Per chi ha attività e beni non dichiarati in Svizzera la resa è vicina

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 07 SETTEMBRE 2019  di Lucilla Incorvati

ANALISI

Per gli evasori duri e puri che per anni hanno lasciato i loro averi in Svizzera pensando di non essere scoperti, la possibilità di continuare a farla franca è ormai ridotta all’osso. Si tratta di individui (sul numero è difficile fare previsioni) che, per quanto sollecitati a regolarizzare la proprio posizione (scudo fiscale 1 e 2 , voluntary disclosure e altro)praticamente da dieci anni a questa parte, hanno continuato ad avere condotte illecite. Dopo tanti annunci l’Agenzia delle Entrate italiana è passata all’azione e chi si trova in questa situazione non ha che una via, vale a dire procedere con il ravvedimento operoso.

Qualche settimana fa alcune banche svizzere (una per tutte Ubs ma anche altre banche elvetiche sono state sollecitate) hanno comunicato ad alcuni clienti (tutti residenti in Italia con conto in Svizzera) che l’Agenzia delle Entrate, per il tramite dell’Agenzia fiscale svizzera, ha fatto una richiesta di scambio di informazioni di gruppo. E così verso i clienti “stanati” di fatto si è aperto un procedimento perché la banca trasmetterà i nomi all’Agenzia fiscale svizzera che li passera a quella italiana. Di fronte al procedimento ci si può opporre oppure acconsentire. Se si acconsente i dati vengono trasmessi subito, in caso contrario si apre una causa e in base all’esito si deciderà sulla trasmissione.

«Al contribuente che sa di essere nell’elenco, ma soprattutto sa di non essere in regola – spiega Stefano Noro, partner dello studio fiscale Sala Noro e Associati – suggeriamo al più presto di procedere con il ravvedimento operoso. Anche perché sono soggetti che già avevano ricevuto dalle banche più di una sollecitazione in tal senso». Nello specifico la richiesta di regolarizzazione riguarda gli anni 2015/2016 quando ancora non era in vigore lo scambio automatico (i contribuenti sono invitati a trasmettere il saldo al febbraio 2015 e al 31/12/2016 perché poi dal 2017 lo scambio di informazione è diventato automatico).

«Le violazioni in atto sono due – aggiunge Noro -. In primis non aver indicato il patrimonio nel quadro RW con sanzione dal 6 al 30% dei patrimoni; la seconda sanzione, decisamente più grave, riguarda il fatto se i capitali sono stati formati in anni ancora accertabili (per esempio il soggetto ha trasferito il denaro dall’Italia all’estero oppure da estero a estero dal 2010/2016) c’è da pagare anche l’Irpef dal 180 al 360%».

Insomma, un bel salasso.

 

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La Convenzione contro le doppie imposizioni prevale sull’Aire

10 Settembre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore 19/08/2019 di Gianluca Dan

Con la sentenza 2212/5/2019 depositata il 16 luglio scorso la Commissione tributaria regionale della Puglia ha sancito il principio che nell’accertamento della residenza fiscale di un soggetto trasferitosi all’estero che abbia mantenuto la residenza anagrafica in Italia, non è corretta la mera applicazione dell’articolo 2, comma 2, del Tuir, dovendosi preliminarmente considerare, se invocata, la Convenzione contro le doppie imposizioni applicabile nei rapporti tra gli Stati.

Il caso esaminato afferiva ad un contribuente trasferitosi in Romania dal 2007 il quale non aveva dichiarato in Italia i redditi prodotti e percepiti in Romania ritenendosi fiscalmente residente all’estero: l’amministrazione finanziaria contestava quindi la mancata dichiarazione dei redditi, con le conseguenti richieste di imposte e sanzioni, stante il perdurare negli anni oggetto di verifica della sua iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente.

Il caso di doppia residenza (Romania-Italia) è stato risolto dai giudici di merito applicando l’articolo 4 della Convenzione (conforme al modello Ocse), che il difensore aveva invocato nel rinvio all’articolo 75 del Dpr 600/1973, in forza del quale «nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia», ritenendoli fonte vincolante con efficacia di legge primaria e prevalente sulle fonti interne.

