Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Michele Romano

IMPRESE SOTTO TIRO DISTRETTO CALZATURIERO

Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi

Tosi: «Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno d’interventi del governo»

La denuncia dei produttori marchigiani di scarpe riguarda molti settori

Alta gamma.  Lo show room di un calzaturificio 

«La Cina non può essere il nuovo Eldorado. Per lo meno non lo è alle condizioni attuali, perché è un paese che non rispetta il copyright, i loghi, la manifattura italiana». Parlano i calzaturieri del fermano-maceratese, ma i problemi sono identici a quelli denunciati da altri produttori italiani del comparto e comuni anche a diversi settori del made in Italy: la Cina è un mercato dove le Pmi non riescono ad accedere, una sorta di labirinto per gli imprenditori alle prese con quella che è diventata una prassi diffusa: chi entra in quel mercato rischia di affrontare costose azioni legali che cancellano la maggior parte dei marchi tranne quelli cinesi. Dalle testimonianze di molti imprenditori risulta chiarissima la prassi di soggetti cinesi che depositano in malafede nel loro paese registrazioni di marchi (sono oltre 20 mila quelli certificati) e segni distintivi delle aziende italiane per il proprio business. «Per noi – spiega Dino Corvari, titolare del calzaturificio con sede a Montegranaro – è stato impossibile registrare il marchio perché secondo i cinesi assonante con un altro già registrato, ovvero “cor vari” (in due parole, ndr.). Inutile ogni trattativa». La verifica di anteriorità diventa così impossibile.

Il settore calzaturiero italiano fattura oltre 14,2 miliardi di euro e occupa 75 mila addetti (quello marchigiano pesava nel 2019 per circa il 32%) e l’85% della produzione è destinata all’estero, ma solo l’1,2% è diretto in Cina e riguarda principalmente i grandi gruppi della moda e chi produce per loro. Eppure, quella cinese è la più numerosa comunità high-spending a livello globale, numeri che avrebbero la forza di assorbire il crollo che il settore della moda, e in particolare la calzatura, hanno avuto in Russia e nei paesi Csi dopo vent’anni d’oro. «Se togliamo le grandi griffe, la Cina vale oggi per le Marche meno di quanto esportiamo in Austria, che ha solo otto milioni di abitanti», chiarisce Graziano Mazza, ceo di Premiata, fondata cento anni fa dal nonno, a Montegranaro nel Fermano, ed oggi brand mondiale delle sneaker. Ha più di un sassolino nelle sue scarpe e riguarda proprio la Cina: «Noi apriamo la Via della Seta e loro alzano barriere protettive». Lo ha sperimentato in prima persona.

Il marchio Premiata lo ha registrato in Cina per tutte le classi merceologiche, ad esclusione del prodotto scarpe, perché lo aveva già fatto un imprenditore di quel paese, portando una prova di utilizzo di 100 dollari. Una volta scoperta l’anomalia, l’azienda di Montegranaro ha iniziato la sua battaglia legale per difendere la proprietà del marchio. Un’odissea legale iniziata oltre 12 anni fa, costata finora 400 mila euro e segnata solo da verdetti contrari, in attesa dell’ultima sentenza, quella della Suprema Corte di Pechino. «Usurpano il marchio per poi copiare prodotti (scarpe, fondi, modelli e quant’altro, ndr.), immagine, modello di business», dice Mazza. Praticamente tutto, comprese le immagini del quartier generale di Montegranaro. La stima del volume di affari è di circa 300 mila paia scarpe per stagione (un business che vale 30 milioni di dollari) «tutte copiate dalle collezioni originali e poi vendute nei negozi monobrand Premiata, ovviamente abusivi, aperti dal gruppo cinese». Prove evidenti, ma non sufficienti per il sistema legale di quel Paese, che sta addirittura cancellando e invalidando anche i marchi già registrati e certificati dall’ufficio marchi-brevetti cinesi: oggi è tutto nelle mani del copiatore.

