REGOLAMENTO 14 marzo 2019 nr 5 – Regolamento attuativo degli articoli 42 e 43 della Legge 7 Agosto 2017 nr 94 in materia di segnalazione certificata di inizio attività

9 April 2019

SCIA: dal 27 marzo sarà in vigore il Regolamento attuativo degli articoli 42 e 43 della Legge 7 Agosto 2017 N. 94 in materia di segnalazione certificata di inizio attività. SanMarinofixing 27 Marzo 2019 di Alessandro Carli

In pratica la SCIA consente al professionista incaricato dall’imprenditore, sia esso legale o commercialista, di certificare il possesso dei requisiti previsti per legge e di ottenere l’immediato rilascio della autorizzazione ad operare, rimandando ad un secondo momento i controlli da parte dei competenti uffici della Pubblica Amministrazione.

Il nuovo strumento quindi non solo estenderà la pratica dell’autocertificazione e consentirà di accelerare notevolmente i tempi delle pratiche burocratiche, ma introdurrà anche una diversa relazione, prevedendo la possibilità che, nel caso di eventuali difformità, gli uffici pubblici possano aiutare l’imprenditore suggerendo i necessari correttivi da adottare, evitando quindi drastici provvedimenti.

Il Regolamento (che, ha assicurato il Segretario di Stato all’Industria, Andrea Zafferani, “in prospettiva verrà adeguatamente ampliato, estendendolo anche ad altri settori di applicazione”) individua gli atti di autorizzazione, licenza e concessione previsti dal vigente ordinamento che, possono essere sostituiti da segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e “può essere integrato e modificato con riferimento a ulteriori atti di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta nonché a domande per le iscrizioni in albi, elenchi o registri richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale sostituibili con SCIA”.

FACOLTATIVITÀ DELLA PRESENTAZIONE DI SCIA

I soggetti che hanno la licenza per l’esercizio di attività industriale, di servizio, artigianale e commerciale nel territorio hanno facoltà di optare fra la presentazione di SCIA con le forme e gli effetti giuridici (di cui all’articolo 42 della Legge n.94/2017) oppure l’ordinario procedimento con la conseguente adozione di provvedimento espresso da parte dell’Amministrazione precedentemente all’avvio dell’attività.

SCIA NEL SETTORE DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE

La licenza per l’esercizio di attività industriale, di servizio, artigianale e commerciale nel territorio della Repubblica di San Marino di cui alla normativa vigente, può essere sostituita da SCIA. Sono, parimenti, sostituibili da SCIA gli atti aventi ad oggetto modifiche riguardanti dati contenuti o che sarebbero contenuti nella licenza. La Carta dei Servizi – prevista dall’articolo 36 della Legge 31 marzo 2014 n. 40 – definisce i contenuti della SCIA che potrà essere corredata da ulteriori SCIA previste dal Regolamento nonché da dichiarazioni sostitutive (di cui agli articoli 12 e 13 della Legge n. 159/2011), in linea con quanto stabilito dall’articolo 42, comma 2 della Legge n. 94/2017.

I provvedimenti relativi al divieto di prosecuzione dell’attività e alla rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa nonché quelli relativi alla conformazione dell’attività oggetto di SCIA alla normativa vigente ed alla sospensione dell’attività (previsti dall’articolo 42, commi 5 e 6, della Legge n. 94/2017) sono assunti dall’Unità Organizzativa (UO) Ufficio Attività Economiche.

Nel settore dell’edilizia possono essere sostituiti da SCIA la concessione e l’autorizzazione edilizia (di cui agli articoli 52 e 54 della Legge 14 dicembre 2017 n.140); b) l’autorizzazione (di cui all’articolo 108 della Legge 19 luglio 1995 n. 87); il certificato di conformità ed agibilità e il certificato di rispondenza edilizia (di cui all’articolo 71 della Legge n. 140/2017, limitatamente alle opere soggette ad autorizzazione edilizia di cui all’articolo 54 della medesima Legge)

La SCIA non può essere presentata con riferimento a interventi edilizi ricadenti nelle zone urbanistiche come le “Zone a verde Esistente”, le “Zone da attrezzare a verde pubblico”, le “Zone a Parco”, “Zone A: Zone omogenee di carattere storico ambientale”, le Zone E: Aree Agricole”.

