Il reato prescritto obbliga a revocare il sequestro di beni

8 March 2019

Il Sole 24 Ore 19 FEBBRAIO 2019 di Laura Ambrosi

Corte di Cassazione

Il provvedimento deve essere contestuale alla pronuncia del giudice

Se il reato tributario è prescritto, il giudice che rileva l’estinzione del delitto deve revocare anche il sequestro o la confisca per equivalente disposta sui beni riconducibili all’imprenditore.
A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 7260 depositata ieri.
Alcuni imprenditori ritenuti amministratori di fatto e di diritto di una società venivano condannati in primo grado per dichiarazione infedele dei redditi e occultamento di scritture contabili. Conseguentemente era disposta la confisca per equivalente dei beni precedentemente sequestrati.
La corte di appello, adita dagli imputati, riformava la pronuncia in quanto rilevava l’intervenuta prescrizione del reato di dichiarazione infedele e quindi diminuiva la pena precedentemente irrogata, ma confermava la confisca disposta sui beni in sequestro appartenenti a uno dei due imprenditori.
Era così proposto ricorso per cassazione lamentando tra l’altro che stante la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, essa non poteva essere confermata, come aveva erroneamente affermato la corte territoriale, una volta esclusa la rilevanza penale del fatto per intervenuta prescrizione.
I giudici di legittimità hanno accolto questo motivo di impugnazione: dichiarando il proscioglimento dell’imputato per il reato di dichiarazione infedele stante l’intervenuta estinzione per prescrizione del delitto, la corte di Appello oltre a rideterminare la pena da irrogare doveva anche revocare l’avvenuta confisca dei beni sequestrati
In altre parole il giudice nel momento in cui rileva l’intervenuta prescrizione non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che hanno costituito il prezzo o il profitto del reato.
Di conseguenza se dichiara l’estinzione del reato per prescrizione deve contestualmente revocare la confisca per equivalente, essendo venuto meno il sequestro cautelare per effetto della decisione, e disporre la restituzione all’avente diritto dei beni erroneamente vincolati
La sentenza è interessante perché i procedimenti per reati tributari si caratterizzano di sovente sia per il sequestro per equivalente, nella fase delle indagini preliminari, nei confronti dell’imprenditore di un importo pari al profitto del reato, sia per la loro (non rara) estinzione per intervenuta prescrizione.
In queste ipotesi la Cassazione chiarisce in modo netto che la confisca, e quindi il precedente sequestro, diventa illegittima e deve essere disposta la restituzione dei beni.

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Licenziamento esteso ai fatti extra-lavoro