Non è un caso isolato. Giorgio Fabiani, titolare del calzaturificio omonimo Fabiani di Fermo, aveva un partner in Cina che acquistava le sue scarpe, per poi smettere per copiare i modelli e il suo marchio: «L’ho scoperto, ho dato mandato a uno studio legale italiano. Tempo e risorse per nulla: ho solo individuato dove si trovava la fabbrica. Ma la legislazione locale tutela solo gli autoctoni». In alcuni casi viene data la possibilità alle aziende italiane di reimpossessarsi del marchio, ma solo tramite transazione commerciale e pagando ingenti somme di denaro. «Esportavamo da tempo in Cina, quando ci hanno fatto notare che il nostro marchio era già stato registrato – racconta Mary Gestroemi, titolare del calzaturificio Mary di Fermo -. Quando abbiamo contattato l’interlocutore voleva rivendercelo per 50 mila euro». L’imprenditore fermano ha però rinunciato a quella che definisce “estorsione legalizzata” e non ha potuto utilizzare per cinque anni il suo marchio: ne è tornato in possesso solo perché in Cina non era stato mai utilizzato.

«Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno di un solerte e deciso intervento del nostro governo – dice Giuseppe Tosi, direttore di Confindustria Centro Adriatico -. Questa è l’unica strada per invertire questa situazione». L’esperienza americana insegna. Per far sì che New Balance, uno dei più grandi produttori al mondo di calzature sportive, si riappropriasse del proprio marchio in Cina, dopo lunghe e dispendiose battaglie legali perse, è intervenuto il governo americano e nel 2018 la situazione si è risolta. «Vogliamo più stato e non sentirci solo quando siamo all’estero», è l’appello finale di Mazza. C’è un’altra grana che rende debole il rapporto commerciale tra Italia e Cina e che vede in prima linea i calzaturieri marchigiani nel sollecitare una soluzione: la reciprocità dei dazi. Le imprese cinesi che possono importare i prodotti devono essere munite della licenza di commercio estero (Foreign Trade Rights), rilasciata dal ministero del Commercio estero (Moftec) per monitorare il flusso di merci in entrata e in uscita dal paese. In questo campo c’è una simbolica reciprocità: l’export italiano e l’import cinese hanno una tassa del 17%. «Ma c’è l’inghippo – spiega Valentino Fenni, presidente dei calzaturieri di Confindustria Centro Adriatico -: le imprese italiane che esportano le proprie calzature in Cina devono transitare attraverso gli importatori cinesi autorizzati con una maggiorazione sul costo effettivo del prodotto che fa lievitare la tassa al 30%: significa appesantire il nostro rapporto commerciale con Pechino, che è già al limite per via del costo della manodopera, della tasse e del prezzo dell’energia, dando un colpo definitivo all’export dell’intera fascia media della nostra produzione».

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Niente riciclaggio sulle somme restituite per false fatture

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Antonio Iorio 

La restituzione delle somme precedentemente pagate da parte di coloro che hanno ricevuto fatture false non configura il reato di riciclaggio in quanto tali importi non rappresentato il profitto del reato fiscale e quindi non possono considerarsi di provenienza delittuosa. A fornire questa interpretazione è la Cassazione con la sentenza 30206/2020 depositata il 30 ottobre.

Il giudice per l’udienza preliminare emetteva sentenza di proscioglimento nei confronti di alcune persone imputate di riciclaggio e reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale). La contestazione traeva origine da alcuni assegni che un coimputato accusato di avere emesso fatture inesistenti consegnava agli imputati a giustificazione degli importi fittizi.

Secondo il giudice tali somme non costituivano il profitto del reato fiscale, che doveva invece essere individuato nel risparmio di imposta. Pertanto le condotte di “gestione” di tali assegni (riconsegna tramite girata o sostituzione con assegni circolari) non potevano integrare i reati di riciclaggio e reimpiego, dato che tali illeciti avrebbero dovuto avere come oggetto il “profitto” del reato fiscale.

La sentenza veniva impugnata dal pubblico ministero che non contestava l’individuazione nel solo risparmio di imposta nel profitto dei reati fiscali, tuttavia riteneva legittimo l’inquadramento giuridico ipotizzato dalla Procura essendo innegabile l’ausilio fornito dagli imputati alla consumazione degli illeciti tributari.

La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso. Secondo i giudici è incontestato che il profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di false fatture (articolo 2 del Dlgs 74 del 2000) sia costituito dal risparmio di imposta e, segnatamente dall’utilità che si ricava dalla indicazione di tali fatture nella dichiarazione.