La SCIA non può essere presentata con riferimento a interventi edilizi riferiti a manufatti rientranti nell’ambito di applicazione della Legge 28 ottobre 2005 n.147.

Possono essere sostituiti da SCIA l’autorizzazione strutturale relativa alle opere (di cui all’articolo 10 della Legge 25 gennaio 2011 n.5) soggette a concessione ed autorizzazione edilizia (di cui agli articoli 52 e 54 della Legge n. 140/2017) nonché quelle rientranti nei casi di cui all’articolo 55 della medesima Legge n.140/2017.

La SCIA – chiarisce il Regolamento – non può essere presentata con riferimento ad interventi edilizi effettuati su edifici di particolare interesse storico, ambientale e culturale ricadenti in “Zone A: zone omogenee di carattere storico ambientale” e su manufatti con valore monumentale.

Regolamento 14 marzo 2019 nr 5

 

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Decreto Delegato 28 Marzo 2019 nr 54 – Ratifica D.D. 28 febbraio 2019 nr 40 – Modifica dell’art.39 della Legge 24 dicembre 2018 nr 173 – Differimento dei termini per la semplificazione delle procedure di certificazione dei ricavi nei confronti di soggetti privati

9 April 2019

Si allega testo completo del Decreto  Delegato 28 marzo 2019 nr 54 che posticipa al 1° gennaio 2020  la semplificazione delle procedure di certificazione dei ricavi nei confronti di soggetti privati

Decreto Delegato 28 marzo 2019 nr 54

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Non si recuperano le ritenute su redditi esteri dei forfettari

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 16 MARZO 2019 di Alessandra Caputo e Gian Paolo Tosoni

RISOLUZIONE ENTRATE

Secondo l’Agenzia non concorrono a formare l’imponibile complessivo

Le ritenute subìte su redditi prodotti all’estero da un contribuente che applica il regime forfettario non possono essere recuperate come credito per imposte pagate all’estero in quanto il relativo reddito non concorre alla formazione del reddito complessivo. Lo ha precisato la risoluzione 36E/2019 dall’agenzia delle Entrate.
La questione era stata posta da un avvocato il quale, con istanza di interpello, chiedeva come poter procedere al recupero della ritenuta a titolo di acconto subita da una società con sede in San Marino. Il principio vale però per tutti i redditi esteri. In particolare, il professionista sottolineava l’impossibilità di portare in detrazione la ritenuta in dichiarazione dei redditi stante la sua adesione al regime forfettario.
La risposta dell’Agenzia esclude però la possibilità di recuperare la predetta ritenuta. Infatti, il regime forfettario di cui alla legge 190/2014 prevede la determinazione del reddito imponibile applicando un coefficiente di redditività, differenziato in base al tipo di attività svolta, all’ammontare dei ricavi/compensi conseguiti; il reddito così determinato è poi assoggettato a un’imposta sostitutiva del 15%, ridotta al 5% per i primi 5 anni per le nuove attività. Ai sensi dell’articolo 3, comma 3, lettera a) del Tuir i redditi assoggettati a imposta sostitutiva non concorrono alla formazione della base imponibile Irpef. I ricavi e i compensi relativi al reddito oggetto del regime forfettario non sono assoggettati a ritenuta d’acconto da parte del sostituto d’imposta in Italia.
Nel caso descritto, il reddito era stato assoggetto a ritenuta in applicazione dell’articolo 14 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulato tra la Repubblica di San Marino e l’Italia il quale prevede una tassazione concorrente tra i due paesi. A parere dell’Agenzia, trattandosi di un reddito che non concorre alla formazione di quello complessivo, non può fruire del credito per le imposte assolte all’estero di cui all’articolo 165 del Tuir. Tale articolo prevede, infatti, la detrazione delle imposte pagate all’estero in base al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo a condizione che il relativo reddito concorra a formare quello complessivo; circostanza che, nel caso del reddito forfetario, non accade.
In sostanza, l’esclusione dalla formazione del reddito complessivo di quello ottenuto dai soggetti forfettari comporta l’esclusione dall’ambito di applicazione della disciplina del credito per le imposte pagate all’estero. Così facendo però, lo stesso reddito risulta oggetto di doppia tassazione: la prima mediante l’applicazione della ritenuta estera non più recuperabile e la seconda mediante applicazione dell’imposta sostitutiva propria del regime forfettario.

