Cinque lezioni da memorizzare per il futuro

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 26 agosto 2020 di Mariano Corso (Responsabile Scientifico Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano)

L’emergenza Covid-19 ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare. Milioni di lavoratori hanno sperimentato un diverso modo di lavorare, un’esperienza che è destinata a lasciare una traccia indelebile, perché ha abbattuto pregiudizi e cambiato attitudini e aspettative di imprese e persone verso l’organizzazione del lavoro. Per preservare la salute e al tempo stesso garantire continuità dei servizi, imprese e Pubbliche Amministrazioni hanno dovuto superare schemi e routine e far lavorare le loro persone da remoto.

Le organizzazioni che avevano già introdotto modelli di smart working si sono trovate indubbiamente avvantaggiate, le altre hanno dovuto improvvisare. Nessuno però era davvero preparato a una discontinuità che è stata radicale per tutti: prima del Coronavirus, infatti, lo smart working riguardava una percentuale molto contenuta dei lavoratori, appena 600.000 sui 18 milioni di dipendenti in Italia, e prevedeva un ricorso al lavoro a distanza in media di un solo giorno alla settimana che veniva prevalentemente riservato ad attività di concentrazione o lavoro individuale.

Con la pandemia tutto è cambiato: tra lockdown e successiva ripartenza oltre 6 milioni di lavoratori hanno sperimentato un lavoro da remoto a tempo pieno, trovandosi improvvisamente a dover svolgere a distanza ogni attività, comprese quelle di collaborazione e relazione interpersonale che in precedenza avevano sempre assunto richiedessero una copresenza fisica in ufficio.

Si è trattato di un gigantesco test organizzativo i cui esiti sono stati per certi versi sorprendenti: non solo il 68% di lavoratori ha dichiarato di essere riuscito a portare avanti tutte le attività, ma i livelli di efficacia, nonostante l’improvvisazione, sono stati valutati da manager e lavoratori come molto positivi, spesso superiori a quelli precedenti. Attratte dai benefici in termini di produttività e costi sperimentati, moltissime imprese e PA stanno ripensando i propri modelli organizzativi, inserendo in modo strutturale la possibilità di lavorare da remoto. Certamente non sono mancate le criticità, in gran parte attribuibili alla impreparazione e alla necessità di accompagnare e rendere più bilanciato e sostenibile il cambiamento.

Quello che in molti si sono trovati a sperimentare, spesso in maniera improvvisata, non è infatti il “vero” smart working, ma una forma di lavoro da remoto estremo e vincolato, nella quale sono venuti a mancare quei presupposti di volontarietà e flessibilità che sono alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di smart working.

Oggi a qualche mese dall’inizio della pandemia è possibile e opportuno fare un primo bilancio dell’applicazione dello smart working durante l’emergenza per trarne alcune lezioni da applicare nei prossimi mesi e nel futuro. Cinque sembrano le principali lesson learned che meritano attenzione:

1.La capacità di lavorare a distanza utilizzando strumenti e canali digitali è una condizione essenziale di resilienza per organizzazioni, le persone e il Paese nel suo insieme. L’applicazione dello smart working, seppure improvvisata, ha salvato una parte importante dell’economia del Paese. I danni avrebbero potuto essere molto più contenuti se si fosse arrivati all’emergenza maggiormente preparati dal punto di vista culturale, tecnologico e manageriale, tutte condizioni che oggi, a valle di questa esperienza, sarebbe irresponsabile non costruire.

2.L’adozione forzata dello smart working durante la pandemia ha dimostrato che un diverso modo di lavorare è possibile. Milioni di lavoratori hanno imparato quanto possa essere non solo possibile, ma anche efficace lavorare da remoto. Oggi si può e si deve fare tesoro di questa esperienza per disegnare nuovi modi di lavorare, più efficaci, resilienti e sostenibile.

  1. L’emergenza ha permesso di fare in pochi mesi un percorso accelerato di sviluppo di competenze digitali che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato a utilizzare strumenti di collaborazione avanzati, a fruire di servizi digitali, a comunicare, formarsi e relazionarsi efficacemente attraverso canali digitali. Non si deve tornare indietro, ma cogliere questa disponibilità per diffondere maggiormente quelle competenze e attitudini digitali la cui carenza è riconosciuta come uno dei principali ostacoli alla modernizzazione del Paese.
  2. Molti lavoratori e manager hanno compreso l’importanza di una maggiore autonomia e responsabilizzazione sugli obiettivi. L’aspetto più apprezzato dai lavoratori è stata proprio la possibilità di organizzarsi in autonomia e misurarsi sui risultati piuttosto che su orari e adempimenti. Sulla base di questa esperienza si devono oggi ripensare i contratti di lavoro, fermi a logiche novecentesche di cui sempre più lavoratori e imprese non riconoscono il senso.
  3. Lo smart working rende possibili nuovi e più sostenibili modelli di vita ed urbanizzazione, apre nuove possibilità ad aree del nostro Paese fino ad oggi escluse dai principali circuiti economici nazionali e internazionali. Anche a livello locale diventa possibile riscoprire periferie, piccoli centri e territori extra urbani, con benefici potenzialmente enormi in termini sociali e ambientali. Attuare questo potenziale richiede però di colmare quei gap di infrastrutture di connettività che, se non rimossi, rischiano nel futuro di pesare ancora di più sulla possibilità di sviluppo.

Forti di queste lezioni è ora di passare al “vero” Smart Working, un modello capace di bilanciare lavoro in presenza e a distanza e di rendere le nostre organizzazioni più competitive e il nostro Paese più moderno, inclusivo e resiliente.

 

Doing business in San Marino

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