Operazioni Ue-San Marino, il documento «T2» è d’obbligo

8 April 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 14 marzo 2022 di Giampaolo Giuliani

L’interpello 14/2022 va inquadrato nella prassi precedente dell’Agenzia

L’interpello 14 dello scorso 11 gennaio evidenzia ancora una volta come sia importante rivolgersi all’Agenzia con quesiti ben circostanziati, perché altrimenti si rischia di mettere in discussione fattispecie consolidate e supportate normativamente.

In questo caso l’interpellante si è rivolto al Fisco per porre un quesito relativo all’interscambio tra l’Italia e San Marino. La domanda puntava a sapere se il rappresentante fiscale di un operatore sammarinese può cedere a quest’ultimo in regime di non imponibilità dei beni che il rappresentante stesso ha precedentemente acquistato in un Paese Ue.

L’aspetto particolare, indicato nell’interpello, è legato al trasporto dei beni, dato che dal punto di partenza in un Paese Ue i beni arrivano direttamente in San Marino, ma nonostante ciò, a parere dell’interpellante, non sarebbe necessaria la predisposizione del documento di transito T2.

Al riguardo è bene ricordare come gli operatori quando importano dei beni direttamente in San Marino da Paesi Ue diversi dall’Italia devono utilizzare il documento doganale di transito comunitario T2.

La risposta dell’Agenzia a un simile quesito, dunque, non poteva che ribadire la necessità del T2; evidentemente, nel caso di specie non è possibile considerare l’acquisto in un Paese Ue come un acquisto intracomunitario, secondo quanto stabilito dall’articolo 38 del Dl 331/1993, in quanto sono tali soltanto gli acquisti di beni il cui punto di partenza e di arrivo è in due Paesi membri Ue.

Conseguentemente, in assenza di un precedente acquisto intracomunitario da un Paese Ue all’Italia, il successivo trasferimento dei beni a San Marino non può essere considerato una cessione all’esportazione, ai sensi dell’articolo 71 del Dpr 633/1972.

A queste condizioni, in cui l’Italia costituisce solo un Paese di transito, la presa di posizione dell’Agenzia è certamente corretta, tuttavia questo non significa che i rappresentanti fiscali di operatori sammarinesi non possano effettuare acquisti intracomunitari e successivamente una cessione all’esportazione in San Marino nei confronti dei propri rappresentati. Perché ciò si possa realizzare è necessario, o meglio, è indispensabile, che il trasporto sia scisso in due tratte, così come del resto ben chiarito dalla stessa Agenzia nella risoluzione 123/E/2009, per la realizzazione di operazioni in senso inverso, vale a dire le importazioni in Italia da parte di un rappresentante fiscale di beni provenienti da San Marino e successiva cessione intracomunitaria in favore del cliente dell’operatore sammarinese rappresentato.

Nella risoluzione veniva specificato che i beni erano messi a disposizione dell’acquirente (nel caso di specie il rappresentante fiscale), previsto dalla clausola contrattuale “reso frontiera” o Dap (Delivered at Place) sulla linea di confine che divide lo Stato sammarinese da quello italiano, ovvero nelle sue “immediate vicinanze”. Così, dopo avere effettuato un’importazione da San Marino, il rappresentante fiscale avrebbe effettuato la successiva cessione intracomunitaria partendo dall’Italia, sulla base di quanto disposto dall’articolo 41 del Dl 331/1993.

In sostanza, trasferendo questi principi al caso contrario, oggetto dell’interpello 14/2022, il rappresentante fiscale è nelle condizioni di effettuare un acquisto intracomunitario in Italia e successivamente una cessione all’esportazione verso San Marino ogni qual volta sia possibile scindere il trasferimento dei beni da Paesi Ue diversi dall’Italia a San Marino in due ben determinate tratte:

la prima, un trasporto intracomunitario (da un Paese Ue all’Italia);

la seconda, un trasporto internazionale (dall’Italia a San Marino).

Del resto, l’articolo 38 del Dl 331/1993, che definisce gli acquisti intracomunitari, consente ai rappresentanti fiscali di operatori non residenti di effettuare acquisti quando sono introdotti in Italia beni provenienti da Paesi membri.