Non costituiscono invece il profitto le somme fittiziamente fatte pervenire per dare parvenza di effettività all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Di conseguenza, non trattandosi di somme di provenienza delittuosa, non è configurabile il reato di riciclaggio

La sentenza evidenzia poi che si tratta di un orientamento consolidato anche attraverso la pronuncia (Cassazione 41499/2013) secondo la quale non integra il delitto di riciclaggio l’operazione consistita nel versamento sul proprio conto corrente di un assegno bancario giustificativo del pagamento di una fattura ed il successivo prelievo di una parte della somma versata con la restituzione all’emittente il titolo, funzionale ad ostacolare l’identificazione del delitto di fatture per operazioni inesistenti. La Corte ha così rilevato la carenza del presupposto per ritenere configurabile il delitto di riciclaggio e cioè la provenienza da delitto del denaro versato sul conto

Nella specie le condotte contestate non si risolvevano nella manipolazione del profitto a fini di dissimulazione o di reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale), essendo piuttosto funzionali a consentire la consumazione del reato previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74 del 2000. In astratto, sarebbe stato quindi ipotizzabile un concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta da escludere nella vicenda in esame stante il decorso del termine di prescrizione.

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Solo i nuovi frontalieri in Svizzera verso la tassazione in Italia

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 9 Ottobre 2020 di Roberto Bianchi

Nel corso del mese di ottobre dovrebbe prendere forma il nuovo accordo tributario tra Italia e Svizzera che andrà a rinnovare l’intesa del 3 ottobre 1974 (legge 386/1975), dal quale scaturirà la nuova tassazione dei lavoratori frontalieri oltre al nuovo corso dei ristorni riconosciuti agli Enti locali di confine.

Ogni cittadino italiano residente in qualsivoglia regione del territorio nazionale dispone della facoltà di richiedere e ottenere l’autorizzazione (permesso G) quale lavoratore frontaliere in Svizzera mantenendo, tuttavia, l’obbligo di fare quotidianamente rientro nel nostro paese. Tali elementi, che concernono l’ambito civilistico dei permessi di lavoro all’interno della Confederazione elvetica, necessitano di essere coniugati con gli aspetti tributari che afferiscono a tale lavoratore.

In base al paragrafo 4 dell’articolo 15 della Convenzione avverso le doppie imposizioni vigente tra Italia e Svizzera (legge 943/1978), il regime tributario applicabile ai redditi conseguiti dai lavoratori frontalieri dipendenti risulta essere disciplinato dal menzionato accordo tra Italia e Svizzera relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine.

Vengono qualificati come «lavoratori frontalieri in Svizzera», ai fini della specifica disciplina convenzionale, i soggetti che risultano essere residenti in un Comune italiano il cui territorio risulti compreso, in tutto in parte, nella fascia di 20 chilometri dal confine con uno dei Cantoni del Ticino, dei Grigioni e del Vallese, ove si recano per svolgere un’attività di lavoro dipendente, sebbene non vi sia la necessità che l’attività venga prestata in un Cantone “frontista” rispetto al Comune di residenza (risoluzione 38/E/2017).

L’articolo 1 del richiamato accordo bilaterale del 3 ottobre 1974, prevede attualmente che «i salari, gli stipendi e gli altri elementi che fanno parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta».

Al fine di “contemperare” tale aspetto, il successivo articolo 2 stabilisce che i Cantoni svizzeri confinanti con l’Italia sono tenuti a versare ogni anno, a beneficio dei Comuni italiani di confine, una parte del gettito fiscale proveniente dalla imposizione delle remunerazioni dei frontalieri italiani quale compensazione finanziaria delle spese sostenute dagli enti locali in Italia a favore dei frontalieri che risiedono nel loro territorio ma che svolgono l’attività di lavoro dipendente in Svizzera (assoggettata a tassazione esclusivamente nella Confederazione elvetica).

Il nuovo accordo, che supererà definitivamente quello menzionato, dovrà individuare un equilibrio tra i nuovi e i vecchi frontalieri e, per questi ultimi si prospetta l’introduzione di un regime speciale mentre per i nuovi frontalieri l’accordo dovrebbe prevedere il pagamento delle imposte in Italia.

L’intesa in fase di perfezionamento dovrà prevedere, pertanto, lo scambio delle informazioni afferenti i lavoratori frontalieri considerato che l’agenzia delle Entrate, al fine di governare lo specifico regime di tassazione che dovrebbe essere posto al centro del nuovo accordo, dovrà disporre di informazioni adeguate.

Attualmente la Svizzera comunica all’Amministrazione finanziaria italiana esclusivamente il numero dei lavoratori frontalieri suddivisi per singolo Comune di residenza.

