Europa, Stati Uniti, Giappone: impennata per i tassi dei bond
9 Settembre 2025
L’inflazione non pare del tutto ancora domata, negli Stati Uniti e anche in alcuni paesi europei come la Germania, e condiziona l’umore degli investitori. Il dato pur in linea con le attese registrato ieri dall’indice dei prezzi al consumo personali statunitensi (+2,6% annuo a luglio e +2,9% nella sua versione core depurata dale componenti più volatili) mantiene il livello del carovita al di sopra degli obiettivi della Federal Reserve. Non mette verosimilmente a rischio il taglio dei tassi da 25 punti base, ormai largamente scontato a settembre, ma pone qualche dubbio in più sulle mosse successive della Banca centrale di Washington.
Sotto questo aspetto si può quindi interpretare la reazione negativa dei mercati, con la battuta d’arresto di Wall Street rispetto ai massimi storici raggiunti ancora una volta il giorno precedente che ha a sua volta frenato i già incerti listini europei (Piazza Affari ha ceduto lo 0,59% in buona compagnia del resto del Continente). E soprattutto la continua pressione sui rendimenti dei titoli di Stato, ieri in avanzata in tutte le aree del globo: due punti base in più per i Treasury Usa (4,23%), tre per i Bund tedeschi (2,72%) e per il nostro BTp (3,61%).
L’avanzata dei tassi
A differenza dei tassi dei titoli a scadenza più ravvicinata, che proseguono più o meno nella loro marcia verso la riduzione perché più sensibili ai 91 tagli dei tassi compiuti finora da inizio anno dalle Banche centrali (il ritmo di allentamento più sostenuto dal 2020 a livello globale), quelli con durata più lunga mostrano infatti una strenua resistenza. Dopo il balzo seguito all’aggressivo ciclo rialzista necessario per domare l’incendio dell’inflazione post-Covid, i tassi decennali sembrano per esempio ormai da almeno due anni congelati fra il 4 e il 5% negli Stati Uniti e fra il 2 e il 3% in Germania, tanto per citare due titoli che per la loro importanza fanno da metro di paragone per il mercato.
Altrove il fenomeno appare ancora più marcato: nella Francia alle prese con crisi di governo e finanze che rischiano di finire fuori controllo, oppure in una Gran Bretagna dove si sta valutando l’introduzione di nuove imposte per sistemare il bilancio e i tassi trentennali si sono spinti ai massimi del 2008 al 5,60 per cento. In Giappone su questa parte della curva si sono addirittura raggiunti nei giorni scorsi i massimi storici al 3,25% e la Banca centrale è dovuta correre al riparo con acquisti anche per tamponare la scarsa domanda che ha fatto saltare alcune aste pubbliche.
Il peso di inflazione e bilanci
Al di là delle questioni specifiche – alle quali si può idealmente aggiungere anche il caso del calo di fiducia che ha colpito gli Stati Uniti dopo l’annuncio dei dazi da parte di Donald Trump nel Liberation Day e l’incertezza legata alla continua sfida con la Fed e il suo presidente Jerome Powell – due sono gli indubbi elementi che accomunano il mondo intero e accompagnano ovunque l’avanzata dei rendimenti obbligazionari. Il primo motivo, come conferma la reazione ai dati di ieri, riguarda direttamente la persistenza dell’inflazione dopo anni, se non decenni, di livelli mediamente inferiori agli obiettivi desiderati dalle banche centrali, che si erano di conseguenza impegnate in politiche monetarie ultra-espansive tali da condurre in molti casi all’anomalia di valori addirittura sotto zero per i rendimenti sovrani.
La seconda ragione riguarda il ritorno in grande stile all’utilizzo della leva fiscale da parte dei Governi, anche dei più «insospettabili» come quello tedesco, che per finanziare le spese programmate hanno dovuto aumentare i livelli di debito e, conseguentemente anche le emissioni di titoli di Stato. A livello globale, secondo i dati più recenti pubblicati dal Global Debt Monitor dell’Institute of International Finance e aggiornati al 31 marzo di quest’anno, l’indebitamento complessivo del settore pubblico è cresciuto nel giro di mesi da 91.500 a oltre 97mila miliardi di dollari e si sta avvicinando sempre di più alla fatidica quota 100% rispetto al Pil (si è ormai arrivati al 97,9%).
Gli Stati Uniti giocano sotto questo aspetto senza dubbio il ruolo guida, con un debito federale che viaggia ormai a un livello record di 37mila miliardi: una montagna addirittura più alta rispetto al Pil combinato di Cina, Giappone, Germania e India. Anche gli altri Paesi recitano però la propria parte, nelle aree avanzate del globo come l’Europa la Gran Bretagna e lo stesso Giappone, ma anche nel mondo emergente. Il debito pubblico è in questo caso cresciuto di 3.300 miliardi, per un rapporto con il Pil che si è spinto fino al 72,7% e la Cina a fare da capofila con una quota rispetto alla ricchezza nazionale balzata in un anno di quasi 10 punti al 93,5 per cento.
La risposta dei mercati
Il maggior quantitativo di titoli di Stato destinato a piovere sui mercati nei prossimi anni per soddisfare il fabbisogno di bilanci pubblici sempre più elefantiaci tende in effetti a esercitare pressione sui rendimenti. Alla crescente offerta di carta corrisponde tuttavia un appetito ancora piuttosto marcato da parte degli investitori, attirati probabilmente da tassi di interesse che non si vedevano da tempo. Dall’inizio del 2025, secondo le rilevazioni di Epfr Global riportare da BofA Securities, i bond governativi sono stati in grado di attirare flussi netti in entrata per 24,8 miliardi, oltre 1,5 miliardi ancora l’ultima settimana. Le forze di mercato sembrano insomma in grado di sostenere gli sforzi degli emittenti sovrani e in parte anche di correggere certi eccessi provocati dai Governi, almeno per il momento.