Parimenti, il nuovo regolamento del 21 giugno 2021, che disciplina i rapporti di interscambio tra l’Italia e San Marino, innovando rispetto alla precedente stesura del decreto del 24 dicembre 1993, prevede esplicitamente all’articolo 1, comma 1, che le cessioni all’esportazione possano essere effettuate anche da soggetti identificati in Italia, sicché non c’è alcuna preclusione a potere realizzare queste operazioni, a condizione, si ribadisce, che il trasporto sia diviso in due tratte.

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Auto con targhe estere senza più limiti in Italia Entrate fiscali a rischio

8 April 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 marzo 2022 di Maurizio Caprino

Liberalizzazione. Con la legge europea cade il divieto di guida per i residenti Scatta la corsa ai veicoli immatricolati in altri Paesi per ottenere sconti fiscali

Apparentemente è solo una possibile stretta sulla platea dei prossimi incentivi auto. Ma l’esclusione delle imprese (e di tutte le altre persone giuridiche, tranne le società di car sharing) dai beneficiari dei contributi statali all’acquisto di vetture nuove, se confermata nei prossimi giorni dal testo definitivo del Dpcm la cui bozza è stata anticipata dal Sole 24 Ore il 23 marzo, rischia di segnare una svolta negativa in Italia. Non solo per il mercato dell’auto (nel 2021 gli acquisti delle aziende sono stati il 37,5% del totale), ma anche per il Fisco. Perché alla lunga molti potrebbero togliergli gettito, decidendo di circolare con targa estera: da una settimana, farlo è perfettamente legale per chiunque senza alcun vincolo, se registra il veicolo e tiene a bordo un documento.

A spingere verso questa scelta, c’è una coincidenza con le difficoltà di trovare auto, per la mancanza di materie prime e microchip causata dalla pandemia e dalla guerra. Non sembra invece essere un problema il possibile protrarsi del pluridecennale divieto di piena detraibilità dell’Iva (articolo in basso).

L’ok alle targhe estere

Insomma, c’è un sovrapporsi di novità legislative ed eventi cui probabilmente nessuno ha pensato abbastanza. L’elemento scatenante è la rettifica alla stretta sui “furbetti della targa estera” che era stata data con il Dl 113/2018. Per adeguarsi alle norme europee, la Legge europea 2019 (la n. 238/2021) ha modificato gli articoli 93, 94, 132 e 196 del Codice della strada ed è stato aggiunto l’articolo 93-bis. Alcune novità sono in vigore dal 1° febbraio, ma il nuovo regime è pienamente in vigore dal 18 marzo.

In linea di principio, si è passati da un divieto di guidare sul territorio nazionale veicoli con targa estera per chi risieda in Italia da più di 60 giorni a (articolo 93-bis) un obbligo di immatricolare con targa italiana il proprio veicolo entro tre mesi (chi era residente da prima del 1° febbraio deve mettersi in regola dal 1° maggio, secondo la circolare 9868U/2022 emanata dalla direzione centrale Specialità della Polizia il 23 marzo). La chiave di tutto sta nel fatto che, nel nuovo regime, l’immatricolazione in Italia si può evitare se il conducente residente in Italia non coincide col proprietario (residente all’estero): in questo caso, si è in regola se si tiene a bordo un documento con data certa firmato dal proprietario, che indichi a che titolo e per quanto tempo il conducente può utilizzare il veicolo. Se il diritto di questi a disporre del mezzo «supera un periodo di 30 giorni, anche non continuativi, nell’anno solare», titolo e durata dell’utilizzo vanno registrati in un nuovo archivio, tenuto dal Pra: il Reve (Registro veicoli immatricolati all’estero).

I vantaggi del nuovo regime

Dunque, basta poter documentare un comodato, un noleggio o un leasing con una persona o un operatore stranieri e iscrivere il veicolo al Reve per poter circolare in Italia all’infinito, senza problemi. Certo, non sarà più la cuccagna di prima: le multe potranno essere notificate all’indirizzo italiano dell’utilizzatore del mezzo, che sarà tenuto a pagarle davvero. Ma, almeno in parte, non si sarà soggetti al Fisco italiano.

Innanzitutto, ad oggi non è richiesto il pagamento nè dell’Ipt (Imposta provinciale di trascrizione) né del bollo auto (che va alla Regione) e dell’eventuale superbollo, nonostante il nuovo comma 4-ter dell’articolo 94 del Codice istituisca nel Pra un elenco dedicato alle targhe estere, a fini fiscali.