Di conseguenza, l’articolo 2, comma 2, del Tuir, è stato interpretato non già alla stregua di una presunzione legale, ma iuris tantum, acconsentendo alla prova contraria proprio sulla base dei criteri dettati dalle convenzioni internazionali nelle ipotesi in cui sussistano i presupposti per la loro applicazione (con un indirizzo giurisprudenziale opposto all’orientamento della Corte di cassazione, si vedano le sentenze Ctr Lombardia 4207/2014, Ctr Toscana 506/2017 e 840/2018, Ctr Puglia 831/2017).

Ricordiamo che l’articolo 2, comma 2, citato considera fiscalmente residenti in Italia ai fini delle imposte sui redditi le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia per almeno 183 giorni o 184 se annualità bisestile) risultano, alternativamente:

  1. i) iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
  2. ii) non iscritte nelle anagrafi della popolazione residente ma che hanno nel territorio dello Stato il domicilio (inteso come il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi anche di carattere affettivo/familiare) o,

iii) la residenza ai sensi del Codice Civile.

La Ctr Puglia, dando ragione al contribuente dopo aver analizzato i requisiti fattuali per l’applicazione della norma convenzionale (in via graduata, la sussistenza di un’abitazione permanente, il centro di interessi vitali, il soggiorno abituale all’estero), si è peraltro posta in linea con l’attuale dettato normativo che, per la prima volta, con l’articolo 5, del decreto crescita (Dl 34/2019) ha sancito la rilevanza della pregressa residenza dei contribuenti in uno stato estero ai sensi delle convenzioni contro le doppie imposizioni ai fini dell’applicazione dei regimi agevolativi di cui all’articolo 16, Dlgs 147/2015 («lavoratori impatriati») e all’articolo 44 del Dl 78/2010 («rientro dei cervelli»), abbandonando la rigida interpretazione fornita dall’amministrazione e dalla giurisprudenza di legittimità, per le quali l’iscrizione all’anagrafe e, di conseguenza, la mancata iscrizione all’Aire, continuerebbe ad avere un valore di presunzione assoluta di residenza nel territorio dello Stato, preclusiva di ogni ulteriore verifica.

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La fattura generica esclude la detrazione

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 26/08/2019 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza

IVA

Non basta fornire le lettere di incarico senza data certa e in sede di accertamento

Per la Ctp Milano 2897/05/2019 (presidente Bolognesi, relatore Chiametti), in presenza di una fattura di acquisto riportante una descrizione generica del servizio effettuato, non può essere operata la deduzione del costo ai fini delle imposte sui redditi, né può essere esercitata la detrazione dell’Iva afferente.

Nel caso in esame l’oggetto del servizio era stato indicato in fattura con le locuzioni «lavorazioni di terzi», senza dettaglio dei servizi prestati. Inoltre, a seguito di accesso dei funzionari e anche dopo il rilascio di processo verbale di constatazione, il contribuente destinatario di tali servizi non aveva prodotto alcuna documentazione esplicativa delle operazioni effettuate. Solo in sede di accertamento con adesione, erano state presentate le lettere di incarico relative ai servizi di procacciamento d’affari oggetto delle fatture, le ricevute dei bonifici bancari e le fatture di acquisto ricevute a loro volta dai fornitori.

Per la Ctp Milano, tuttavia, la condotta del contribuente non legittima la deduzione dei costi e la detraibilità dell’Iva, sia per la genericità dell’oggetto indicato in fattura, sia per l’assenza di elementi probatori di segno contrario offerti dalla parte. La condotta del contribuente viene censurata in quanto, in violazione dell’obbligo previsto dall’articolo 21, comma 1 lettera g), Dpr 633/1972, l’emittente della fattura aveva omesso di indicare in modo specifico la «natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione». L’oggetto dell’operazione è un elemento essenziale della fattura, sicché l’emittente ha l’obbligo di indicare con esattezza i beni o i servizi ceduti (e il destinatario è tenuto a essere vigile).

