda al Consiglio dei ministri di oggi lo schema di decreto di recepimento legato all’attuazione della legge 91/2025 (legge di delegazione europea 2024).

la Dac 8, in vigore dal 1° gennaio amplia lo scambio automatico di informazioni fiscali ai pochi varchi ancora non presidiati mediante la creazione del Registro unico dell’Ue che riceverà e centralizzerà tutte le informazioni fiscali dei residenti nell’Unione rilevanti per lo scambio «ampliato»: un gigantesco data base in cui ogni Paese potrà consultare la radiografia dei propri contribuenti, ovunque risiedano, e che di fatto segnerà anche il superamento dello scambio automatico stesso.

Il codice fiscale Ue

La grande operazione di armonizzazione delle informazioni fiscali prevede la circolarizzazione del Nif (numero di identificazione fiscale) di ogni cittadino/residente europeo, codice su cui verranno imputate tutte le operazioni fiscalmente rilevanti in ottica transnazionale . Operazioni che, con la nuova direttiva, aumentano di numero e anche di ambito. I redditi da lavoro, già oggetto di scambio automatico dal 2011, diventano «redditi da lavoro dipendente», mentre gli accordi preventivi con il fisco ( ruling) escono dal perimetro delle grandi società e diventano rilevanti – e oggetto di «scambio» – anche se a siglarli è un contribuente persona fisica – ma con il limite soglia di 1,5 milioni di euro, compresi bonus e sottostanti di qualsiasi natura.

Cripto attività

Gli stati Ue hanno adottato molteplici normative in materia di criptoattività, ma la natura e l’utilizzo transnazionale rende spesso difficile l’identificazione, il controllo e la tassazione. È per questo che la Dac8, integrando la direttiva 2011/16/UE, si propone – attraverso l’introduzione dell’obbligo di scambio automatico e periodico di informazioni e la creazione, a partire dal 31 dicembre 2026, di un registro centrale di queste comunicazioni – di fornire agli Stati strumenti efficaci per combattere fenomeni di frode, di elusione o di non tassazione dei proventi da criptoattività.

Le prime informazioni oggetto di scambio automatico saranno quelle relative al periodo d’imposta 2026. Oltre alle informazioni riguardanti i soggetti detentori e i relativi Casp ( Crypto-asset service provider), andrà specificata la tipologia e l’importo lordo aggregato e il numero di transazioni realizzate.

Ruling e persone fisiche

Altro obiettivo della direttiva è estendere l’ambito di applicazione dello scambio automatico di informazioni sui ruling preventivi transfrontalieri alle operazioni poste in essere da persone fisiche facoltose.

In particolare, viene previsto dal 1° gennaio 2026 l’ obbligo di scambio automatico di informazione per i ruling transfrontalieri che hanno per oggetto un’operazione o una serie di operazioni che superino l’importo di 1,5 milioni (o una somma equivalente in altra valuta); il ruling preventivo transfrontaliero che determina se una persona è o meno residente ai fini fiscali nello Stato membro che emette il ruling.

Un’attenzione molto particolare è focalizzata sui redditi derivanti dai dividendi su conti non di custodia. La direttiva, infatti, evidenzia che questi redditi spesso sfuggono dalle comunicazioni attualmente obbligatorie.

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Licenziabili se viene meno la fiducia

8 Novembre 2025

Il Sole 24 Ore 8 Ottobre 2025 di Cristina Casadei

MASSIMARIO

Dirigenti

Chiamata a pronunciarsi sul licenziamento disciplinare di un dirigente, la Suprema corte ha evidenziato la differenza tra giustificatezza e giusta causa. «Ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente…non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente…In tema di licenziamento disciplinare del dirigente, rilevando la giustificatezza del recesso che non si identifica con la giusta causa, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, il licenziamento non deve necessariamente costituire una extrema ratio, da attuarsi solo in presenza di situazioni così gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto, e allorquando ogni altra misura si rivelerebbe inefficace, ma può conseguire ad ogni infrazione che incrini l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente».

Corte di cassazione, ordinanza 26609/2025, depositata il 2 ottobre

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