Non va sottaciuto che, nel corso del mese di ottobre, il presidente del Governo di Bellinzona dovrebbe rappresentare al ministro federale dell’Economia la decisione ticinese di dar corso alla «clausola di uscita» in merito alla facoltà di rescissione unilaterale dell’accordo tra Svizzera e Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine.

La questione centrale è tuttavia rappresentata dalla capacità del nuovo accordo di continuare ad assicurare i ristorni agli enti locali di confine, senza i quali difficilmente l’intesa potrà garantire un equilibrio stabile tra i due Paesi.

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La rinuncia all’eredità cancella la responsabilità per i debiti tributari del defunto

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Angelo Busani

La rinuncia all’eredità, per effetto della sua caratteristica retroattività al momento dell’apertura della successione (articolo 521 del Codice civile), rende il chiamato all’eredità non responsabile del debito tributario del defunto, anche se la rinuncia intervenga dopo che, in epoca successiva all’apertura della successione, venga notificato un avviso di liquidazione, il quale sia poi divenuto definitivo per mancata impugnazione: la ragione è che, per regola generale, la responsabilità per i debiti ereditari (compresi quelli tributari) grava su chi, accettando l’eredità, assume la qualità di erede e non grava sul “semplice” chiamato all’eredità.

Lo decide laCassazione nell’ordinanza 24317 del 3 novembre 2020, nella quale, altresì, vengono altresì sanciti alcuni altri importanti principi:
a) se l’Amministrazione intende far valere l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità (la quale impedirebbe l’esercizio della facoltà di rinuncia all’eredità), deve fornirne la prova (si pensi al caso del chiamato all’eredità che venda un bene ereditario o paghi un debito del defunto);
b) al chiamato rinunciante deve essere parificato il chiamato che non abbia accettato l’eredità, né espressamente né tacitamente, nei dieci anni successivi all’apertura della successione, poiché il decorso di detto decennio comporta la prescrizione del diritto di accettare l’eredità e, quindi, impedisce al chiamato di assumere la qualità di erede (rinunciare all’eredità dopo il decorso di tale decennio non produce alcun effetto e avrebbe solo una valenza meramente chiarificatoria);
c) all’eredità non può rinunciare il chiamato che decada dal diritto di rinuncia per effetto del possesso dei beni ereditari intrattenuto per un periodo superiore a tre mesi dopo l’apertura della successione, poiché, in tal caso, si produce un’irreversibile situazione di accettazione dell’eredità che non può essere posta nel nulla da una rinuncia (la quale, dunque, si rivelerebbe tardiva e anche in tal caso sarebbe improduttiva di effetto).

Tutto quanto fin qui riportato necessita di una precisazione quando il debito tributario sia quello afferente all’imposta di successione, in quanto, in questa ipotesi, per esigenze di certezza e di speditezza nella riscossione di detta imposta, è disposto che:
•i chiamati all’eredità sono esonerati dall’obbligo della dichiarazione di successione se, anteriormente alla scadenza del termine stabilito al termine per presentarla (di regola, un anno dall’apertura della successione) hanno rinunziato all’eredità e ne hanno informato per raccomandata l’agenzia delle Entrate (articolo 28, comma 5, del Dlgs 346/1990, il Tus, testo unico dell’imposta di successione);
•fino a quando l’eredità non sia stata accettata, i chiamati all’eredità rispondono solidalmente dell’imposta nel limite del valore dei beni ereditari rispettivamente posseduti (articolo 36, comma 3, Tus);
•al fine del calcolo dell’imposta (e cioè per l’individuazione dell’aliquota e della franchigia eventualmente applicabile), vi è da osservare la regola secondo cui l’imposta è determinata, fino a quando l’eredità non è stata accettata, considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato (articolo 7, comma 4, Tus).

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Con la Dac 7 obbligo di informazioni esteso alle piattaforme online e royalties

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 26 ottobre 2020

SCAMBI AUTOMATICI

La Ue prepara la nuova direttiva per una tassazione equa e semplice pro-ripresa

Proseguono le iniziative per promuovere la cooperazione e la trasparenza fiscale all’interno dell’Unione europea. Anche se in molti Paesi, Italia compresa, non sono ancora scattati gli obblighi previsti dalla Dac 6, l’Ue sta già lavorando alla Dac 7. Lo scorso 15 luglio la Commissione europea ha infatti proposto nuove modifiche alla direttiva sulla cooperazione amministrativa nel settore fiscale 2011/16/Ue, promuovendo l’adozione di un pacchetto di riforme per una tassazione equa e semplice a sostegno della ripresa dell’Ue. La Dac 7 rappresenta una parte di un’ampia e ambiziosa agenda fiscale dell’Ue per i prossimi anni. Le principali proposte di modifica alla direttiva sono le seguenti.