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Nel mirino della Gdf le banche di San Marino

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 22 MARZO 2019 di Alessandro Galimberti

DOPO LA VOLUNTARY

Attese le notifiche I questionari inviati a 250 banche nel mondo

Svizzera, Principato di Monaco, Bahamas, Singapore, Lussemburgo, San Marino, Liechtenstein ,Austria, Antigua e Barbuda, Panama , Dubai, Isole Vergini Britanniche, Hong Kong. Sono oltre 250 le banche sparse in tre continenti e raggiunte – a partire dalla fine di gennaio scorso – dai questionari della Guardia di finanza e dell’agenzia delle Entrate. L’elenco dei Paesi e degli istituti finanziari individuati dal fisco – sulla base del Dpr 600/1973, articolo 32 «Poteri degli uffici in materia di accertamento delle imposte sui redditi» – è frutto della rielaborazione dei dati della prima voluntary disclosure (2015) da cui sono emersi i rapporti finanziari ora al centro dell’attenzione erariale. Partita dalla Svizzera e dal Principato monegasco (si veda «Il Sole 24 Ore» del 14 febbraio scorso), la campagna contro gli ex paradisi si è poi allargata a San Marino – dove sono attese le prime notifiche – e si accinge a sfondare dall’Atlantico al Far East, con pieno ecumenismo impositivo.
L’obiettivo dell’amministrazione è collegato alla risoluzione 89/E/2018 , con la quale l’Agenzia aveva stabilito che la «fonte italiana di produzione del reddito determina l’imponibilità del provento in capo al soggetto non residente. In linea generale, tutti i redditi di capitale percepiti da soggetti non residenti, compresi quelli realizzati nell’esercizio di attività commerciale senza stabile organizzazione in Italia, sono assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta». Tradotto, significa sostanzialmente che le banche sono tenute a trattenere alla fonte l’imposta per l’attività svolta su redditi che hanno «una fonte italiana di produzione», cioè di fatto un’origine tricolore. Nel mirino ci sono le commissioni (per esempio su mutui e gestione patrimoniale) trattenute a clienti “fiscalmente” italiani (che a giudizio dell’Agenzia generano perciò una tassazione “italiana”) e – soprattutto – le modalità di gestione della clientela italiana e quelle di utilizzo dei dipendenti sul mercato italiano. Evidente in questo senso le finalità dell’operazione – non a caso resa pubblica per la prima volta nel novembre scorso dal procuratore milanese Francesco Greco – che punta a dimostrare la «stabile organizzazione» societaria lungo la Penisola, soprattutto in Lombardia, per individuare nuovi importanti e stabili “contribuenti”. In questo senso è da leggere anche l’invito alle 250 banche estere ad inviare i bilanci di esercizio o documenti equivalenti ed esplicativi degli anni 2013/2017.
Vale la pena di sottolineare che la campagna di fiscalizzazione delle banche degli ex paradisi si fonda sull’analisi degli oltre 130mila conti “consegnati” spontaneamente e dettagliatamente da chi ha aderito alla prima voluntary disclosure.
Non irrilevante, sotto questo profilo, la circostanza che meno di un quarto dei 60 miliardi di euro ufficialmente emersi (70% dalla Svizzera, 7,7% da Monaco, 3,6% da Bahamas, 2,2% da Singapore, 2,1% da Lussemburgo, 1,9% dal Liechtenstein) è effettivamente rientrato in Italia, il resto è rimasto dov’era e generalmente sbloccato per operazioni immobiliari e finanziarie, sulle quali scatta l’imponibilità fiscale italiana, almeno ad opinione dell’Agenzia.
L’impegnativa partita internazionale è tutt’altro che chiusa. Dall’estero le prime reazioni sono state soprattutto di nervosismo – la Svizzera registra ovattate fibrillazioni anche per gli importi in ballo; di acque agitate si racconta anche a Monaco – ma ignorare le lettere, come si legge nell’articolo in basso, potrebbe provocare movimenti tellurici anche fuori dal solco fiscale.

