Black list, sul raddoppio dei termini sempre meno spazio alla retroattività

9 Aprile 2019

Il Sole 24 Ore – Quotidiano del Fisco – 7 Marzo 2019 di Antonio Longo

La Cassazione dice ancora no all’applicazione, prima del 2009, della presunzione di evasione per le attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate. È quanto stabilito dall’ordinanza 5471 dello scorso 25 febbraio , che consolida l’orientamento già invalso nella giurisprudenza di legittimità (sentenza 2662/2018) su una questione giuridica – ancora – oggetto di numerosi contenziosi pendenti.
I fatti riguardavano l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, per gli anni 2005-2008, di un maggior reddito in capo ad una persona fisica residente in Italia che non aveva dichiarato le attività detenute all’estero. La contestazione era fondata sull’applicazione (retroattiva) della presunzione introdotta dall’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009. La norma prevede che gli investimenti e le attività finanziarie detenuti, negli Stati a fiscalità privilegiata, in violazione dei relativi obblighi di dichiarazione (nel quadro RW della dichiarazione dei redditi) si presumono costituiti, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tal caso, le sanzioni, i termini di decadenza per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale e i termini per l’accertamento dei redditi connessi alle attività estere sono raddoppiati.
Sin dall’entrata in vigore (1 luglio 2009) della citata presunzione è scaturito un contrasto interpretativo circa la sua possibile applicazione retroattiva. Secondo l’amministrazione finanziaria, la norma avrebbe carattere processuale e, come tale, sarebbe applicabile anche in relazione ai periodi antecedenti il 2009. Secondo una diversa interpretazione, accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito, la nuova presunzione inciderebbe sui profili sostanziali del rapporto tributario e, pertanto, sarebbe applicabile solo per il futuro.

L’intervento chiarificatore della Suprema Corte fissa ora alcuni principi condivisibili e, si spera, definitivi:

  1. a) l’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009, ha previsto, rispetto alla disciplina previgente, una più favorevole presunzione legale a beneficio del fisco;
  2. b) nell’ordinamento italiano, le norme in tema di presunzioni sono collocate – non a caso – nel Codice civile, tra quelle sostanziali, e non nel codice di rito;
  3. c) sicché anche alla norma in esame non può che attribuirsi natura sostanziale e non processuale.

Il meccanismo presuntivo incide, infatti, sulla ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e amministrazione finanziaria perché consente a quest’ultima di ravvisare una maggiore capacità contributiva in capo al soggetto detentore di attività offshore non dichiarate.
Peraltro, una differente interpretazione risulterebbe in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, potendo pregiudicare l’effettività del diritto di difesa, con riferimento, ad esempio, alla scelta del contribuente di non conservare documentazione riguardante periodi ante 2009. Tale scelta, compiuta in maniera legittima prima dell’introduzione della presunzione in esame, limiterebbe irragionevolmente la prova contraria in caso di accertamento “attivato” dopo l’entrata in vigore della norma.

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La condivisione dell’immobile non fa stabile organizzazione