Secondo la Ctp, in linea con la Cassazione (27777/2017 e 21980/2015), la descrizione generica dell’operazione «non soddisfa le finalità conoscitive che la norma intende tutelare». Una fattura priva di tale requisito essenziale non costituisce elemento probatorio a favore delle parti e, in particolare, del cessionario che intende contabilizzare i costi e detrarre l’Iva afferente. E in presenza di una fattura generica – sia in formato cartaceo sia elettronica – l’assolvimento dell’onere probatorio incombente sul cessionario circa il servizio ricevuto sarà particolarmente difficile.

È certamente consentito che il contribuente possa dimostrare l’effettività del servizio ricevuto, a dispetto della genericità della fattura di acquisto, ma gli elementi richiesi in tali ipotesi devono essere tali da fornire la prova univoca del nesso tra l’operazione e il documento “generico”.

La Ctp, senza escludere in astratto la possibilità che tale prova venga fornita, l’ha tuttavia esclusa nel caso concreto, in quanto i documenti (in particolare le lettere d’incarico prodotte) sono stati ritenuti non idonei: oltre a non presentare data certa, erano stati presentati in ritardo, con conseguente operatività della preclusione di cui all’articolo 52, comma 5, Dpr 633/1972; inoltre i fornitori emittenti le fatture non risultavano aver presentato alcuna dichiarazione dei redditi nel periodo d’imposta accertato e in quelli precedenti.

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Elenco dettagliato di documenti per provare le vendite intra-Ue

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 22/08/2019 di Simona Ficola e Benedetto Santacroce

MERCI

Il 1° gennaio 2020 entrerà in vigore il regolamento Ue 1912/18

Finora senza disciplina il test di non imponibilità in capo al fornitore

Ultimi mesi di tempo per le aziende che operano nel mercato intraunionale per verificare i documenti di prova delle cessioni intracomunitarie. Il 1° gennaio 2020, infatti, entrerà in vigore il regolamento Ue 1912/18 che ha individuato documenti da cui si presume che i beni sono stati spediti o trasportati dal territorio di uno Stato membro a un altro Stato membro.

La questione della prova delle cessioni intracomunitarie si pone come un punto focale per l’espansione delle imprese all’estero. Infatti, le cessioni effettuate ai sensi dell’articolo 41 del decreto legge 331/93 – non imponibili – necessitano di avere la prova del trasporto della merce presso altro Stato membro.

Ebbene, sino ad ora, per le cessioni intraunionali, la prova della non imponibilità in capo al fornitore non era determinata per legge, sicché nei vari Stati si sono manifestati diversi orientamenti. Con riferimento al panorama nazionale, si è fatto riferimento alle interpretazioni (confronta risoluzioni 345/07 e 477/08) che, sostanzialmente, hanno individuato come prova primaria il documento di trasporto CMR, per tutte le spedizioni via terra; ovvero i documenti di trasporto tipici (AWB, B/L) per il trasporto aereo e nave. Tali prove devono essere monitorate e richieste, in primis ai clienti, nelle ipotesi di cessione EXW, ossia franco fabbrica/franco magazzino; quando, invece, il trasporto è a cura della società, la prova deve essere richiesta allo spedizioniere incaricato.

Il legislatore unionale è intervenuto sul tema con il citato regolamento Ue 1912/18, in cui ha fornito un elenco di documenti considerati validi come prova dell’avvenuta cessione intraunionale, in quanto atti a dimostrare che i beni sono stati spediti o trasportati dallo Stato membro di origine a quello di destinazione.

Si badi però che se è vero che l’individuazione puntuale della documentazione a supporto per la prova della cessione intraunionale costituisce un elemento di certezza in merito all’onere probatorio, è anche vero che costituisce un vincolo per l’impresa nel reperire l’esatta documentazione richiesta dalla norma.

In questo contesto, si pone peraltro un problema applicativo sulla corretta gestione della documentazione dettagliatamente individuata nel regolamento Ue che l’impresa deve essere in grado di reperire per evitare il rischio di veder disconosciuta l’operazione di cessione intraunionale qualora la stessa non fosse in possesso della prova dell’avvenuta uscita della merce dal territorio dello Stato.