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Spese «esose»? Lo studio può dedurle

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 25 MARZO 2019 Orlando Lamonica

PROFESSIONE

Spese «esose»? Lo studio può dedurle

Al di là dell’importo, il Fisco deve dimostrare che il costo è estraneo

L’ufficio non può riprendere a tassazione le spese sostenute da uno studio di professionisti per servizi resi dalla società di servizi solo perché ritenute esose. Il giudizio di inerenza, infatti, attiene al rapporto tra i costi sostenuti e l’attività in concreto esercitata, risolvendosi in un giudizio di carattere meramente qualitativo, che prescinde da valutazioni di tipo utilitaristico, le quali concernono invece un giudizio di natura quantitativa. La relativa prova deve investire i fatti costitutivi del costo. A giungere a queste conclusioni è la sentenza 89/3/2019 della Ctp Modena (presidente e relatore Mottola), depositata lo scorso 13 febbraio.
La vicenda trae origine da alcuni avvisi di accertamento con cui l’ufficio considerava indeducibili (segnatamente incongrui/sovrafatturati) i costi sostenuti da uno studio per la gestione dei servizi amministrativi e informatici forniti da alcune società riconducibili ad alcuni professionisti del medesimo studio. L’ufficio riteneva esose le somme corrisposte che, sempre secondo la ricostruzione dell’Agenzia, eccedevano un valore congruo.
Lo studio si difendeva, sottolineando come tali spese venissero inquadrate dall’ufficio alcune volte esose (e quindi antieconomiche) altre volte sovrafatturate. I due concetti impongono un differente regime probatorio sia in capo a chi esercita la pretesa, sia di difesa da parte del contribuente. Secondo il ricorrente, inoltre, in questo modo l’ufficio avrebbe imposto scelte gestionali alternative a quelle effettuate (ritenute esose) dall’imprenditore, senza però provare l’antieconomicità dei costi sostenuti.
I giudici in accoglimento del ricorso hanno dichiarato illegittimo l’avviso e annullato i rilievi sui costi. La Ctp, conformandosi all’orientamento consolidato della Suprema corte (18904/2018, 3170/2018 e 450/2018), ha innanzitutto premesso che l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rilevatori della mancanza di inerenza, ma non si identificano con essa. I giudici, poi, hanno confermato che il giudizio di inerenza debba avere riguardo al rapporto funzionale tra il titolo di spesa e l’attività realmente esercitata, con la conseguenza che sono indeducibili solo quei costi che rappresentano in modo evidente una spesa estranea alle necessità dell’impresa stessa.

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Se c’è titolo edilizio l’immobile abusivo è commerciabile

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 23 MARZO 2019 di Angelo Busani