9 Aprile 2019

Il Sole 24 Ore 07 MARZO 2019 di Enrico Holzmiller

GRUPPI INTERNAZIONALI

La condivisione dell’immobile non fa stabile organizzazione

L’esistenza di una sede nello stesso palazzo non può essere l’unico elemento

La casa madre deve dare direttive stringenti alla controllata italiana

Uno degli aspetti più delicati nei gruppi internazionali è il livello di ingerenza della casa madre, o dei soggetti apicali, nell’attività della società figlia straniera. Il tema, infatti, è fonte di accertamenti fiscali che riqualificano, in tutto o in parte, l’attività della società residente, quale stabile organizzazione della “madre” localizzata in altro Stato. A seconda della profondità con cui detta ingerenza viene attuata, le presunzioni di esistenza di una “stabile” possono indurre a ritenere valido l’assunto dell’amministrazione finanziaria, attraendo nuova base imponibile in Italia, altrimenti tassata solo all’estero. Non vi sono più dubbi circa la possibilità che una società italiana possa al contempo fungere da stabile organizzazione di un soggetto straniero: da tempo, la Cassazione ha confermato questo possibile approccio, in quanto «l’autonoma piena soggettività giuridica non interferisce, invero, con l’imputazione, quale massa separata, dei rapporti fiscali riferibili a soggetto non residente, restando i due profili evidentemente autonomi e distinti, seppur in capo alla medesima entità» (Cassazione 16106/2011).
Il concetto è stato esplicitato con il nuovo comma 5 dell’articolo 162 del Tuir che ha introdotto la anti-fragmentation rule, disposizione antielusiva secondo la quale, ai fini di identificare l’esistenza di una “stabile”, bisogna fare riferimento «all’attività complessiva risultante dalla combinazione delle attività svolte dalle due imprese nello stesso luogo, o dalla stessa impresa o da imprese strettamente correlate nei due luoghi». La ratio della disposizione è quella di poter valutare unitariamente attività volutamente frammentate in più luoghi e/o tra più soggetti tra loro vicini.
La ricostruzione che il Fisco può fare deve tenere sempre conto di un limite invalicabile: il carattere preparatorio e ausiliario dell’attività. Laddove l’attività in Italia, effettuata dalla casa madre anche attraverso la società italiana, abbia le suddette caratteristiche, l’amministrazione finanziaria non potrà identificare alcuna stabile organizzazione sul territorio. Tale assunto è evidenziato ai commi 4 e 5 dell’articolo 162. Tuttavia, laddove l’attività non abbia il carattere di “accessorietà”, quando la presenza sul territorio italiano può definire o meno una stabile organizzazione? Quali elementi, quali presunzioni risultano efficaci a tale riguardo?
Su tali aspetti si è espressa la Ctr Lombardia con la sentenza 4915/18, depositata il 14 novembre (presidente e relatore Punzo). La Ctr ha considerato insufficiente, di per sé, l’esistenza in Italia di una sede fissa della società straniera situata nel medesimo immobile nel quale insiste la sede della società italiana “correlata”. Nel caso di specie, infatti, tale indizio era l’unico evidenziato dall’ufficio, mentre sussistevano una serie di presunzioni contrarie, e in particolare:
la Srl italiana non era partecipata dalla società straniera. Al contrario, era quest’ultima a essere posseduta (con quota di minoranza) dalla prima;
non emergevano ingerenze e/o condizionamenti della società straniera.
Interessante è il raffronto con la sentenza 4869/2017, depositata un anno prima, della medesima Ctr Lombardia. Anche in questo caso, la società straniera risultava avere l’uso di locali e strutture in cui operava la società italiana. Tuttavia, tale situazione veniva accompagnata da altri indizi:
esistenza di controllo della società straniera nella società italiana;
direttive stringenti della casa madre sui processi di vendita della controllata italiana;
proprietà della lista clienti utilizzata dalla società italiana in capo alla casa madre straniera; costi, per struttura e dipendenti, interamente gravanti sulla casa madre.
Nel caso di specie, i giudici hanno reputato le presunzioni come sufficientemente forti da poter considerare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di società straniera.

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Fisco leggero per gli utili fuori dalla black list

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 07 FEBBRAIO 2019 di Marco Piazza