Perdite rilevanti anche per l’erario statale: il veicolo viene acquistato in un Paese europeo (a scapito peraltro della rete commerciale italiana e del suo indotto) da un soggetto che vi risiede, fruendo spesso di un’Iva inferiore a quella italiana (si veda la tabella sopra) e magari di un incentivo all’acquisto che negli acquisti in Italia rischia di non esserci più per tutta la tornata di bonus che sta per iniziare (e che durerà fino al 2030). Anche se in alcuni Stati l’operazione non conviene perché ci sono anche altre pesanti tasse sull’immatricolazione.

Sembrano invece ininfluenti le limitazioni italiane alla detraibilità dell’Iva sui costi di acquisto e utilizzo dei veicoli per le imprese: per i contratti di durata superiore a 30 giorni, valgono le regole italiane a prescindere dal Paese in cui il mezzo è stato immatricolato.

Il caso del noleggio

Qui s’innestano le altre coincidenze. Già per la prossima estate l’Aniasa (l’associazione confindustriale di noleggiatori e car sharing) ha invitato i turisti a prenotarsi per tempo, lasciando anche intendere che ci sarà un aumento dei prezzi, soprattutto in Sardegna e Sicilia: le difficoltà nella produzione delle auto non consentono di avere flotte adeguate alla domanda. Per rimediare almeno in parte, d’estate si potranno trasferire in Italia vetture da Paesi meno turistici.

Ma a questo punto lo schema potrebbe ripetersi anche a regime: le nuove regole del Codice della strada sono state interpretate da Polizia e Aci (circolare del 15 marzo) in modo da ammettere la possibilità per gli operatori di dare in noleggio in Italia anche veicoli che essi stesso hanno preso a noleggio all’estero.

L’Italia ha tutto il diritto di penalizzare fiscalmente la mobilità privata, per ragioni sia di debito pubblico sia di tutela dell’ambiente. Ma le nuove regole sui veicoli con targa estera rischiano di spiazzarla.

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San Marino verso storico accordo fiscale con il Regno Unito

8 April 2022

Il Sole 24 Ore 9 marzo 2022 di Simone Filippetti

Visita di Stato con Johnson: si esamina l’accordo sulla doppia imposizione

La Gran Bretagna e San Marino sono più vicine: la repubblica del Titano va verso un epocale accordo sul fisco. I due paesi stanno trattando per stipulare un trattato sulla doppia imposizione: chi paga le tasse a San Marino non dovrà pagarle nel Regno Unito; e viceversa. Il reciproco riconoscimento tributario di fatto apre le porte della ricca Inghilterra, e di Londra, a San Marino: la leva fiscale è oggi una delle armi più importanti nella competizione tra paesi per attrarre i paperoni globali. Gli inglesi sono usciti dalla Ue l’anno scorso, il piccolo paese appenninico non ne ha mai fatto parte. La comunanza, lo avvicina all’orbita inglese. La firma del trattato, secondo indiscrezioni, è attesa per i primi di aprile. Ieri, una delegazione della Rocca è stata ricevuta una Londra, in una visita di Stato che per la lillipuziana nazione è già di per sé memorabile.

I due capitani reggenti, Francesco Mussoni e Giacomo Simoncini, hanno varcato la soglia del 10 di Downing Street per incontrare il primo ministro Boris Johnson in persona; e Lord Chamberlain, l’ufficiale a capo della Casa Reale, in veste della Regina Elisabetta II. Oltre all’emergenza della guerra in Ucraina, i capi di Stato hanno discusso delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il micro-stato dell’Adriatico, che si fregia di essere la più antica repubblica d’Europa, ha inviato una richiesta di accordo fiscale con la Gran Bretagna. L’accordo, che fonti vicine alla trattativa danno in dirittura d’arrivo, ha anche un forte significato geo-politico: significherebbe il riconoscimento ufficiale di San Marino, un’ammissione nell’Olimpo dei paesi grandi e affidabili. Per decenni la repubblica romagnola è stata vista e percepita come una sorta di paradiso fiscale dentro al territorio italiano. Lo sdoganamento fiscale anglosassone equiparerà il piccolo paese alla stessa Italia, con cui esiste da decenni un trattato sulle doppie imposizioni. Ma soprattutto innescherà un effetto a cascata: sulla scia di Uk, anche altri paesi potranno siglare accordi fiscali con San Marino. Il reciproco riconoscimento faciliterà anche futuri investimenti inglesi nel micro-stato romagnolo: su eventuali capitali che arriveranno nella Rocca, non ci sarebbero rischi che HMRC, il temibile fisco inglese, possa sollevare problemi o contestazioni.