8 March 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 25 FEBBRAIO 2019 di Marcello Floris

CONTENZIOSO

Il comportamento estraneo alla prestazione può ledere la fiducia del datore

Contano anche le azioni commesse in passato o in altri periodi professionali

Le condotte estranee all’attività lavorativa che il lavoratore ha tenuto persino prima dell’assunzione possono essere tali da giustificare il licenziamento per giusta causa. È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 428 del 10 gennaio 2019. Nel caso specifico, un dipendente, già licenziato in seguito a un procedimento penale, era stato riassunto dopo un accordo conciliativo, ma poi era stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti differenti, sempre commessi prima del nuovo rapporto. Il lavoratore è stato dunque licenziato di nuovo e il suo ricorso è stato infine respinto dalla Corte.
Analogamente, con la sentenza 4804 del 19 febbraio 2019, la Corte ha ritenuto che una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile possa costituire giusta causa di licenziamento, anche se il riflesso sul rapporto di lavoro è solo potenziale.
La lesione del vincolo fiduciario
Da sempre la giusta causa di licenziamento si verifica quando è irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro. La fiducia è quindi condizione per la permanenza del rapporto e può essere compromessa non solo da specifici inadempimenti contrattuali, ma anche da condotte extralavorative che, non riguardanti direttamente l’esecuzione della prestazione, possano comunque ledere il vincolo fiduciario, qualora abbiano un riflesso sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.
I comportamenti passati
Sulla base di questo ragionamento – secondo la Corte – a maggior ragione ha rilevanza la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione. In questo caso, può essere riconosciuta una giusta causa di licenziamento, poiché essa non si riferisce solo alla condotta disciplinare, ma anche a quella che, estranea al rapporto lavorativo, si riveli incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario sul quale lo stesso si fonda.
Le condotte extralavorative che possono essere rilevanti ai fini dell’integrazione della giusta causa di licenziamento riguardano tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all’instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate.
Il rilievo disciplinare
Con la sentenza 21958 del 10 settembre 2018, la Cassazione aveva ritenuto che anche una condotta illecita extralavorativa del prestatore potesse avere rilievo disciplinare, e pertanto anche dar luogo alla più grave delle sanzioni, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a evitare, fuori dell’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario. Tuttavia, in quel caso, la Corte ha ritenuto che tali principi non fossero applicabili nel caso di maltrattamenti nei confronti di familiari da parte del dipendente, anche se accertate con sentenze penali di condanna, poiché costui non aveva mai tenuto comportamenti aggressivi o violenti in ambito lavorativo.
Con la sentenza 30328 del 18 dicembre 2017, invece, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore, condannato penalmente per avere indotto alla prostituzione una sua collega di lavoro in condizioni di minorazione psichica. I principi applicati sono simili a quelli già illustrati.
La condotta illecita extralavorativa può avere rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non mettere in atto, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso. Nel caso specifico, la condotta complessiva del lavoratore era stata ritenuta di gravità tale da rescindere con effetto immediato il vincolo fiduciario.
Come si vede da questo rapido excursus la giurisprudenza ha applicato con costanza, sostanzialmente, gli stessi parametri interpretativi.
Gli esiti però sono variati in modo significativo, in seguito alla differente valutazione che i giudici hanno dato della condotta di ciascun lavoratore e dell’impatto che la stessa ha avuto sul vincolo fiduciario e, conseguentemente, sul rapporto di lavoro.

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Raddoppio dei termini black list senza retroattività

13 February 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore – 31 01 2019 di Laura Ambrosi

Investimenti e attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate si presumono redditi sottratti a tassazione solo dal 2009 in quanto la norma non può considerarsi retroattiva. A confermare questo principio è la Cassazione con la sentenza 2562/2019 depositata ieri (clicca qui per consultarla ).

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato dall’agenzia delle Entrate con il quale venivano contestati maggiori redditi per il 2005 derivanti da alcune disponibilità finanziarie detenute in un paese a fiscalità privilegiata.

La pretesa era fondata sulla presunzione introdotta dall’articolo 12 del Dl 78/2009 secondo il quale gli investimenti e le attività finanziarie detenute all’estero in paesi black list e non dichiarate nel quadro RW, si presumono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia. Peraltro, tale norma, ha previsto che per l’accertamento di tali redditi l’ordinario termine di decadenza sia raddoppiato.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario, eccependo tra i diversi motivi, l’inapplicabilità della norma per il periodo di imposta 2005.
Si trattava, infatti, di una applicazione retroattiva della disposizione introdotta solo nel 2009.

Entrambi i collegi di merito rigettavano le doglianze del contribuente, il quale ricorreva così in Cassazione. La Suprema corte, confermando l’orientamento già espresso, ha ribadito che tale norma in vigore dal 1° luglio 2009 non ha efficacia retroattiva in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, poiché ha introdotto delle nuove presunzioni.
Una diversa interpretazione, infatti, pregiudicherebbe il diritto di difesa rispetto alla scelta del contribuente di conservare un certo tipo di documentazione probatoriamente rilevante.
In tale contesto, va segnalato che con la sentenza nr. 33223/2018 dello scorso dicembre i giudici di legittimità avevano altresì chiarito che si tratta di una norma che pone in favore del fisco una presunzione legale relativa con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

L’interessato, quindi, per evitare l’imposizione è tenuto a fornire documentazione che potrebbe non aver conservato, attesa l’inesistenza di una norma simile prima della sua introduzione. Per tale ragione, la disposizione ha carattere sostanziale e come tale non può essere applicata retroattivamente.

La decisione è particolarmente importante perché, nonostante qualche precedente in tal senso, l’agenzia delle Entrate è ferma nel ritenere la retroattività della presunzione in argomento.

