Manager frontaliero con fiscalità svizzera
7 Luglio 2022
Il Sole 24 Ore 7 giugno 2022 di Alessandro Galimberti
L’ad di un gruppo brianzolo con casa e famiglia in Ticino non paga le tasse in Italia
Il fisco italiano non può avere pretese sul manager frontaliero con casa e famiglia in Canton Ticino e con carica di amministratore delegato in un’azienda brianzola a pochi chilometri dal confine. Nonostante il centro di affari e le fonti di reddito del (presunto) contribuente siano completamente riferibili alla giurisdizione italiana, i criteri di appartenenza dettati dalla Convenzione dell’Ocse e da quella sulle doppie imposizioni sottoscritta tra Roma e Berna, corredati dalla giurisprudenza nazionale, portano dritto all’erario svizzero.
La Corte di cassazione (V Civile, ordinanza 18009/22, depositata ieri) torna ancora una volta sulla delicata questione di vicinato geografico, linguistico e fiscale tra il nord della Lombardia e il Sottoceneri del cantone italofono, per ribadire la prevalenza dei criteri oggettivi di individuazione tributaria rispetto a facili suggestioni argomentative.
Il caso, che si riferisce ad accertamenti ormai più che ventennali (1999-2004) tenuti in vita da ripetuti gradi di giudizio, riguardava un dirigente poi ad di un noto marchio manifatturiero della Brianza d’arredo. Secondo l’Ufficio, che pure era già stato disatteso da tutte le Commissioni tributarie adite, il centro d’affari del manager e le sue entrate italianissime dovrebbero guidare l’interprete, senza dimenticare che l’inserimento della Svizzera (tuttora sopravvivente) nella black list del Dm 4 maggio ’90 comporta un’inversione dell’onere della prova, appunto, presuntiva. Il (mancato) contribuente proprio per questo aveva allegato l’iscrizione all’Aire, il contratto di mutuo d’acquisto della casa di abitazione in Ticino, la scuola frequentata dal figlio (Zurigo) e il posto di lavoro della moglie (Lugano), infine le bollette per utenze. Sufficiente per le Ct, ma non per l’agenzia fiscale italiana.
Il domicilio secondo la Cassazione si determina non solo – come sostenuto dall’Ufficio nel ricorso -in base alla sede principale degli affari e degli interessi economici, ma anche (e con peso quantomeno equivalente) laddove il cittadino/contribuente coltiva le sue relazioni personali «dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche di quelli personali» (Cassazione 6081/19 e 29576/11, tra le altre).
Le censure dell’ordinanza colpiscono poi direttamente anche la apodittica esclusione, operata dalle Entrate nei suoi ricorsi, dei dettami della Convenzione Ocse (paragrafo 4) per la determinazione e per la risoluzione dei casi controversi – criteri peraltro trasfusi nella Convenzione italo svizzera contro le doppie imposizioni, ratificata con la legge 943/78. In caso di residenza «di fatto» in entrambi gli Stati, secondo le Convenzioni, prevale la giurisdizione di quello in cui c’è l’abitazione permanente, e se anche questo criterio non basta (perché non risolutivo) si passa a quello dove sono gli «interessi vitali» e infine, in caso di persistente parità e come ultima ratio, laddove la persona «soggiorna abitualmente».