SOCIETÀ ESTERE

Niente tassazione integrale se il Paese non è più a fiscalità privilegiata

La legge 205/2017, però, non guarda al momento di maturazione

I dividendi distribuiti da una società estera e formati con redditi prodotti in un esercizio in cui era considerata black list con le regole all’epoca vigenti, ma non con le regole vigenti al momento della distribuzione, non sono soggetti a tassazione integrale. A confermarlo è stata l’agenzia delle Entrate in una delle risposte fornite a Telefisco 2019.
In base alla circolare 35/E del 2016, nell’ipotesi in cui gli utili (o le plusvalenze) si debbano qualificare – sulla base delle disposizioni in vigore al momento della percezione o della realizzazione in capo al socio italiano – come provenienti da un regime fiscale privilegiato, gli stessi sono assoggettati al regime di integrale concorrenza al reddito imponibile; invece, nel caso in cui gli utili (o le plusvalenze) «si debbano qualificare – sulla base delle disposizioni in vigore al momento della distribuzione – come non provenienti da un regime fiscale privilegiato, beneficiano del regime di parziale esclusione, salvo il riscontro della sussistenza del requisito stesso anche rispetto al momento di effettiva formazione dell’utile distribuito».
A questo proposito, da un lato è stata apprezzata la scelta di non sottoporre a tassazione integrale i dividendi attinti da utili formatisi in periodi in cui la società era black list (secondo le regole all’epoca vigenti) ma che, con il metro di giudizio attuale, non lo sarebbe stata. Ha invece destato perplessità la tassazione integrale degli utili prodotti in un esercizio in cui, secondo la regola all’epoca vigente, la società non era black list, solo per il fatto di essere distribuiti in un esercizio in cui, per effetto del cambio di regola, la società è considerata a fiscalità privilegiata.
L’articolo 1, comma 1007 della legge 205 del 2018 ha quindi opportunamente disposto, in estrema sintesi, che non sono soggetti a tassazione integrale gli utili prodotti in un esercizio in cui, con la legislazione all’epoca vigente, non erano considerati “black”, anche se al momento della distribuzione la società è considerata residente in un Paese a fiscalità privilegiata.
Per quanto riguarda la valenza applicativa di questa norma, l’Assonime nella circolare 15 del 2018, paragrafo 2.6, ha ritenuto che essa non intenda integralmente “ripudiare” la tesi seguita dall’Agenzia nella circolare 35/E, ma semplicemente “correggerla” in parte, per l’ipotesi in cui l’impresa estera non fosse considerata privilegiata all’epoca di formazione dell’utile e lo sia divenuta al momento della distribuzione di tale utile. Ha comunque auspicato un chiarimento ufficiale.
A questo proposito, in occasione di Telefisco 2019, l’Agenzia ha confermato che con la legge 205 del 2017 non si è inteso introdurre una disposizione di portata generale, incentrata sul periodo di maturazione degli utili. Pertanto, il comma 1007 non si applica ai dividendi che si sono formati quando l’entità estera era considerata residente in un Paese considerato a fiscalità privilegiata «secondo le norme all’epoca vigenti». In questa ipotesi restano fermi i chiarimenti che sono stati forniti con la circolare 35/E del 2016.
In altri termini, una società che oggi non è considerata a fiscalità privilegiata può distribuire, senza applicazione della tassazione integrale, utili pregressi prodotti in un esercizio in cui era considerata, con i criteri pro-tempore vigente, black list se, nell’esercizio in cui tali utili si sono generati, la partecipazione può essere considerata “non black” con i criteri di oggi (Assonime, circolare 17 del 2017).

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Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 21 FEBBRAIO 2019 di Angelo Busani

EDILIZIA

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata

L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli

Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.

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Il «centro d’interesse» del residente all’estero

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore del 18 Febbraio 2019 di Fabrizio Cancelliere

Dichiarazione dei redditi delle persone fisiche

Quando vengono meno i presupposti del “centro d’interesse” che impongono a un cittadino iscritto Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia? Quali documentazioni sono necessarie per supportare il venir meno del centro d’interesse?
S.G.MILANO
Non esistono indicazioni puntuali, nella normativa, per definire il centro d’interesse che integra una delle tre circostanze fattuali che determinano la residenza fiscale in Italia, vale a dire il domicilio. A livello normativo, infatti, il Codice civile si limita a definire il domicilio di una persona come il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Nel dettaglio, il domicilio consta di due elementi: quello oggettivo, in riferimento ai rapporti economici, morali, sociali e familiari; quello soggettivo, derivante dall’intenzione del soggetto stesso di fissare in un determinato luogo il centro dei propri affari o interessi. A livello pratico e di prassi, la verifica sull’effettivo domicilio può essere svolta sulla base di molteplici indicatori, come ad esempio l’utilizzo di un abitazione e la relativa frequenza, desumibile dall’analisi delle utenze, l’analisi degli spostamenti da e verso l’estero, la presenza dei familiari, il luogo di lavoro, eccetera. Per rispondere alla domanda, dunque, possono in linea teorica rilevare gli elementi appena citati, anche in direzione contraria; vale a dire fornendo prova della prevalenza di tali elementi nello Stato estero, rispetto a quello italiano. Va comunque considerato che, salvo i casi di trasferimenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”, l’onere della prova – con riferimento ai cittadini iscritti all’Aire – spetta all’amministrazione finanziaria; e che i casi di doppia residenza fiscale possono essere gestiti attraverso le regole previste dai trattati contro le doppie imposizioni, che fissano delle regole per stabilire quale dei due Stati debba considerarsi prevalente ai fini della residenza.