 

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Esterovestizione, rilievi più difficili

13 February 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 14 GENNAIO 2019 di Andrea Alcara e Raul-Angelo Papotti

ULTIMO COMMA

A seguito della recente pronuncia della Corte di cassazione sul caso D&G (Cassazione 33234 del 21 dicembre 2018, si veda Il Sole 24 Ore del 22 dicembre) e di svariate recenti verifiche dell’agenzia delle Entrate e della Guardia di finanza, le contestazioni in fatto di esterovestizione sono ritornate sotto i riflettori degli operatori.
Con riferimento al contenzioso che ha interessato i noti stilisti, i giudici di legittimità hanno confermato i principi già tracciati dalla Suprema Corte in sede penale (Cassazione 43809 del 30 ottobre 2015) negando nella fattispecie in esame la sussistenza dell’esterovestizione con il rigetto delle motivazioni addotte dalla commissione tributaria regionale, la quale aveva concordato con la tesi avanzata dall’ufficio circa l’ubicazione della sede amministrativa (rectius: sede effettiva) della società lussemburghese – proprietaria dei marchi – presso gli uffici della controllante italiana.
Sulla base dei principi dettati in ambito comunitario (ex multis C-196/04 e C-73/06), gli ermellini hanno sancito che non è sufficiente riscontrare che la sede effettiva della società estera sia in realtà localizzata in Italia essendo lo Stato dal quale si originano e sono profusi gli impulsi gestionali e le direttive amministrative. Invero, è necessario che la società estera sia una costruzione di puro artificio che non svolga una effettiva attività economica. Pertanto, ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del Tuir, i verificatori hanno l’onere di provare congiuntamente che:
la sede effettiva sia situata in Italia;
e vi sia l’impiego di una struttura meramente artificiosa ove la forma giuridica non è rappresentativa della realtà economica.
Inoltre, in applicazione del principio cardine di libertà di stabilimento, la Corte ha evidenziato che, qualora una società sia stata creata in uno Stato membro Ue per fruire di una legislazione più vantaggiosa, detta circostanza non costituisce per se un abuso di tale libertà dimodoché sia comunque necessario provare l’artificiosità della struttura estera, a prescindere dalla sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle di natura tributaria.
In merito alla localizzazione della sede effettiva, la giurisprudenza comunitaria e domestica individuano la sede nel luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente (ad esempio il luogo in cui partono gli “impulsi volitivi”) e, nello specifico, ove si svolgono le assemblee, le riunioni degli amministratori e quello in cui si adottano le politiche generali della società. In tale esercizio, bisogna tenere conto anche di altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento delle attività finanziarie e bancarie (sul punto, si veda la circolare 1/2018, volume III della Guardia di finanza, capitolo 11). Ciò posto, nella prassi amministrativa, si presume talvolta l’ubicazione della sede amministrativa sic et simpliciter nel luogo ove originano e si definiscono gli indirizzi strategici senza valutare adeguatamente l’eventuale struttura operativa impiegata nell’implementazione di detti indirizzi e posta a presidio dell’attività ordinaria. Su tale aspetto, la risposta del 12 aprile 2010, protocollo 3-3873, fornita dall’agenzia delle Entrate nell’ambito del progetto pilota sulla corretta attuazione del diritto comunitario (caso 777/10/Taxu), chiarisce opportunamente che l’attività di coordinamento e indirizzo della controllante deve essere distinta dagli atti di concreta amministrazione afferenti l’ambito della gestione operativa svolta in loco dalla società estera, rilevando a tal proposito l’effettivo grado di autonomia funzionale di quest’ultima. In conseguenza, ove dimostrata che la gestione operativa sia svolta all’estero, la circostanza che gli indirizzi strategici siano emanati dall’Italia non dovrebbe assumere particolare valenza in ottica accertativa della potenziale esterovestizione della consociata estera.
Alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali di legittimità, sarebbe auspicabile l’adeguamento della prassi accertativa ai principi di matrice comunitaria tracciati dalla Corte di cassazione, i quali richiedono notevole cautela da parte dei verificatori in sede di contestazioni di esterovestizione di società non residenti ove stabilite all’interno dell’Unione europea.