Il regista della visita e del futuro accordo è Maurizio Bragagni: l’imprenditore toscano di Pieve Santo Stefano riveste il ruolo di console di San Marino nel Regno Unito. Forte delle sue relazioni nel partito Tory (è esponente di spicco degli Italian British Conservatives), sta da tempo, dietro le quinte, cucendo una laboriosa diplomazia tra i due paesi. Il culmine del lavoro è un futuro accordo che farebbe uscire San Marino da una zona grigia per presentarsi come paese affidabile e trasparente.

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La cessione di beni intra–Ue non imponibile ai fini Iva

8 April 2022

Un artigiano, che svolge l’attività di tappezziere in Italia, riceve da una ditta tedesca del tessuto per eseguire il rivestimento di panche destinate ad arredo di gelaterie. I fusti delle panche sono realizzati dall’artigiano su disegno del committente Ue, e gli stessi sono tappezzati con il tessuto fornito dal cliente tedesco. Al termine della lavorazione, l’artigiano si reca in Germania per consegnare le panche rivestite ed eseguire il montaggio delle stesse in loco.

Ai fini Iva, l’operazione si deve considerare come prestazione di servizi, ex articolo 7–ter del Dpr 633/1972, oppure come cessione intracomunitaria, ex articolo 41, comma 2, lettera A del Dl 331/1993, considerato che il valore del materiale fornito dall’artigiano è prevalente rispetto a quello del materiale ricevuto in conto lavoro dal committente comunitario?

B.G.TREVISO

L’operazione descritta si qualifica come cessione intra–Ue, non imponibile ex articolo 41, comma 1, lettera c, del Dl 331/1993.

Secondo quanto precisato dalla circolare ministeriale 13/1994, la base imponibile della cessione è costituita dall’importo complessivo, comprendente sia il valore del bene che quello del montaggio in loco.

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Non c’è esterovestizione per l’impresa che ha oltreconfine una sede effettiva

8 April 2022

Il Sole 24 Ore 3 Marzo 2022 di Alessandro Germani

Le ultime letture di Entrate e Cassazione sulle fittizie localizzazioni all’estero

Un check sulla catena partecipativa per stabilire la residenza della holding

La localizzazione all’estero delle strutture societarie deve essere sempre effettiva e genuina per evitare contestazioni, che tuttavia vanno sempre adeguatamente supportate in relazione al presunto vantaggio fiscale che il contribuente vorrebbe perseguire. In tema di pianificazione estera occorre distinguere le casistiche di residenza fiscale effettiva e di esterovestizione. Può essere il caso di una holding estera che controlli una società italiana. Per stabilire l’effettiva residenza della holding occorrerà fare un check sull’intera catena partecipativa e sulla residenza dei componenti dell’organo amministrativo. Due recenti pronunce di prassi e di giurisprudenza consentono di trarre alcuni elementi utili. Vediamole in dettaglio.

Le Entrate

La risposta n. 27 del 17 gennaio 2022 ha riguardato una società Alfa estera controllata al 51% da una società italiana e amministrata da due persone fisiche delle quali una residente in Italia e l’altra all’estero. Nel caso di specie non si trattava neppure di una holding, non avendo partecipazioni in Italia. La norma dell’esterovestizione (articolo 73, comma 5-bis, del Tuir) introduce una presunzione relativa di residenza in Italia di una società estera che controlla, ex articolo 2359, comma 1, del Codice civile, società ed enti residenti in Italia, se, in alternativa:

è controllata, anche indirettamente, ex articolo 2359, comma 1, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

è amministrata da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Quindi perché scatti la presunzione di esterovestizione occorre che l’estera, che controlla l’italiana, sia a sua volta controllata da un’altra italiana o amministrata prevalentemente da soggetti italiani. Questo è il quadro di riferimento che bisogna focalizzare.