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Costo del lavoro spia dell’evasione

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 5 FEBBRAIO 2019 di Giuseppe Napoli e Raffaele Vitale

FONDAZIONE VISENTINI – CERADI

La Suprema Corte, con l’ordinanza 25290/2018, ha integrato il canone pretorio dell’antieconomicità ritenendo valido come elemento presuntivo la presenza di un dipendente con una retribuzione di poco inferiore al reddito del datore di lavoro. Nel caso di specie, il giudice di legittimità, ha esaminato un rilevante corredo istruttorio, costituito dal reddito del dipendente, dal tenore di vita del contribuente e dall’ubicazione dell’attività, ritenendolo indicativo di una incoerenza logica nella gestione imprenditoriale e, quindi, idoneo a disconoscere le scritture contabili e a consentire la determinazione induttiva del reddito. Invero, negli ultimi anni, i mass-media hanno commentato i dati del Mef sulle dichiarazioni dei redditi, evidenziando come la media delle retribuzioni dei dipendenti risulti spesso superiore a quanto dichiarato dagli imprenditori. Pur dando atto che ragionevoli scelte imprenditoriali o sfavorevoli contingenze economiche concorrano a determinare una siffatta incoerenza per alcuni degli interessati, per altri il dato appare sintomatico di evasione, tanto più grave quando il datore di lavoro goda anche di sussidi altrimenti non spettanti.
Orbene, si auspica un’opportuna riflessione de iure condendo, giacché la griglia normativa offerta dalle presunzioni tributarie semplici potrebbe presentare maglie troppo strette, ove il dato presuntivo non fosse accompagnato da nuovi elementi di prova, mettendo a rischio l’esito dell’accertamento, ovvero troppo larghe, così da esporre l’imprenditore a un caleidoscopio di valutazioni e scoraggiare politiche d’investimento sulle risorse umane. Nello stesso tempo, il quadro delle presunzioni legali esige un costante aggiornamento, per far emergere nuove condotte potenzialmente evasive e perfezionare gli strumenti in uso.
In ragione di tali esigenze potrebbe prevedersi una presunzione legale relativa, in base alla quale il reddito dell’imprenditore non dovrebbe essere inferiore al reddito medio dei suoi dipendenti. In modo analogo, in ipotesi di società a ristretta base societaria, la società dovrebbe dichiarare un reddito non inferiore a quello medio dei dipendenti, moltiplicato per il numero dei soci. La presunzione risponderebbe a un canone di ragionevolezza, riconoscendo al contribuente ampia facoltà di fornire prova contraria. La possibile censura di convenienza a pagare meno o in nero i propri dipendenti, è superabile, trattandosi di un aggiramento della norma oneroso, in ragione dei minori costi deducibili e delle sanzioni conseguenti alla relativa evasione contributiva. Nel frattempo, l’Amministrazione finanziaria avrebbe la possibilità di eseguire controlli più efficienti, concentrati su coloro non in linea con la presunzione, e più efficaci, nella misura in cui una maggiore ponderazione e la predeterminazione del criterio presuntivo, rendono l’esito dell’attività di verifica meno incerto.

