Chi posta sui social commenti offensivi rischia la diffamazione aggravata

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 11 gennaio 2021 – Giustizia e Sentenze

DIRITTO E WEB

Carcere fino a tre anni o multa: il punto sui confini della rilevanza penale

Si configura anche il reato di sostituzione di persona se si usa un falso profilo

Attenzione a lasciarsi coinvolgere in battibecchi sui social perché lanciare in rete post offensivi può costare una condanna per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità.

Il reato è quello previsto dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale che punisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro) chi offenda l’altrui reputazione comunicando con un mezzo di pubblicità. Per i giudici, infatti, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Così, uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se – per tenore letterale o contenuto – sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte.

A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la giurisprudenza.

Le pronunce

Scatta la diffamazione aggravata, ad esempio, per chi con un post visibile a tutti i suoi contatti offenda l’ex accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli (Tribunale di Torino, 299/2020).

Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come «un miserabile» bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020) o per chi, nella spasmodica ricerca di «giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti», denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo (Tribunale di Ascoli Piceno, 90/2020).

Condannato anche chi – riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro – pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo «viscido e senza spina dorsale» (Tribunale di Taranto, 123/2020).

Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno «pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare» per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020).

Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima. Sfuggirà a responsabilità penale, pertanto, chi – interagendo sulla piattaforma di Youtube – auguri a un dottore che aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay, eventualità che nella realtà non riveste un connotato spregievole (Cassazione, 17944/2020).

Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico.

Prova e risarcimento

Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la paternità, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma – diffidato dalla persona offesa – ha provveduto a rimuoverlo.

La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa (Tribunale di Vicenza, 1673/2020).

Falso profilo

Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato (Cassazione, 22049/2020).

Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host).

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