CASSAZIONE

Compravendita valida anche se la costruzione presenta difformità

Con sentenza 8230/2019, le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto il contrasto verificatosi nella precedente giurisprudenza di legittimità sugli edifici abusivi e hanno finalmente dettato i principi generali da applicare in questa materia.
In primo luogo, l’edificio abusivo non è commerciabile (e quindi il relativo contratto di compravendita è nullo) solo se non esiste un titolo edilizio che ne abbia assentito la costruzione oppure se nel rogito venga falsamente dichiarato l’avvenuto rilascio di un titolo edilizio invero inesistente; se invece un titolo edilizio esiste e il manufatto è stato realizzato con variazioni (essenziali o non essenziali) l’edificio è commerciabile: per la validità del contratto di compravendita è sufficiente che in esso siano menzionati gli estremi del titolo edilizio che ne ha assentito la costruzione.
La tutela del sistema in generale non deve essere garantita dalla sanzione di nullità dei contratti aventi a oggetto manufatti abusivi, ma è assicurata dalle sanzioni che la normativa urbanistica commina per il caso della realizzazione di abusi edilizi: la demolizione, il ripristino della situazione anteriore all’abuso, le sanzioni pecuniarie. Tutte sanzioni “reali” (le quali si applicano, cioè, a chi si trovi a essere proprietario dell’edificio nel momento in cui l’abuso sia accertato) e irrogabili senza limiti temporali (nel senso, cioè, che il decorso del tempo non provoca alcuna sanatoria delle situazioni abusive).
La tutela dell’acquirente dell’edificio abusivo è assicurata dai rimedi che il Codice civile appresta (la risoluzione del contratto, la riduzione del prezzo, il risarcimento del danno) per chi compra beni i quali presentino vizi o che non abbiano le qualità promesse o essenziali per il loro uso.
La sentenza 8230 viene emanata a Sezioni Unite. Da quando (e cioè dalla legge 47/1985) il tema della regolarità dei fabbricati ha avuto impatto sulla loro commerciabilità, la questione della rilevanza dell’abusivismo edilizio sulla validità dei contratti ha infatti avuto in Cassazione, nel tempo, una valutazione nettamente divergente:
un iniziale orientamento (espresso dalla decisioni 8685/1999, 8147/2000, 5068/2001, 5898/2004, 7534/2004, 27129/2006, 20714/2012 e 16876/2013, 25357/2014) ha dato credito alla tesi della cosiddetta “nullità formale”, e cioè all’idea che la compravendita sia valida solo che il titolo edilizio esista, anche se l’edificio sia stato realizzato con variazioni essenziali;
secondo un più recente orientamento, espresso nelle decisioni 20258/2009, 23591/2013, 28194/2013, 25811/2014 e 18261/2015 (la tesi della cosiddetta “nullità sostanziale”), la compravendita deve considerarsi affetta da nullità non solo se abbia a oggetto un edificio costruito in assenza o in totale difformità da un titolo edilizio, ma anche se il manufatto che ne sia oggetto sia stato realizzato con variazioni essenziali rispetto al titolo edilizio.
Questa corrente di pensiero viene smentita: in presenza di una dichiarazione del venditore circa gli estremi di un titolo edilizio esistente, il contratto «è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato».

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Decreto Delegato 4 febbraio 2019 n.25 – Norme per le imprese ad alto contenuto tecnologico

9 March 2019

Si allega testo completo del Decreto Delegato 25-2019 che prevede una serie di incentivi per le imprese ad alto contenuto tecnologico.

Decreto Delegato 25-2019

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Fisco leggero per gli utili fuori dalla black list