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Invio esterometro, i punti da chiarire prima del 30 aprile

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 18 FEBBRAIO 2019 di Giampaolo Giuliani

ADEMPIMENTI

Dal concetto di operazioni «transfrontaliere» ai soggetti esonerati

L’annunciata proroga al 30 aprile dell’invio dell’esterometro dà un po’ di respiro agli operatori. In ogni caso, sarebbe bene sfruttare il tempo in più per puntualizzare alcuni aspetti critici di questa comunicazione (che prevede la trasmissione telematica dei dati Iva delle operazioni transfrontaliere, ex articolo 1, comma 3-bis, del Dlgs 127/2015). Anche perché in questo modo l’esterometro andrà a coincidere con la scadenza della presentazione della dichiarazione annuale Iva, e bisognerà arrivare preparati.
Pur presentando diverse similitudini con lo spesometro, l’esterometro ha comunque numerose peculiarità che ne rendono insidiosa la predisposizione.
Sotto questo profilo, il primo equivoco che è opportuno chiarire riguarda l’uso improprio del termine “transfrontaliero”, poiché l’esterometro riguarda tutte le operazioni in cui viene emessa una fattura cartacea e sono coinvolti soggetti non residenti. Si pensi, solo per fare un esempio, all’ipotesi in cui un’impresa di ristrutturazione sia chiamata da un privato inglese per recuperare il proprio casale acquistato in Toscana.
Premesso ciò, per quel che attiene la delimitazione del perimetro soggettivo, ci si chiede se debbano comunque compilare l’esterometro i cosiddetti soggetti passivi “minori” o che operano in franchigia – minimi e forfettari su tutti – e non sono tenuti a emettere fattura elettronica. Anche se il dato letterale potrebbe far sorgere qualche dubbio, si può ritenere che la risposta sia negativa. Altrimenti, avremmo il paradosso di soggetti esclusi dalla fatturazione elettronica, ma obbligati all’esterometro.
Al di là delle esclusioni di tipo soggettivo, poi, non dev’essere trasmesso l’esterometro per tutte quelle operazioni, realizzate tra soggetti passivi stabiliti e soggetti passivi non stabiliti o privati non residenti, nel caso in cui sia stata emessa fattura elettronica oppure bolletta doganale di esportazione o di importazione.
Un altro argomento meritevole di un chiarimento è quello legato alle fatturazioni per operazioni fuori campo Iva per carenza del presupposto territoriale. L’articolo 21, comma 6-bis, lettere a) e b), del Dpr 633/72 richiede l’emissione della fattura per tutte le operazioni fuori campo Iva, con esclusione di quelle finanziarie e assicurative che intervengono tra soggetti passivi stabiliti nella Ue. Ne dovrebbe conseguire che quelle escluse non hanno l’obbligo di essere indicate nell’esterometro.
Si consideri, ad esempio, il pagamento di interessi in favore di un soggetto passivo stabilito in Italia da parte di un operatore tedesco o di un operatore svizzero. Nel primo caso non dev’essere emessa fattura nei confronti dell’operatore tedesco, per esplicita previsione della lettera a) del citato comma 6-bis; mentre, al contrario, va emessa fattura all’operatore svizzero, in base alla successiva lettera b). Ne consegue che solo questa seconda operazione dev’essere indicata nell’esterometro.
È ammessa, comunque, l’emissione di una fattura elettronica nei confronti di soggetti non stabiliti, indicando nel codice destinatario sette «X» o sette «0», a seconda che l’intestatario della fattura elettronica sia, rispettivamente, il rappresentante fiscale o – tramite identificazione diretta – il soggetto non stabilito. Emettendo la fattura elettronica, non è più obbligatorio compilare l’esterometro.
Un ulteriore elemento degno di nota riguarda l’individuazione delle operazioni da rilevare in ogni singolo mese, che si basa sulla data del documento emesso o su quella di ricezione del documento comprovante l’operazione. Per data di ricezione deve intendersi la data di registrazione dell’operazione ai fini della liquidazione Iva.
Pertanto, nei rapporti con soggetti non residenti, l’assolvimento dell’imposta richiede spesso da parte del cessionario/committente stabilito in Italia il meccanismo dell’inversione contabile, anche con la predisposizione di un’autofattura; e dunque, il termine di riferimento per la compilazione dell’esterometro non può che essere il termine ultimo per la predisposizione di tale documento.
Diversamente, negli acquisti effettuati presso un operatore comunitario, la data di riferimento è la data di ricezione della fattura da cui derivano tutti gli adempimenti Iva per assolvere l’imposta.