Piattaforme digitali

Una delle modifiche più importanti proposte dalla Dac 7 prevede l’estensione dell’obbligo di scambio automatico di informazioni agli operatori delle piattaforme digitali residenti, localizzati o costituiti secondo le leggi dell’Ue. Le norme si applicheranno anche alle piattaforme non comunitarie che facilitano vendite effettuate da soggetti Ue o locazioni di immobili ivi localizzati.

L’emendamento proposto impone ai gestori delle piattaforme digitali l’obbligo di comunicare alle amministrazioni fiscali di ciascuno Stato membro il reddito percepito dai rispettivi utenti. Le attività commerciali (“attività pertinenti”) coperte dagli obblighi di comunicazione sono l’affitto di beni immobili, i servizi personali, la vendita di beni, l’affitto di qualsiasi mezzo di trasporto, gli investimenti e i prestiti nell’ambito del crowdfunding.

La definizione di piattaforma è molto ampia in quanto comprende qualsiasi software, compresi i siti web accessibili agli utenti che consentono ai venditori di essere collegati con altri utenti allo scopo di svolgere le attività pertinenti. Sono esclusi i software che consentono esclusivamente pagamenti, catalogazione o la pubblicità di attività pertinenti e la possibilità di reindirizzare o trasferire utenti verso una piattaforma.

Verifiche fiscali

I controlli multilaterali tra Stati avranno una sempre maggiore importanza per evitare la doppia tassazione sui temi di fiscalità internazionale, quali ad esempio i prezzi di trasferimento. In Italia l’articolo 31-bis del Dpr 600/73 prevede la possibilità di controlli simultanei dell’amministrazione finanziaria con altri stati membri, ciascuno nel proprio territorio al fine di scambiare informazioni, e disciplina la presenza nelle indagini di funzionari stranieri in base alla direttiva 2011/16/Ue. Vi sono poi accordi specifici con altre amministrazioni: convenzioni contro le doppie imposizioni, «Tax Exchange Information Agreement» e l’accordo con l’amministrazione bavarese per le verifiche congiunte.

La Dac 7 propone di rafforzare i meccanismi esistenti al fine di garantirne l’effettiva applicazione, prevedendo che le risposte alle richieste della presenza di funzionari o di svolgimenti di controlli simultanei vengano fornite in 30 giorni.

Viene inoltre inserito un nuovo articolo (n.12 bis) sui controlli congiunti su attività transfrontaliere, ovvero indagini amministrative condotte congiuntamente dalle autorità competenti di due o più Stati membri, per esaminare casi legati a una o più persone di interesse comune. È previsto che le autorità debbano concordare sui fatti e sulle circostanze del caso ed adoperarsi per raggiungere una posizione fiscale condivisa. Non sembra tuttavia esservi un obbligo di accordo, il che potrebbe essere fonte di notevole incertezza per i contribuenti. Le conclusioni della verifica sono inserite in una relazione finale che ha un valore giuridico equivalente a quello degli strumenti nazionali (es. Pvc in Italia).

Scambio di informazioni

Viene inserita la possibilità per le amministrazioni di fare richieste collettive di informazioni in base ad un insieme comune di caratteristiche dei soggetti per cui è fatta la richiesta. Per garantire l’efficacia dello scambio di informazioni ed evitare ingiustificati rifiuti è previsto che l’autorità richiedente fornisca le motivazioni ed il fine fiscale per cui le informazioni sono richieste (cosiddetta “prevedibile pertinenza”). La prevedibile pertinenza non si applica nei casi in cui la richiesta sia inviata in seguito allo scambio di informazioni su ruling transfrontalieri o accordi preventivi sui prezzi di trasferimento, Apa (già disciplinati dalla direttiva).

Royalties

La proposta prevede di aggiungere le royalties tra le categorie di reddito di cui all’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva, che sono soggette a scambio automatico obbligatorio di informazioni tra gli Stati membri. Viene in tal modo ribadita l’importanza di attenzionare i redditi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale, in quanto facilmente si prestano ad accordi per il trasferimento degli utili da una giurisdizione ad un’altra per via della elevata mobilità delle attività sottostanti.