In realtà, se approcciato attivamente e con anticipo, il sistema normativo fornisce all’operatore strumenti di certezza sino ad ora non individuati dalla norma, che consentono definizioni preventive e in sicurezza di temi che, in alternativa, rischiano di tramutarsi in oneri, in termini di imposta e sanzionatori, molto gravosi.

Peraltro, anticipando di fatto il legislatore, l’agenzia delle Entrate, con la risposta 100/2019, ha già dato pieno riconoscimento alle indicazioni fornite con il citato regolamento 1912/18/Ue. Infatti, la risposta, oltre a ripercorrere la giurisprudenza unionale e la prassi amministrativa interna in materia, per la prima volta richiama le nuove prescrizioni imposte a tutti gli operatori dell’Ue regolamento unionale. In definitiva, il tema si presenta estremamente attuale, fondamentale in termini di compliance e di chance commerciali con gli altri Stati membri è deve essere necessariamente valutato e monitorato dalle singole imprese, a seconda delle diverse esigenze di business.

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Maxi condanna per segreti violati

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore  6/08/2019 di Alessandro Galimberti

TRIBUNALE IMPRESE

Ex manager dovrà pagare 4,5 milioni alla società di cui era stato anche “ad”

milano

Manager condannato a risarcire 4,5 milioni di euro alla società – una multinazionale tedesca – di cui era stato “ad” e dipendente. Interessante sentenza del tribunale di Ancona – sezione specializzata in materia di impresa – in tema di violazione di segreti industriali, sia per il metodo di calcolo del danno, sia per le ulteriori prescrizioni contro il convenuto (tra cui 100mila euro di penale per ogni violazione dell’inibitoria). I fatti di causa, che verosimilmente occuperanno l’autorità giudiziaria per altri gradi, risalivano al 2012, dopo che l’amministratore della collegata italiana aveva lasciato la multinazionale. Contemporaneamente la società aveva avuto notizia di movimenti dell’ex dipendente nei mercati dell’Est asiatico, con il forte sospetto (anche documentale) di utilizzo di formule chimiche aziendali oggetto di tutela e a beneficio di società già clienti. Ne era seguita una perquisizione al domicilio dell’ex dipendente con sequestro di numerosi documenti “sensibili” che, a termini contrattuali, avrebbero dovuto essere restituiti da tempo.

Secondo i giudici lo sfruttamento abusivo dei dati tecnici riservati, mostra da parte dell’ex manager «l’intento parassitario di risparmiare sui costi e sui tempi per l’immediato avvio dell’attività, successiva alla sua uscita, in concorrenza con la medesima, e in specifica violazione di segreti tecnici e commerciali». Per il tribunale «il regime di leale concorrenza viene violato anche se si risparmia, con la sottrazione o utilizzazione di dati riservati, in termini di tempi e costi per una autonoma ricostruzione delle informazioni industriali necessarie o utili, con il conseguente compimento di atti concorrenziali sleali, in relazione a ogni acquisizione avvenuta per sottrazione e non per autonoma capacità di elaborazione». Nessun dubbio, infatti, che le informazioni segrete costituenti il know how di una impresa, frutto della ricerca e degli investimenti, sono a pieno titolo «diritti di proprietà industriale, pienamente tutelabili». Quanto alle modalità di calcolo del maxi risarcimento, i giudici hanno avuto riguardo al lucro cessante della parte danneggiata, che può essere determinato «in una somma pari alle cosiddette royalties che le parti avrebbero ragionevolmente concordato, in caso di acquisizione del diritto di sfruttamento del know how», e non invece in riferimento delle cifre appostate in bilancio per l’intangible.

Secondo la società, rappresentata a giudizio da Dla Piper «risultato importante che rende giustizia a chi investe in ricerca e nella protezione del know-how, e che testimonia l’attenzione crescente dell’autorità giudiziaria alla proprietà intellettuale».