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Il reato prescritto obbliga a revocare il sequestro di beni

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore 19 FEBBRAIO 2019 di Laura Ambrosi

Corte di Cassazione

Il provvedimento deve essere contestuale alla pronuncia del giudice

Se il reato tributario è prescritto, il giudice che rileva l’estinzione del delitto deve revocare anche il sequestro o la confisca per equivalente disposta sui beni riconducibili all’imprenditore.
A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 7260 depositata ieri.
Alcuni imprenditori ritenuti amministratori di fatto e di diritto di una società venivano condannati in primo grado per dichiarazione infedele dei redditi e occultamento di scritture contabili. Conseguentemente era disposta la confisca per equivalente dei beni precedentemente sequestrati.
La corte di appello, adita dagli imputati, riformava la pronuncia in quanto rilevava l’intervenuta prescrizione del reato di dichiarazione infedele e quindi diminuiva la pena precedentemente irrogata, ma confermava la confisca disposta sui beni in sequestro appartenenti a uno dei due imprenditori.
Era così proposto ricorso per cassazione lamentando tra l’altro che stante la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, essa non poteva essere confermata, come aveva erroneamente affermato la corte territoriale, una volta esclusa la rilevanza penale del fatto per intervenuta prescrizione.
I giudici di legittimità hanno accolto questo motivo di impugnazione: dichiarando il proscioglimento dell’imputato per il reato di dichiarazione infedele stante l’intervenuta estinzione per prescrizione del delitto, la corte di Appello oltre a rideterminare la pena da irrogare doveva anche revocare l’avvenuta confisca dei beni sequestrati
In altre parole il giudice nel momento in cui rileva l’intervenuta prescrizione non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che hanno costituito il prezzo o il profitto del reato.
Di conseguenza se dichiara l’estinzione del reato per prescrizione deve contestualmente revocare la confisca per equivalente, essendo venuto meno il sequestro cautelare per effetto della decisione, e disporre la restituzione all’avente diritto dei beni erroneamente vincolati
La sentenza è interessante perché i procedimenti per reati tributari si caratterizzano di sovente sia per il sequestro per equivalente, nella fase delle indagini preliminari, nei confronti dell’imprenditore di un importo pari al profitto del reato, sia per la loro (non rara) estinzione per intervenuta prescrizione.
In queste ipotesi la Cassazione chiarisce in modo netto che la confisca, e quindi il precedente sequestro, diventa illegittima e deve essere disposta la restituzione dei beni.

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Licenziamento esteso ai fatti extra-lavoro