Qualora la proposta venisse approvata l’entrata in vigore delle disposizioni sarebbe il 1 gennaio 2022.

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Decreto Delegato 7 Ottobre 2020 nr 185 – Modifica all’Allegato B Legge 31 marzo 2014 nr 40 e succ. modifiche – Disciplina delle licenze per l’esercizio delle attività industriali, di servizio, artigianali e commerciali”

9 Novembre 2020

Si allega il nuovo art. 2 dell’ allegato B della Legge nr 40/2014 in merito alle tasse di rilascio e rinnovo licenza.

DD185-2020

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Errata Corrige D.L. nr 123/2018 – Ratifica Decreto – Legge 28 giugno 2018 nr 76 – Disciplina del regime per la detassazione dei redditi derivanti da beni immateriali

9 Novembre 2020

Si allega la riformulazione dell’art. 5 comma 2 del D.L.nr 123 del 2018 in merito alla plusvalenza derivante da cessione dei beni immateriali.

erratacorrigeDL nr 123/2018

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Scadenziario Dicembre 2020

3 Novembre 2020

Di seguito vengono riportate le scadenze ordinarie previste ricordando che è data la possibilità per quanto riguarda le ritenute operate sui redditi di lavoro dipendente e autonomo (a partire dai redditi mensili del mese di marzo 2020 e fino a quelli del mese di dicembre 2020) di versare tali ritenute mediante versamento diretto entro il quadrimestre successivo a quello in cui è stata operata la ritenuta alla fonte ovvero a quello in cui siano maturati i redditi mensili di lavoro dipendente.

entro il 20 Dicembre

  • Scade il termine per il pagamento dei contributi previdenziali /assistenziali I.S.S.  F.S.S. e FONDISS per lavoratori dipendenti relativi al mese di novembre. Si evidenzia che, come sancito dall’art 2 del D.L. 205/2020 è data la possibilità di rateizzare i contributi anche relativamente ai mesi di novembre, dicembre e tredicesima previa istanza da presentarsi all’ISS. La dilazione è consentita senza penalità per un massimo di 12 mesi con un tasso fisso d’interesse del 2%

 entro il 31 Dicembre

  • scade il termine per il versamento della ritenuta del 5% sugli utili  (anche eventualmente accantonati a Riserva) prelevati nel bimestre di settembre e ottobre (ritenuta da applicarsi sulla distribuzione utili formatisi dall’anno 2014  in avanti);
  • il pagamento delle ritenute a titolo d’acconto per lavoro dipendente e autonomo relativi al bimestre di settembre e ottobre dell’ esercizio in corso;
  • il pagamento dell’imposta speciale di bollo sui servizi di agenzia e rappresentanza (3% e 6%) relativi al bimestre di settembre e ottobre dell’ esercizio in corso;
  • il pagamento dell’imposta di bollo 3% su servizi di pubblicità e elaborazione dati relativi a fatture datate settembre e ottobre;
  • Scade il termine sia per le persone fisiche (lavoratori autonomi e ditte individuali) che giuridiche, del versamento del secondo acconto dell’imposta generale sui redditi (I.G.R.) relativa all’anno in corso;  
  •  il pagamento dei compensi amministratori pena l’indeducibilità del costo;
  • scade il termine per il pagamento dell’imposta speciale sui beni di lusso (imbarcazioni);

Si ricorda per le aziende di produzione o per le attività di commercio all’ingrosso, di prestare attenzione agli acquisti di fine anno, poiché consistenti incrementi di magazzino al 31/12/20 rispetto all’anno precedente determinano l’obbligo di pagare la monofase sull’incremento medesimo.

Si rammenta che l’art. 58 c 1 lett. c) della Legge 94/2017 ha abolito l’obbligo di invio della comunicazione all’Ufficio Tributario della movimentazione relativa ai registri di temporanea importazione o esportazione (registro unico, c/lavoro, c/deposito, c/lavorazione ecc.).

Si segnala infine che l’art. 17 della Legge 137/2018 ha reso obbligatorio, già dal primo gennaio 2019, per ogni contribuente la registrazione nel conto fiscale delle obbligazioni tributarie ENTRO LA SCADENZA, pena sanzione amministrativa da € 100,00 a € 500,00 applicata dall’Ufficio Tributario.

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Si avvisa la gentile clientela che lo studio Commerciale del Dott. Antonio Valentini  rimarrà chiuso per le festività natalizie dal 23 dicembre  al 6 gennaio compresi.

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