Esterometro per acquisti e cessioni con soggetti non stabiliti in Italia

7 Marzo 2023

Il Sole 24 Ore 16 febbraio 2023 di Alessandro Mastromatteo

MONITORAGGIO

Restano escluse le operazioni documentate con bolletta doganale di import o export e con fattura elettronica inviata tramite Sdi

Esterometro per tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi verso e da soggetti non stabiliti nel territorio dello Stato, senza ulteriori limitazioni: ai fini della trasmissione dei relativi dati occorre guardare solamente al fatto che il soggetto, cliente o fornitore, non sia stabilito in Italia.

L’invio delle informazioni prescinde anche dalla natura della controparte estera, nonché dal fatto che l’operazione realizzata rilevi o meno a fini Iva nel territorio nazionale. La trasmissione dei dati con l’estero costituisce infatti un obbligo comunicativo: non risponde pertanto a finalità di controllo delle operazioni rilevanti a fini Iva effettuate tra soggetti passivi ma, al contrario, è funzionale esclusivamente al monitoraggio di acquisti o cessioni e prestazioni di servizi nelle quale una delle due parti risulta essere “estera”. Devono perciò essere comunicate tutte le operazioni con controparti non stabilite in Italia, con le uniche esclusioni di natura oggettiva individuate per espressa previsione normativa: l’obbligo di esterometro non deve essere assolto quando acquisto, cessione o prestazione risultano documentate con bolletta doganale, di importazione o esportazione, o anche con l’emissione o la ricezione tramite Sdi (Sistema di interscambio) di una fattura elettronica.

Restano quindi escluse anche le operazioni da e verso la Repubblica di San Marino quando documentate con fattura elettronica emessa o ricevuta tramite Sdi, analogamente alle cessioni nei confronti di viaggiatori extra-Ue ex articolo 38-quater del Dpr 633/72, documentate con fattura elettronica (tax free shopping) trasmessa mediante il sistema Otello 2.0.

L’esclusione opera, infine, anche in presenza di acquisti di beni e servizi non rilevanti territorialmente ai fini Iva in Italia, ai sensi degli articoli da 7 a 7-octies del Dpr 633 del 1972, quando di importo inferiore, per singola operazione, a 5mila euro, comprensivo dell’eventuale imposta: si tratta di fattispecie molto frequenti quali, ad esempio, le spese sostenute all’estero per alberghi o ristoranti, rifornimenti di carburante, noleggi di autovetture, voli aerei esteri. Al contrario le medesime operazioni territorialmente non rilevanti, ma di importo superiore alla soglia indicata, andranno comunque comunicate al fisco con l’esterometro sebbene anch’esse non costituiscano oggetto di registrazione.

Come indicato dall’agenzia delle Entrate con la circolare n. 26/E del 13 luglio 2022, e da ultimo con le risposte a specifici quesiti nel corso di Telefisco2023 (si veda articolo in pagina), la comunicazione dei dati delle operazioni da e verso l’estero impatta anche nella realizzazione di una serie di adempimenti a fini Iva quali le integrazioni ovvero le autofatture per operazioni con l’estero.

Più nello specifico, per quanto riguarda il ciclo passivo estero, la trasmissione dei tipi documento TD17, TD18 e TD19, unitamente alle ricevute generate da Sdi al momento del loro invio/ricezione, costituisce prova dell’avvenuta trasmissione e di adempimento dell’obbligo dell’esterometro come previsto dall’articolo 1, comma 3-bis, del Dlgs 127 del 2015. Le Entrate hanno precisato infatti come l’esterometro, da un lato, e gli obblighi di integrazione di un documento ricevuto e di autofatturazione, dall’altro, costituiscono adempimenti autonomi.

Non vi è infatti un obbligo di assolvere ai doveri di integrazione/autofatturazione mediante la procedura di trasmissione dei dati tramite file xml utilizzando i tipo documento TD17, TD18 e TD19: integrazione o autofattura potrebbero anche avvenire in forma analogica. Tuttavia, il mancato/tardivo invio dei dati attraverso l’esterometro costituisce violazione sanzionabile.

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Russia nella black list Ue: stretta sui costi deducibili

7 Marzo 2023

Il Sole 24 Ore 15 febbraio 2023 di Luca Gaiani

Scattano i vincoli reintrodotti dalla manovra 2023

Monitoraggio sui prezzi per verificare la conformità al valore normale

La Russia entra nella lista dei Paesi non collaborativi che fa scattare la deducibilità limitata dei costi provenienti da fornitori ivi domiciliati introdotta dalla legge di Bilancio 2023 (si veda anche il servizio a pagina 14). A partire da ieri, scattano nuovi vincoli anche per Costa Rica, Isole Vergini Britanniche e Isole Marshall.

L’articoli 110, commi 9-bis e seguenti, del Tuir, come modificato dalla legge 197/2022, stabilisce che i costi e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni con fornitori domiciliati in Paesi o territori inclusi nella lista delle giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali redatta dalla Ue sono deducibili limitatamente al valore normale (articolo 9 del Tuir).

