Dai social network alle foto su internet: così il Fisco incastra con le web prove

13 Febbraio 2020

Il Sole 24 Ore lunedì  27 GENNAIO 2020 di Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente

Contrasto all’evasione

Sentenze dei giudici e circolari delle Entrate danno spazio crescente ai dati raccolti online

Restano incognite legate alla «veridicità» delle informazioni pubblicate su siti pubblici

L’ultimo caso è quello di un Comune abruzzese – Pineto, in provincia di Teramo – che è riuscito ad accertare l’imposta di pubblicità non versata per quattro anni grazie ad alcune foto scaricate da Google Street View. Le immagini, in particolare, mostravano un veicolo su cui era installato un cartellone pubblicitario e la Cassazione (ordinanza 308/2020) ha respinto le obiezioni del contribuente, che contestava l’utilizzabilità delle foto (si veda l’articolo in basso). Con un piccolo paradosso, è uno dei tanti modi in cui i giganti del web – spesso accusati di evadere le imposte in Italia – offrono indirettamente informazioni preziose al Fisco.

Finte Onlus e case dai prezzi sgonfiati

L’agenzia delle Entrate ha ammesso il ricorso alle «fonti aperte» (compresi siti e social network) fin dalla circolare 16/E del 2016. Tra le applicazioni citate, c’è l’utilizzo del web come fonte di informazioni sulle caratteristiche degli immobili compravenduti e sulla zona in cui si trovano. Come dire: un elemento a rinforzo delle quotazioni rilevate dall’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi). Il tutto con l’obiettivo di scovare chi ha sottodichiarato il prezzo di acquisto di un fabbricato (al di fuori dei casi in cui scatta il “prezzo valore”).

Anche la Guardia di finanza, nella circolare 1/2018, diramata a fine 2017, menziona gli «elementi non risultanti dalle banche dati», facendo riferimento – ancora – alle «fonti aperte». Concetto poi ripreso nelle Linee guida per la programmazione 2020 delle Entrate, che chiedono ai funzionari degli uffici perifierici di cercare le finte Onlus monitorando, tra l’altro, i siti internet «che pubblicizzano l’offerta di prodotti o servizi commerciali, come i centri benessere, la gestione di palestre, piscine» o magari cinema e teatri.

L’utilizzo «sartoriale» e gli algoritmi in Francia

Quello che si delinea nei documenti del Fisco italiano è un uso “sartoriale” di internet, in cui il personale dell’Agenzia – con tutti i limiti di organico aggravatisi negli ultimi tempi – è chiamato a individuare le immagini e i dati che  inchiodano il contribuente.

Diversa è invece la via intrapresa dalla Francia, che punta a un utilizzo “industrializzato”. La legge di Bilancio 2020 trasalpina (articolo 154) prevede, infatti, la raccolta e l’analisi automatizzata dei dati pubblicati dai cittadini sui social network.

Il ministro Gérald Darmanin ha salutato la norma – ritenuta compatibile con i diritti dei cittadini dal Conseil constitutionnel – come un’utile strumento antifrode. Tra gli esempi circolati durante il dibattito parlamentare ci sono quelli dei falsi residenti all’estero che pubblicano continuamente messaggi o condividono contenuti dal territorio francese. Ma si potrebbe anche pensare a un riscontro di compatibilità tra il tenore di vita risultante dai social e il reddito dichiarato. Per ora, comunque, si tratta di una sperimentazione triennale.

Anche il Fisco francese, comunque, pare orientato a raccogliere solo dati già pubblici. Pure Oltralpe, infatti, la collaborazione diretta con i big di internet si rivela a dir poco complicata. Come dimostra anche il contenzioso sulla legge francese in tema di locazioni brevi, in cui la Corte di giustizia europea a fine 2019 ha dato ragione al portale Airbnb. Sulla normativa italiana, invece, il giudizio comunitario è ancora pendente, ma è chiaro che una maggiore collaborazione con i portali sullo scambio semplificherebbe (e di molto) l’attività antievasione delle agenzie fiscali.

Le informazioni raccolte

Di certo, i dati, una volta raccolti, si rivelano utilissimi al Fisco. Le cronache giudiziarie sono ricche di casi in cui i giudici hanno ammesso l’uso degli elementi digitali. Un caso ormai storico è quello deciso dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa (sentenza 136/2/2007), con cui il Fisco ha incastrato una società che faceva rimessaggio di imbarcazioni grazie a Google Earth: le immagini aeree scattate a distanza di tempo mostravano un numero di scafi ben superiore a quello su cui erano state pagate le imposte. Una pronuncia più recente è quella della Corte d’appello di Brescia (1664/2017) in cui un contribuente è stato incastrato dai propri post su Facebook, che dimostravano spese incompatibili con il reddito dichiarato.

C’è poi il filone delle cause di divorzio, in cui i social vengono usati per documentare i guadagni dell’ex coniuge che si professa nullatenente o quasi. Dalla sentenza 331/2017 della Corte d’appello di Ancona alla 295/2015 del Tribunale di Pesaro (si veda Il Sole 24 Ore del 30 dicembre 2017). In tutte queste situazioni i giudici hanno superato le classiche obiezioni all’ammissibilità della documentazione raccolta online: la “pubblicità” del web (considerato «piazza immateriale» dalla Cassazione già con la sentenza 37596/2014) e l’assenza di “data certa”.

Doing business in San Marino

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