 

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È reato di riciclaggio incassare assegni per conto terzi

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 15/08/2019 di Valerio Vallefuoco

CASSAZIONE

Punito il dipendente che «pulisce» il denaro sporco per il datore di lavoro

Commette il reato di riciclaggio chi monetizza diversi assegni bancari di cospicuo valore di soggetti terzi sul proprio conto corrente bancario per poi consegnare il denaro al proprio dante causa. Così la Corte di cassazione con la sentenza 35404/2019. I fatti riguardavano il dipendente di una società che su incarico del proprio datore di lavoro, l’amministratore della società per cui tale soggetto lavorava, ha versato su un suo conto corrente diversi assegni bancari poi risultati provenienti da attività truffaldine.

La Suprema Corte nel confermare la condanna dei giudici di merito ha ritenuto utile dover ribadire in questo caso la differenza tra il reato di ricettazione e quello di riciclaggio di cui all’articolo 648 bis del Codice penale. Quest’ultimo infatti è caratterizzato in relazione all’elemento materiale della condotta che si sostanzia nella sostituzione, nel trasferimento di beni o di denaro di provenienza delittuosa ovvero nel compimento di altre operazioni con la finalità di ostacolare l’identificazione dell’origine di tali beni o fondi.

Per quanto riguarda il cosiddetto elemento psicologico che caratterizza il reato di riciclaggio la Corte ha ritenuto sufficiente anche il solo dolo generico, ossia la consapevolezza di fare delle operazioni tese anche solo ad ostacolare potenzialmente la provenienza delittuosa dei beni. In questo senso la Corte ha richiamato alcuni precedenti specifici del 2017 (sentenza 30265/2017).

Si concretizza il reato di riciclaggio secondo la pronuncia della Cassazione sia nel caso in cui la condotta dell’imputato sia tesa in modo definitivo a impedire l’accertamento dell’origine illecita delle attività o dei beni sia quando tali condotte siano solo volte a rendere più difficile l’accertamento della provenienza del denaro sporco anche indipendentemente come nel caso specifico dalla possibilità di poter poi tracciare e rintracciare le operazioni bancarie.

Basandosi su questo ragionamento di principio la Suprema Corte ha ritenuto sufficiente per configurare il delitto di riciclaggio il solo fatto di accreditare sul proprio conto corrente assegni bancari di importo cospicuo da parte di un soggetto che senza alcuna valida giustificazione giuridica li ha poi monetizzati versando la provvista al proprio dante causa.

La Cassazione ha quindi confermato un suo orientamento recente (sentenza 21925 del 2018) che l’astratta individuabilità della provenienza delittuosa ovvero il suo accertamento non costituiscono l’evento punibile del reato di riciclaggio.

Questo precedente si inserisce in un solco ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di cassazione che allarga le maglie della punibilità anche alle attività che seppur formalmente lecite possano anche solo potenzialmente ostacolare l’identificazione dell’origine illecita dei fondi e non mancherà di avere i suoi effetti anche nelle politiche di segnalazione di operazioni sospette da parte degli operatori bancarie finanziari.

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Omessa dichiarazione del prestanome se c’è dolo

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 29/08/2019 di Antonio Iorio

REATI TRIBUTARI

Necessario provare l’intento del mero amministratore di diritto di evadere

Nel reato di omessa presentazione della dichiarazione, il prestanome risponde solo se è provato il suo intento di evadere le imposte attraverso l’inadempimento dichiarativo. Non è infatti sufficiente ai fini della colpevolezza, la mera assunzione dell’incarico di amministratore di diritto. A precisarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 36474 depositata ieri. Il legale rappresentante, in realtà mero amministratore di diritto, di una società veniva condannato per il reato di omessa presentazione della dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. La pena veniva confermata anche in grado di appello e l’imputato ricorreva in Cassazione. Con riferimento al reato di omessa presentazione della dichiarazione, la difesa censurava che la Corte di appello aveva confermato la colpevolezza solo per la sua qualità di amministratore di diritto della società, trascurando che mancava qualunque prova sulla sussistenza del dolo specifico. Il prestanome, infatti, poteva al più ritenersi colpevole degli inadempimenti, ma proprio per la sua estraneità alla gestione sociale, affidata all’amministratore di fatto, non poteva sussistere l’intento di evadere attraverso l’omissione della dichiarazione.