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Due miliardi di patrimoni esteri non dichiarati nel quadro RW

13 February 2019

Il Sole 24 Ore 12 GENNAIO 2019 di Marco Mobili e
Giovanni Parente

ACCERTAMENTO

Dai controlli delle Entrate su 160 soggetti un maggior imponibile di 520 milioni

Attività investigative grazie anche ai dati delle voluntary e ottenuti da altri Stati

roma
Non sono bastate due voluntary disclosure a far emergere del tutto i patrimoni detenuti illegalmente all’estero. Le indagini condotte dall’agenzia delle Entrate, in sinergia costante con la Guardia di Finanza, hanno fatto emergere nell’anno appena concluso, nei confronti di 160 soggetti, una maggiore base imponibile Irpef di 520 milioni circa . Ma soprattutto, gli uffici del Fisco hanno accertato omesse indicazioni di attività finanziarie ai fini del monitoraggio fiscale per oltre 1,85 miliardi di euro. In sostanza quasi due miliardi di patrimoni celati ancora all’amministrazione finanziaria e tenuti nascosti oltre confine.
Le attività investigative e di analisi, con particolare attenzione a quelle di contrasto a modalità di evasione ed elusione messi in atto da soggetti particolarmente a rischio, sono state orientate soprattutto verso fenomeni di residenza estera fittizia e di trasferimento o detenzione di attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, che si concretizzano con la compilazione del quadro RW del modello Redditi. I principali strumenti utilizzati per nascondere i patrimoni all’estero sono ancora trust e società di comodo.
A indirizzare i controlli e le analisi di rischio su cui concentrare i recuperi di gettito sono state soprattutto le informazioni raccolte con le due operazioni di rientro dei capitali. Con le direttive impartite già nel 2016, infatti, l’Agenzia aveva disposto l’utilizzo delle dichiarazioni di emersione della voluntary per procedere con successive attività di analisi e rilevazione statistica delle condotte evasive più diffuse (soprattutto quelle che prevedono lo spostamento all’estero di risorse e investimenti) e di profilazione di fenomeni ad alta pericolosità fiscale.
Mentre un’altra fonte d’innesco è rappresentata dallo scambio dati , anche grazie all’area sempre più estesa del common reporting standard (Crs) ossia il meccanismo di il sistema di condivisione automatica dei dati a carattere finanziario dei contribuenti.
Rimanendo sempre sul fronte della fiscalità internazionale hanno giocato un ruolo importante gli accordi sui prezzi di trasferimento, i cosiddetti «Apa» (Advanced pricing agreement, unilaterali o bilaterali) e le procedure amichevoli per l’eliminazione della doppia imposizione (Mutual agreement procedure o Map). Le istanze sugli Apa presentate nel 2015 sono state 109 e gli accordi conclusi 23, mentre nel 2018 l’Agenzia ha ricevuto 156 istanze e ha concluso 45 accordi.
Per le Map, le Entrate hanno ereditato dal dipartimento delle Finanze il compito di sottoscrivere gli accordi con le amministrazioni estere contro le doppie imposizioni. Nel 2016 l’Agenzia ha discusso 22 casi e sottoscritto 14 accordi. Lo scorso anno sono state presentate direttamente 189 istanze di Map e sono stati discussi 153 casi con 85 accordi accordi.

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Il residente in Cina non paga per le plusvalenze in Italia

9 November 2018

Il Sole 24 Ore del 17 settembre 2018 di Fabrizio Cancelliere

Fisco Internazionale

Sono fiscalmente residente in Cina. Ho delle plusvalenze su titoli detenuti presso una banca italiana. La banca non applica la ritenuta del 26% (regime dichiarativo), in quanto sono residente estero, e afferma che dovrei dichiarare le plusvalenze e pagare la relativa tassa in Cina, in base alla tassazione locale. In Cina, tuttavia, i redditi prodotti fuori dal Paese non sono tassati. Significa che, nel mio caso, non dovrei pagare alcuna tassa sulle plusvalenze?
C.P.MILANO
La soluzione è corretta, visto che le plusvalenze su partecipazioni non qualificate realizzate nel 2018 da un soggetto residente in uno Stato “white list” qual è la Cina, non sono imponibili in Italia, in base all’articolo 5, comma 5, del Dlgs 461/97.

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