Residenza fiscale, il frazionamento del periodo d’imposta resta al palo

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore 26 marzo 2024 di Antonio Fiorentino Martino Paolo Scarioni

Negli scorsi mesi, tra gli operatori era molto alta l’aspettativa che, nell’ambito della riforma fiscale, il legislatore delegato introducesse – in relazione alla residenza fiscale delle persone fisiche – una norma domestica sul cosiddetto split year; aspettativa poi disattesa, poiché il decreto Fiscalità internazionale di fine anno (Dlgs 209/2023) nulla ha previsto in proposito. Eppure sarebbe una disposizione necessaria.

Per comprenderne le ragioni, deve ricordarsi che in base all’articolo 2, comma 2 del Tuir si ha la residenza fiscale in Italia se uno dei criteri di collegamento col nostro territorio è soddisfatto anche solo «per la maggior parte del periodo d’imposta»; in quel caso, si è considerati fiscalmente residenti per l’intera annualità. Questa “unitarietà” del periodo d’imposta genera qualche insidia nell’anno in cui avviene il trasferimento del contribuente all’estero, o il suo ingresso in Italia: l’impossibilità di frazionare l’anno in due parti può provocare, infatti, non solo fenomeni di doppia imposizione, ma anche fenomeni di doppia non imposizione.

Quanto ai primi, si pensi al caso di un contribuente fiscalmente residente in Italia, che nella seconda parte del 2024 migri in uno Stato estero per intraprendervi un’attività lavorativa, e che, in virtù della normativa interna di tale ultimo Stato, acquisisca lì la residenza fiscale a decorrere dalla data del trasferimento: i redditi di lavoro prodotti all’estero verranno tassati sia in Italia (perché qui il soggetto è stato residente per la maggior parte del 2024), sia nello Stato estero, avendo acquisito la residenza fiscale dal giorno del suo arrivo.

Vero è che tale doppia imposizione può essere superata attraverso i meccanismi approntati dalle Convenzioni. Tuttavia, il rimedio solitamente adottato, ossia il credito d’imposta, non è sempre “perfetto”: in virtù di esso, la doppia imposizione talvolta viene rimossa solo parzialmente, laddove all’estero il reddito sia tassato con un’aliquota d’imposta inferiore rispetto a quella Irpef, o sia calcolato in modo differente rispetto a come avviene in Italia, e talaltra non è eliminata affatto, come nei casi in cui il medesimo reddito sia assoggettato a tassazione in Italia tramite imposta sostitutiva o ritenuta a titolo d’imposta (sebbene la Cassazione abbia di recente espresso un’apertura: si veda la sentenza 25698/2022).

C’è da dire che il Commentario al modello Ocse (al punto 10 del commento all’articolo 4) consente agli Stati contraenti di adottare una disposizione di split year, in base alla quale il contribuente di uno Stato, espatriato nell’altro Stato in corso d’anno, mantiene la residenza fiscale nel primo fino alla data del trasferimento, e diviene fiscalmente residente nel Paese di destinazione solo a decorrere dal giorno successivo.

A oggi, però, sono solo due le convenzioni sottoscritte dall’Italia che si avvalgono di tale facoltà, ossia quella in vigore con la Svizzera e quella in vigore con la Germania; e ciò comporta che la regola del frazionamento non possa ritenersi operante in tutti i restanti trattati, come confermato già da tempo dall’agenzia delle Entrate (risoluzione 471/2008) e, più di recente, dalla Corte di cassazione (ordinanza 25690/2023). Cosicché l’introduzione di una disposizione domestica avrebbe consentito senz’altro di evitare le accennate problematiche.

Una tale disposizione – e veniamo così al secondo inconveniente procurato dalla sua assenza nell’ordinamento – avrebbe anche l’effetto di prevenire fattispecie di doppia non imposizione.

Si pensi, ad esempio, a un contribuente italiano che si trasferisca nella prima parte del 2024 in uno Stato estero ove è prevista, per norma interna, la regola dello split year, o che adotta un periodo d’imposta difforme dall’anno solare (è quanto accade nel Regno Unito, ove il periodo d’imposta inizia il 6 aprile e termina 5 aprile dell’anno successivo). Qualora egli, nel corso dei primi mesi dell’anno, prima dell’espatrio, avesse realizzato un capital gain dalla cessione di partecipazioni non qualificate in società italiane (o anche estere), tale plusvalenza non sarebbe imponibile in Italia, in quanto verrebbe realizzata da un soggetto che per il 2024 è fiscalmente “non residente” nel nostro Paese, essendoci rimasto per meno di 183 giorni; la legge italiana esclude, infatti, che tale tipologia di plusvalenze sia territorialmente rilevante in Italia per i non residenti (lo stabiliscono l’articolo 5 del Dlgs 461/1997, quanto ai soggetti residenti in Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni, e l’articolo 23 del Tuir, quanto a tutti i non residenti, in relazione alle partecipazioni in società residenti quotate). Al contempo, la medesima plusvalenza non verrebbe assoggettata a tassazione neppure nel Paese estero di destinazione, poiché – proprio in virtù dello split year sancito dalla disciplina interna di tale Paese – il medesimo soggetto diverrebbe ivi residente solo a partire dalla data del suo trasferimento.

Simili vicende di doppia non imposizione possono essere evitate solo intervenendo sul piano della normativa domestica: esse, infatti, non sono in alcun caso risolvibili neppure nell’ipotesi in cui lo split year sia contemplato dalla Convenzione in essere tra i due Paesi, dal momento che le disposizioni pattizie non possono mai fondare un presupposto impositivo, o individuare una residenza fiscale, altrimenti inesistenti sulla base delle norme interne. Pertanto, per riprendere l’esempio illustrato, la plusvalenza non potrà essere tassata in Italia neppure ove realizzata da un soggetto poi spostatosi in Germania o in Svizzera.

Doing business in San Marino

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