La Suprema corte ha ritenuto fondata la doglianza sul punto. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che nei reati omissivi, commessi in nome e per conto della società, l’amministratore di fatto è il soggetto attivo del delitto e il prestanome è il concorrente per non avere impedito l’evento illecito. L’amministratore di diritto, accettando la carica, ha accettato i rischi connessi al proprio ruolo, quale, ad esempio, impedire danni per la società stessa e per i terzi. Tuttavia, proprio perché nella maggior parte dei casi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza, i reati omissivi sono solo formalmente a egli imputabili, atteso che l’agente va individuato in chi effettivamente gestisce la società, essendo l’unico in grado di compiere (o meno) l’azione dovuta. La Cassazione ha così affermato che al prestanome può essere addebitato il reato a titolo di concorso con l’amministratore di fatto solo a condizione che ricorra anche l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. In particolare, per il delitto di omessa presentazione oltre al dolo generico, cioè la coscienza di aver omesso l’adempimento, occorre la volontà di evasione, integrata dalla cosciente intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte attraverso la citata omessa presentazione. Il giudice di merito quindi, deve individuare, al di là della mera assunzione della carica, ulteriori elementi a dimostrazione dell’intento evasivo. Nella pronuncia è altresì specificato che a tal fine, è di per sé insufficiente l’astratta consapevolezza che attraverso l’omessa presentazione non si sarebbero versate le imposte dovute, poiché il prestanome poteva anche non essere a conoscenza della situazione fiscale della società.

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Credit Suisse, in Svizzera più digitale e meno filiali

9 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 27/08/2019 di L.D.

Anche Credit Suisse, al pari di altri grandi colossi bancari europei, punta a cavalcare la sfida digitale tirando il freno sullo sviluppo della rete fisica. Il gruppo elvetico ha dichiarato ieri che entro la fine del 2021 intende investire centinaia di milioni di franchi svizzeri in servizi digitali nella sua divisione svizzera, che – nei piani dell’istituto – non ha bisogno di una rete di filiali maggiore di quella dei suoi concorrenti. «Il raggiungimento di un successo a lungo termine non dipenderà dall’avere la più grande rete di filiali in futuro», ha affermato Thomas Gottstein, capo della divisione Swiss Universal Bank (Sub) del gruppo elvetico. Piuttosto, ha detto Gottstein, «avere la migliore offerta digitale, in combinazione con l’accesso al supporto da qualsiasi luogo e la migliore qualità del servizio, sarà il fattore decisivo». Nessuna indicazione sull’eventuale riorganizzazione della rete in Svizzera. Va detto che la banca con sede a Zurigo sta creando una nuova area commerciale, chiamata Direct Banking, rivolta a clienti retail e commerciali,che partirà al 1 ° settembre: obiettivo circa un milione di clienti al dettaglio, 60.000 clienti commerciali e oltre 500 dipendenti.

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Sms e mail pesano in giudizio come prova piena

5 Agosto 2019

Il Sole 24 Ore 18 LUGLIO 2019 di Patrizia Maciocchi

 PROCESSO CIVILE

Chi contesta deve dimostrare la non fedeltà del documento

Gli sms e le mail hanno piena efficacia di prova nel giudizio civile. Per il disconoscimento colui contro il quale sono prodotte deve dimostrare, con elementi concreti e in maniera circostanziata ed esplicita, la non rispondenza con la realtà. La Corte di cassazione, con la sentenza 19155, depositata ieri, si affida al principio di diritto affermato e respinge il ricorso di un padre separato “condannato” a pagare la sua quota di retta dell’asilo nido del figlio, sulla base di un sms nel quale aderiva all’iniziativa dell’iscrizione presa dalla madre del bambino.