8 Marzo 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 25 FEBBRAIO 2019 di Marcello Floris

CONTENZIOSO

Il comportamento estraneo alla prestazione può ledere la fiducia del datore

Contano anche le azioni commesse in passato o in altri periodi professionali

Le condotte estranee all’attività lavorativa che il lavoratore ha tenuto persino prima dell’assunzione possono essere tali da giustificare il licenziamento per giusta causa. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 428 del 10 gennaio 2019. Nel caso specifico, un dipendente, già licenziato in seguito a un procedimento penale, era stato riassunto dopo un accordo conciliativo, ma poi era stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti differenti, sempre commessi prima del nuovo rapporto. Il lavoratore è stato dunque licenziato di nuovo e il suo ricorso è stato infine respinto dalla Corte.
Analogamente, con la sentenza 4804 del 19 febbraio 2019, la Corte ha ritenuto che una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile possa costituire giusta causa di licenziamento, anche se il riflesso sul rapporto di lavoro è solo potenziale.
La lesione del vincolo fiduciario
Da sempre la giusta causa di licenziamento si verifica quando è irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro. La fiducia è quindi condizione per la permanenza del rapporto e può essere compromessa non solo da specifici inadempimenti contrattuali, ma anche da condotte extralavorative che, non riguardanti direttamente l’esecuzione della prestazione, possano comunque ledere il vincolo fiduciario, qualora abbiano un riflesso sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.
I comportamenti passati
Sulla base di questo ragionamento – secondo la Corte – a maggior ragione ha rilevanza la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione. In questo caso, può essere riconosciuta una giusta causa di licenziamento, poiché essa non si riferisce solo alla condotta disciplinare, ma anche a quella che, estranea al rapporto lavorativo, si riveli incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario sul quale lo stesso si fonda.
Le condotte extralavorative che possono essere rilevanti ai fini dell’integrazione della giusta causa di licenziamento riguardano tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all’instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate.
Il rilievo disciplinare
Con la sentenza 21958 del 10 settembre 2018, la Cassazione aveva ritenuto che anche una condotta illecita extralavorativa del prestatore potesse avere rilievo disciplinare, e pertanto anche dar luogo alla più grave delle sanzioni, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a evitare, fuori dell’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario. Tuttavia, in quel caso, la Corte ha ritenuto che tali principi non fossero applicabili nel caso di maltrattamenti nei confronti di familiari da parte del dipendente, anche se accertate con sentenze penali di condanna, poiché costui non aveva mai tenuto comportamenti aggressivi o violenti in ambito lavorativo.
Con la sentenza 30328 del 18 dicembre 2017, invece, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore, condannato penalmente per avere indotto alla prostituzione una sua collega di lavoro in condizioni di minorazione psichica. I principi applicati sono simili a quelli già illustrati.
La condotta illecita extralavorativa può avere rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non mettere in atto, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso. Nel caso specifico, la condotta complessiva del lavoratore era stata ritenuta di gravità tale da rescindere con effetto immediato il vincolo fiduciario.
Come si vede da questo rapido excursus la giurisprudenza ha applicato con costanza, sostanzialmente, gli stessi parametri interpretativi.
Gli esiti però sono variati in modo significativo, in seguito alla differente valutazione che i giudici hanno dato della condotta di ciascun lavoratore e dell’impatto che la stessa ha avuto sul vincolo fiduciario e, conseguentemente, sul rapporto di lavoro.

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Raddoppio dei termini black list senza retroattività

13 Febbraio 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore – 31 01 2019 di Laura Ambrosi

Investimenti e attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate si presumono redditi sottratti a tassazione solo dal 2009 in quanto la norma non può considerarsi retroattiva. A confermare questo principio è la Cassazione con la sentenza 2562/2019 depositata ieri (clicca qui per consultarla ).

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato dall’agenzia delle Entrate con il quale venivano contestati maggiori redditi per il 2005 derivanti da alcune disponibilità finanziarie detenute in un paese a fiscalità privilegiata.

La pretesa era fondata sulla presunzione introdotta dall’articolo 12 del Dl 78/2009 secondo il quale gli investimenti e le attività finanziarie detenute all’estero in paesi black list e non dichiarate nel quadro RW, si presumono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia. Peraltro, tale norma, ha previsto che per l’accertamento di tali redditi l’ordinario termine di decadenza sia raddoppiato.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario, eccependo tra i diversi motivi, l’inapplicabilità della norma per il periodo di imposta 2005.
Si trattava, infatti, di una applicazione retroattiva della disposizione introdotta solo nel 2009.

Entrambi i collegi di merito rigettavano le doglianze del contribuente, il quale ricorreva così in Cassazione. La Suprema corte, confermando l’orientamento già espresso, ha ribadito che tale norma in vigore dal 1° luglio 2009 non ha efficacia retroattiva in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, poiché ha introdotto delle nuove presunzioni.
Una diversa interpretazione, infatti, pregiudicherebbe il diritto di difesa rispetto alla scelta del contribuente di conservare un certo tipo di documentazione probatoriamente rilevante.
In tale contesto, va segnalato che con la sentenza nr. 33223/2018 dello scorso dicembre i giudici di legittimità avevano altresì chiarito che si tratta di una norma che pone in favore del fisco una presunzione legale relativa con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

L’interessato, quindi, per evitare l’imposizione è tenuto a fornire documentazione che potrebbe non aver conservato, attesa l’inesistenza di una norma simile prima della sua introduzione. Per tale ragione, la disposizione ha carattere sostanziale e come tale non può essere applicata retroattivamente.

La decisione è particolarmente importante perché, nonostante qualche precedente in tal senso, l’agenzia delle Entrate è ferma nel ritenere la retroattività della presunzione in argomento.

 

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