I costi pubblicitari sproporzionati non sono deducibili
7 Febbraio 2022
Il Sole 24 Ore 29 gennaio 2022 di Dario Deotto e Luigi Lovecchio
Per i giudici occcorre rifarsi alle dimensioni dell’azienda
La spesa di pubblicità di entità abnorme rispetto agli interessi ed alle dimensioni dell’impresa non è inerente e dunque non è deducibile.
Con la sentenza n. 2597 depositata ieri, la Corte di cassazione ridimensiona i suoi precedenti in termini sulla nozione di inerenza, tornando per certi versi alla posizione assunta dalla stessa giurisprudenza prima del 2018.
La vicenda affrontata dalla Corte riguardava una spesa di pubblicità ritenuta incongrua dall’Ufficio e ammessa in deduzione solo in quota minoritaria.
Al riguardo, i giudici hanno preso le mosse dagli ultimi arresti giurisprudenziali sul tema, secondo cui l’inerenza non trova legittimazione nell’articolo 109 comma 5 del tuir, trattandosi di un principio posto a fondamento del reddito d’impresa. In sostanza, l’inerenza dovrebbe essere meglio considerata come un concetto “pre giuridico” che delinea il collegamento tra la spesa e il programma d’impresa del contribuente.
In forza di tale impostazione, si è pertanto affermato che la valutazione dell’inerenza richiede una indagine di tipo essenzialmente qualitativo e non quantitativo, sebbene l’eventuale sostenimento di costi anti economici è stato dalla medesima Corte ritenuto indizio dell’assenza di inerenza degli stessi.
Con la sentenza in commento, la Corte precisa innovativamente che in realtà la nuova e la vecchia impostazione sull’istituto in esame non divergono poi molto. Ciò perché, sebbene l’inerenza richieda non già un giudizio ex post sull’effetto della spesa in termini di ricavi conseguiti – dovendosi tener conto del rischio d’impresa – bensì una valutazione prognostica dell’impatto della stessa sull’attività commerciale, laddove questa evidenzi la sproporzione del costo emergerebbe comunque l’estraneità del componente negativo rispetto al reddito d’impresa. Si afferma in particolare che il concetto di inerenza richiede la prova dell’utilità del servizio remunerato, così di fatto smentendo i precedenti in termini della stessa Corte, a partire dall’ordinanza n. 450/2018.
Non può d’altro canto sottacersi come questo nuovo indirizzo di legittimità si ponga altresì in evidente contrasto con i principi ben delineati dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 262/2020.
In tale pronuncia, la Consulta ha infatti correttamente rilevato che il legislatore ha identificato per gli imprenditori il presupposto dell’imposizione nel possesso di un “reddito complessivo netto”.
Tale indice di capacità contributiva risulta caratterizzato dal principio di inerenza, che giustamente la stessa Consulta individua in quel giudizio di carattere qualitativo, che opera su un livello “preventivo” generale e più alto rispetto alle singole disposizioni del Tuir, essendo volto a cogliere se si realizza quel necessario collegamento, anche in via prospettica, tra il componente economico e l’attività imprenditoriale.