La difesa dell’uomo critica la decisione dei giudici di merito di riconoscere il valore di prova piena, e non semplicemente indiziaria al solo elemento degli short message service, pur in presenza della contestazione della parte contro cui era stata prodotta, con conseguente errata valutazione del contenuto dei messaggi. Per la Cassazione però la decisione del Tribunale è corretta. Sia gli sms sia le e-mail, infatti, hanno lo stesso valore di prova che l’articolo 2712 del Codice civile attribuisce alla riproduzioni informatiche. La Suprema corte precisa che l’sms contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e di conseguenza forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotti non contesta la loro “fedeltà”. Tuttavia l’eventuale disconoscimento non ha gli stessi effetti previsti per la scrittura privata che non può essere utilizzata.

Nel caso degli sms il diretto interessato deve dimostrare la non rispondenza, ma il giudice può comunque accertarla, anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. Lo stesso vale per la e-mail: un documento elettronico che, anche se privo di firma, rientra a pieno titolo tra i mezzi di prova piena previsti dall’articolo 2712 del Codice civile. Nel caso esaminato non serve che il ricorrente dichiari di aver contestato l’unica produzione avversaria. Un’affermazione generica non utile a smontare un elemento, ormai ricondotto nell’alveo codicistico e dunque soggetto al rispetto delle preclusioni processuali.

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L’imposta estera pagata dal lavoratore frontaliero va detratta totalmente

5 Agosto 2019

Quotidiano del Fisco del 01 MAGGIO 2019 di Andrea Taglioni

L’imposta pagata all’estero dal lavoratore frontaliero è pienamente detraibile dall’imposta netta dovuta a prescindere che il reddito estero assoggettato a tassazione in Italia concorre parzialmente, per effetto della franchigia, alla formazione del reddito complessivo. Pertanto, quando l’ammontare del reddito estero assoggettato a tassazione in Italia non corrisponde a quello tassato nello Stato estero, l’imposta estera detraibile non deve essere ridotta in misura proporzionale. Ciò in considerazione del fatto che, all’infuori dell’applicazione delle retribuzioni convenzionali, nel caso di lavoro dipendente frontaliero, il relativo reddito complessivo prodotto all’estero non può che essere che quello determinato secondo le regole del Tuir. Quindi, se per determinare il reddito complessivo le norme italiane prevedono che venga tassata solo la parte eccedente la franchigia, questo non determina una diminuzione della base imponibile che fa scattare la riparametrazione delle imposte assolte all’estero. A stabilirlo è la Commissione tributaria Provinciale di Forlì con la sentenza n. 129/02/2019 (clicca qui per consultarla).

Al fine di evitare la doppia imposizione, i contribuenti che pagano imposte all’estero, hanno la possibilità di usufruire di un credito d’imposta. Quest’ultimo è riconosciuto se le imposte pagate nello Stato estero sono definitive, se sono relative a imposte sul reddito, o similari, e se il reddito estero concorre alla formazione del reddito complessivo italiano. Sussistendo tali condizioni, le imposte pagate sui redditi esteri sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione. In pratica, le imposte estere versate danno diritto al credito in Italia in proporzione all’incidenza del reddito estero su quello complessivo italiano.

Delineato il quadro normativo emergeva che l’agenzia delle Entrate rettificava la posizione fiscale del contribuente, lavoratore frontaliero, deducendo che allo stesso spettasse un minor credito d’imposta in quanto il reddito complessivo tassato in Italia, per effetto della franchigia, era inferiore a quello estero percepito. Per tale motivo, il parziale concorso del reddito estero alla formazione del reddito complessivo comportava che l’imposta estera detraibile doveva essere ridotta in misura corrispondente.
La tesi erariale non è stata condivisa dalla Commissione Tributaria la quale, verificato che non si trattava di retribuzione convenzionale, che si applica ai lavoratori dipendenti che prestano la propria attività lavorativa all’estero in maniera continuativa e che soggiornano nell’altro Stato per più di 183 giorni, ha escluso che l’imposta estera potesse essere ridotta proporzionalmente.
Questo perché, per il lavoratore residente in Italia, ma che presta l’attività lavorativa in uno Stato estero confinante, o in zone di frontiera con lo Stato italiano, il reddito complessivo non è quello sottoposto a tassazione nello stato estero ma quello che, in base alle norme italiane, concorre a formare la base imponibile.

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