La norma, entrata in vigore dal 1° gennaio 2023, non ha una specifica decorrenza e dovrebbe dunque applicarsi dall’esercizio che ha inizio a partire da tale data (periodo di imposta 2023 per le società con esercizio coincidente con l’anno solare). Il vincolo introdotto dalla disposizione può essere disapplicato, deducendo importi anche superiori al valore normale, solo qualora l’impresa italiana fornisca al fisco la prova che le operazioni, oltre ad avere avuto concreta esecuzione, rispondono ad un effettivo interesse economico.

Una ulteriore deroga è prevista per operazioni con fornitori black list che sono società controllate dell’impresa italiana a cui si applica la norma Cfc prevista dall’articolo 167 del Tuir e dunque il cui reddito viene imputato per trasparenza in capo al socio italiano.

Anche rispettando il limite del valore normale, i componenti reddituali derivanti da operazioni con fornitori black list dovranno essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi. La mancata o incompleta indicazione di tali spese, anche in presenza dei requisiti per la loro integrale deduzione, farà scattare una sanzione estremamente pesante (articolo 8 comma 3-bis del Dlgs 471/1997) pari al 10% delle spese stesse, con un minimo di 500 e un massimo di 50 mila euro.

I Paesi a cui si applica la disposizione sono quelli contenuti nella lista degli Stati non cooperativi ai fini fiscali aggiornata periodicamente dal Consiglio d’Europa. Con un comunicato diffuso ieri, la Ue ha inserito nell’elenco quattro nuovi Stati: Russia, Isole Vergini Britanniche, Costa Rica e Isole Marshall, che si aggiungono ai dodici già presenti: Samoa Americane, Anguilla, Bahamas, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Turks e Caicos, Isole Vergini Americane e Vanuatu.

Con riferimento ai fornitori domiciliati in Russia e negli altri tre nuovi Paesi non collaborativi, la norma dovrebbe applicarsi solo per le operazioni effettuate dal 14 febbraio 2023, data di aggiornamento della lista (cioè per i costi sostenuti in base alle regole di competenza da tale giorno).

Le imprese interessate dovranno dunque tempestivamente aggiornare i propri sistemi di monitoraggio dei costi provenienti da tali fornitori, verificando altresì la conformità dei relativi prezzi al valore normale, onde poterli indicare separatamente nei prospetti che saranno contenuti nelle dichiarazioni del 2024.

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Marchi contraffatti e vendite online: Corte Ue più severa con le piattaforme

7 Marzo 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Gianluca De Cristofaro Matteo Di Lernia

Per i giudici il portale internet può rispondere per le vendite di terzi

Dirimente il fatto che l’utente ritenga il provider coinvolto nel commercio

Il gestore di una piattaforma e-commerce risponde per l’uso illecito del marchio altrui se le attività svolte sulla piattaforma inducono un utente normalmente informato e ragionevolmente attento a ritenerlo direttamente coinvolto nella vendita dei prodotti, anche se i prodotti sono venduti da soggetti terzi. La Corte di giustizia Ue (cause riunite C-148/21 e C-184/21) con la decisione del 22 dicembre scorso ha, per la prima volta, ritenuto fondamentale la percezione dell’utente della piattaforma al fine di riconoscere un ruolo attivo ai provider. Una direzione sempre più seguita dai giudici italiani.

Gli annunci di terzi

La Maison Louboutin ha agito per contraffazione nei confronti di Amazon (prima davanti al Tribunale circoscrizionale di Lussemburgo e poi al Tribunale del commercio di Bruxelles) poiché riteneva che gli annunci di venditori terzi relativi a scarpe con suole rosse violassero il marchio “suola rossa” con cui contraddistingue le proprie calzature a tacco alto con una suola rossa (codice 18.1663TP della scala colori Pantone). Secondo Louboutin la piattaforma svolgeva un ruolo attivo nell’uso del marchio “suola rossa”, permettendone la visualizzazione e, inoltre, avendo detenuto, spedito e consegnato i prodotti.

Di contro Amazon ha ribadito il suo ruolo di mero gestore di un mercato online, esente da responsabilità per gli annunci di venditori terzi (articolo 14 della Direttiva 2000/31 Ce).

I giudici di entrambi i tribunali hanno considerato che la piattaforma:

nella comunicazione commerciale presenta le pubblicità, proprie e di terzi, in modo uniforme/analogo, senza distinzione sulla loro origine e tramite l’accostamento del suo marchio a quello del rivenditore;

offre servizi complementari di stoccaggio e spedizione dei prodotti.

Si sono poi chiesti se dovesse essere presa in considerazione anche la percezione degli utenti della piattaforma. Per entrambe le questioni i giudici hanno quindi effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

La responsabilità del provider

La Corte Ue ha innanzitutto ricordato l’orientamento tradizionale, secondo il quale l’uso di un marchio altrui in offerte di vendita in un mercato online non è di per sé riconducibile al gestore della piattaforma, poiché non si tratta di una sua comunicazione commerciale (C-324/09, L’Oréal; C-567/18, Coty c. Amazon).