8 March 2019

Il Sole 24 Ore 07 FEBBRAIO 2019 di Marco Piazza

SOCIETÀ ESTERE

Niente tassazione integrale se il Paese non è più a fiscalità privilegiata

La legge 205/2017, però, non guarda al momento di maturazione

I dividendi distribuiti da una società estera e formati con redditi prodotti in un esercizio in cui era considerata black list con le regole all’epoca vigenti, ma non con le regole vigenti al momento della distribuzione, non sono soggetti a tassazione integrale. A confermarlo è stata l’agenzia delle Entrate in una delle risposte fornite a Telefisco 2019.
In base alla circolare 35/E del 2016, nell’ipotesi in cui gli utili (o le plusvalenze) si debbano qualificare – sulla base delle disposizioni in vigore al momento della percezione o della realizzazione in capo al socio italiano – come provenienti da un regime fiscale privilegiato, gli stessi sono assoggettati al regime di integrale concorrenza al reddito imponibile; invece, nel caso in cui gli utili (o le plusvalenze) «si debbano qualificare – sulla base delle disposizioni in vigore al momento della distribuzione – come non provenienti da un regime fiscale privilegiato, beneficiano del regime di parziale esclusione, salvo il riscontro della sussistenza del requisito stesso anche rispetto al momento di effettiva formazione dell’utile distribuito».
A questo proposito, da un lato è stata apprezzata la scelta di non sottoporre a tassazione integrale i dividendi attinti da utili formatisi in periodi in cui la società era black list (secondo le regole all’epoca vigenti) ma che, con il metro di giudizio attuale, non lo sarebbe stata. Ha invece destato perplessità la tassazione integrale degli utili prodotti in un esercizio in cui, secondo la regola all’epoca vigente, la società non era black list, solo per il fatto di essere distribuiti in un esercizio in cui, per effetto del cambio di regola, la società è considerata a fiscalità privilegiata.
L’articolo 1, comma 1007 della legge 205 del 2018 ha quindi opportunamente disposto, in estrema sintesi, che non sono soggetti a tassazione integrale gli utili prodotti in un esercizio in cui, con la legislazione all’epoca vigente, non erano considerati “black”, anche se al momento della distribuzione la società è considerata residente in un Paese a fiscalità privilegiata.
Per quanto riguarda la valenza applicativa di questa norma, l’Assonime nella circolare 15 del 2018, paragrafo 2.6, ha ritenuto che essa non intenda integralmente “ripudiare” la tesi seguita dall’Agenzia nella circolare 35/E, ma semplicemente “correggerla” in parte, per l’ipotesi in cui l’impresa estera non fosse considerata privilegiata all’epoca di formazione dell’utile e lo sia divenuta al momento della distribuzione di tale utile. Ha comunque auspicato un chiarimento ufficiale.
A questo proposito, in occasione di Telefisco 2019, l’Agenzia ha confermato che con la legge 205 del 2017 non si è inteso introdurre una disposizione di portata generale, incentrata sul periodo di maturazione degli utili. Pertanto, il comma 1007 non si applica ai dividendi che si sono formati quando l’entità estera era considerata residente in un Paese considerato a fiscalità privilegiata «secondo le norme all’epoca vigenti». In questa ipotesi restano fermi i chiarimenti che sono stati forniti con la circolare 35/E del 2016.
In altri termini, una società che oggi non è considerata a fiscalità privilegiata può distribuire, senza applicazione della tassazione integrale, utili pregressi prodotti in un esercizio in cui era considerata, con i criteri pro-tempore vigente, black list se, nell’esercizio in cui tali utili si sono generati, la partecipazione può essere considerata “non black” con i criteri di oggi (Assonime, circolare 17 del 2017).

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Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

8 March 2019

Il Sole 24 Ore 21 FEBBRAIO 2019 di Angelo Busani

EDILIZIA

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata

L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli

Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.

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Il «centro d’interesse» del residente all’estero

8 March 2019

Il Sole 24 Ore del 18 Febbraio 2019 di Fabrizio Cancelliere

Dichiarazione dei redditi delle persone fisiche

Quando vengono meno i presupposti del “centro d’interesse” che impongono a un cittadino iscritto Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia? Quali documentazioni sono necessarie per supportare il venir meno del centro d’interesse?
S.G.MILANO
Non esistono indicazioni puntuali, nella normativa, per definire il centro d’interesse che integra una delle tre circostanze fattuali che determinano la residenza fiscale in Italia, vale a dire il domicilio. A livello normativo, infatti, il Codice civile si limita a definire il domicilio di una persona come il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Nel dettaglio, il domicilio consta di due elementi: quello oggettivo, in riferimento ai rapporti economici, morali, sociali e familiari; quello soggettivo, derivante dall’intenzione del soggetto stesso di fissare in un determinato luogo il centro dei propri affari o interessi. A livello pratico e di prassi, la verifica sull’effettivo domicilio può essere svolta sulla base di molteplici indicatori, come ad esempio l’utilizzo di un abitazione e la relativa frequenza, desumibile dall’analisi delle utenze, l’analisi degli spostamenti da e verso l’estero, la presenza dei familiari, il luogo di lavoro, eccetera. Per rispondere alla domanda, dunque, possono in linea teorica rilevare gli elementi appena citati, anche in direzione contraria; vale a dire fornendo prova della prevalenza di tali elementi nello Stato estero, rispetto a quello italiano. Va comunque considerato che, salvo i casi di trasferimenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”, l’onere della prova – con riferimento ai cittadini iscritti all’Aire – spetta all’amministrazione finanziaria; e che i casi di doppia residenza fiscale possono essere gestiti attraverso le regole previste dai trattati contro le doppie imposizioni, che fissano delle regole per stabilire quale dei due Stati debba considerarsi prevalente ai fini della residenza.

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