Se dunque a valle Alfa non controlla alcuna società italiana, la precondizione della norma sull’esterovestizione non è integrata e la disciplina non si applica. Correttamente le Entrate fanno presente che l’esterovestizione è fattispecie ben differente dalla residenza fiscale di una società, stabilita dal comma 3 dell’articolo 73, determinata dal fatto di avere la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta. Come dire che una struttura può definirsi esterovestita se controlla una società italiana e a sua volta è controllata sempre da una società italiana o amministrata prevalentemente da italiani. Ma nulla toglie che quand’anche non sia esterovestita possa comunque considerarsi da parte del fisco italiana se si prova che in realtà è solo fittiziamente localizzata all’estero. Qui va fatta una valutazione caso per caso.

La Cassazione

Veniamo ora alla sentenza della Cassazione n. 4463 dell’11 febbraio 2022 dove i giudici di legittimità in un caso di presunta esterovestizione hanno dato ragione al contribuente in quanto, trattandosi di una norma con finalità antielusive, sta all’Agenzia di provare che l’obiettivo preponderante da parte del contribuente sia quello di conseguire un vantaggio fiscale.

La Cassazione ha di fatto avallato il giudizio della Ctr Lombardia. Infatti la società estera è una holding lussemburghese che ha sempre svolto la propria attività di gestione delle partecipazioni. In questo caso l’Amministrazione, colpevolmente, non si è neppure preoccupata di identificare il vantaggio fiscale conseguito o conseguibile con la collocazione artificiosa della sede sociale in Lussemburgo e non in Italia. Non basta, infatti, reperire nella controllata italiana una documentazione «sporadica e discontinua» che appare insufficiente a dimostrare l’esterovestizione. Militano poi a favore del contribuente anche la residenza estera della maggioranza dei consiglieri d’amministrazione e l’imposizione fiscale cui la società Alfa è sottoposta in Lussemburgo. Un’artificiosa localizzazione estera deve infatti rispondere a un trattamento fiscale di favore (Cassazione 16697/19 e 2869/13) e lo scopo essenziale dell’operazione deve limitarsi all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (causa C-419/14, W. Kft). Perché di contro il contribuente sarà sempre libero di scegliere la soluzione che gli consenta di ottimizzare il carico fiscale. Quindi una localizzazione estera può essere contrastata dalla norma nazionale solo se l’obiettivo è quello di contrastare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica (causa C-196/04 e Cassazione 33234/18). I paletti posti dalla Cassazione a favore del contribuente appaiono molto netti.

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È il puro artificio la prova di esterovestizione

8 April 2022

Il Sole 24 Ore 16 marzo 2022 di Laura Ambrosi

La localizzazione in un Paese con fiscalità più vantaggiosa non è operazione elusiva

La localizzazione della sede di una società in un Paese con un minor carico fiscale non costituisce di per sé un’operazione elusiva, tanto meno se la tesi è fondata solo sullo svolgimento in Italia dei servizi amministrativi. L’esterovestizione, infatti, sussiste se all’estero c’è una creazione di puro artificio priva di sostanza economica. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8297 depositata ieri.

Ad una società con sede in Lussemburgo veniva notificato un accertamento con il quale era contestata una esterovestizione e conseguentemente tassato in Italia il relativo reddito.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito lo annullava. In particolare, la Ctr rilevava che lo svolgimento dei servizi amministrativi in Italia non era di per sé sufficiente a dimostrare l’esterovestizione, poiché sussistevano altri elementi che confermavano l’effettiva attività all’estero.

L’Agenzia impugnava la decisione in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata applicazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che per esterovestizione si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, più precisamente in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso. Tale comportamento, però, è abusivo solo se ha come risultato l’ottenimento indebito del vantaggio fiscale. Occorre a tal fine il riscontro dello scopo essenziale dell’operazione.

Tuttavia, in base ai principi unionali, il contribuente può sempre scegliere tra due operazioni, non essendo obbligato a preferire quella che implica il pagamento di imposte superiori. Egli, infatti, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale.

In riferimento alla localizzazione all’estero della residenza, secondo il principio di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in un determinato Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa, non costituisce di per sé un abuso di tale libertà. Ne consegue così che una misura nazionale che restringa la scelta è ammessa soltanto se riguarda le costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta del territorio nazionale (Cassazione 33234/2018).

Nella specie, il giudice di merito aveva correttamente applicato i citati principi rilevando che l’Ufficio non aveva prospettato l’indebito vantaggio conseguito dall’asserito abuso perpetrato attraverso la sede estera. Da qui la conferma dell’illegittimità della pretesa.

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