Tuttavia, secondo la Corte, bisogna considerare lo specifico contesto delle condotte della piattaforma. A questo riguardo, per la prima volta la Corte ha stabilito che debba essere tenuta in considerazione la percezione che gli utenti hanno dell’attività svolta dal provider sulla piattaforma.

La Corte ha, quindi, per la prima volta, stabilito il principio per cui la percezione dell’utente mediamente informato della piattaforma rileva ai fini di verificare la responsabilità di quest’ultima. In particolare, secondo la Corte, le condotte del gestore di una piattaforma online rilevano ai fini di una sua responsabilità qualora l’utente abbia l’impressione che sia proprio il gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, anche i prodotti offerti in vendita dai venditori terzi.

Con riguardo alle specifiche condotte tenute dalla piattaforma e identificate dai giudici del rinvio, la Corte ha stabilito che le stesse rilevano ai fini dell’indagine dell’impressione generata negli utenti.

Questa sentenza costituisce quindi una stretta da parte della giurisprudenza Ue sulla responsabilità degli hosting provider già più volte affermata in Italia con decisioni che sempre più di frequente escludono il ruolo meramente “passivo” delle piattaforme e le considerano responsabili. Con la sentenza del 10 agosto 2022, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto Vimeo un hosting provider “attivo” in quanto organizzava e sfruttava i contenuti immessi in rete selezionandoli, indirizzandoli, correlandoli, associandoli ad altri. Sempre nel 2022 il Tribunale di Milano (ordinanza del 15 febbraio) ha attribuito un ruolo attivo alla piattaforma Farfetch in ragione dei servizi di promozione, conclusione dei contratti, organizzazione della consegna e assistenza clienti.

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Obbligo di indicazione nel quadro RW dal 2023 e senza minimo di legge

7 Marzo 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Stefano Capaccioli e Dario Deotto

Prima della manovra le Entrate avevano richiamato le sole valute

Anche le disposizioni della legge di Bilancio 2023 relative al monitoraggio fiscale e alla “emersione” delle cripto-attività generano dubbi.

Il primo di questi è legato al fatto che (solo) a partire dal 2023 viene stabilito che le criptoattività devono essere dichiarate nel quadro RW. Il problema è l’aspetto sanzionatorio in caso di inadempimento. Come più volte si è riportato su queste pagine, l’articolo 5 del Dl 167/1990 individua le penalità in ragione dell’ubicazione territoriale delle attività (Paesi non black list, sanzione dal 3 al 15% delle attività non dichiarate, mentre per i Paesi black list la sanzione è raddoppiata). Il fatto è che, perlomeno quando il contribuente non ricorre a intermediari, disponendo egli stesso del wallet, si è in presenza di fenomeni che sono affrancati da un territorio, per cui è di difficile individuazione il trattamento sanzionatorio, essendo quest’ultimo, come si è visto, radicato a un territorio “fisico”. Si auspica, quindi, che l’annunciata riforma del sistema sanzionatorio, disciplini espressamente questi fenomeni.

Un’altra perplessità è come possa trovare giustificazione una sanatoria per il passato (commi 138 e seguenti) a fronte di un obbligo di legge che viene inserito per la prima volta dal 2023. In passato, vi sono stati solo interventi di prassi (poi anche le istruzioni al modello) che hanno riportato la necessità di indicazione nel quadro RW, peraltro delle sole valute virtuali, ma la norma non disponeva tale obbligo. Tant’è che esso viene stabilito solo oggi. Tra l’altro la norma stabiliva, come d’altronde ora, che solo quando le attività detenute all’estero risultano «suscettibili di produrre reddito imponibili in Italia» le si doveva indicare nel quadro RW. E stante l’assimilazione – fatta in passato dalla prassi – delle valute virtuali con le valute estere, in molti casi (quando la giacenza media era inferiore a 51.645 euro per almeno 7 giorni lavorativi) la stessa Agenzia aveva riportato che le criptovalute non determinavano obblighi reddituali. Con la conseguenza– per la normativa riferita alle valute estere – che non si era in presenza di attività «suscettibili di produrre reddito imponibile in Italia».

Senza contare, come detto, che l’obbligo di indicare nel quadro RW era stato affermato dalle Entrate per le sole valute virtuali, mentre ora la legge lo impone per tutte le criptoattività, senza un minimo di legge.

In questo contesto appare meno rilevante anche il fatto che se si vuole aderire alla sanatoria per il passato anche ai fini reddituali (pagando il 3,5% sul valore delle attività, oltre allo 0,5%) la medesima prassi aveva detto (interpello 788/2021) che le operazioni crypto su crypto relative a valute virtuali, quando la giacenza media risultava superiore a 51.645 euro per sette giorni lavorativi continui, si dovevano considerare rilevanti, mentre ora non lo sono.

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