Amministratore di fatto anche chi dà direttive via Skype senza mai presentarsi in azienda

7 Luglio 2022

Il Sole 24 Ore 27 giugno 2022 di Giovanbattista Tona

I criteri della Cassazione su come individuare i soggetti titolari reali della carica

Non è necessaria la prova del suggerimento diretto delle scelte gestionali

Il marito dell’amministratrice di diritto di una società, che in collegamento Skype, pur senza mai recarsi in azienda, suggerisce alla moglie quali determinazioni assumere nella gestione della società deve essere considerato un amministratore di fatto. Non è inoltre necessaria la prova del diretto suggerimento delle scelte gestionali: bastano indizi univoci dello svolgimento delle attività proprie dell’amministratore.

Sono alcuni dei chiarimenti forniti dalla Cassazione in due recenti sentenze (la n. 18442 del 10 maggio e la n. 20553 del 26 maggio), che si inseriscono in una lunga scia di decisioni sull’individuazione delle responsabilità nei reati societari, tributari e fallimentari di chi assume la qualità di amministratore o ne esercita di fatto i poteri.

Le regole

È già l’articolo 2639 comma 1 del Codice civile che al soggetto formalmente investito della qualifica equipara «sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualità o alla funzione». Tale norma, che riguarda in particolare i reati societari, cristallizza il principio penalistico della rilevanza delle funzioni effettivamente esercitate, al quale si dà frequente applicazione nei procedimenti per reati fallimentari, considerando secondario il dato delle formali attribuzione di poteri per nomina dell’assemblea o per disposizione statutaria (Cassazione 7437/2020).

La giurisprudenza

La giurisprudenza attribuisce la qualifica di amministratore di fatto in presenza di elementi sintomatici dell’inserimento organico di un soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale.

Non è necessaria la prova del diretto suggerimento delle scelte gestionali al formale titolare della carica sociale. Possono essere sufficienti univoci indizi dello svolgimento diretto o indiretto delle attività proprie dell’amministratore.

La Cassazione (sentenza 20553/2022) ha considerato amministratore di fatto un soggetto, che, dopo essere stato per diversi anni amministratore di diritto, era stato formalmente sostituito dal padre ultra ottantenne invalido, ma continuava a detenere in casa sua la documentazione contabile e aveva curato la presentazione delle dichiarazioni fiscali.

Conta la concreta attività svolta: l’amministratore che prende le decisioni sulla base di direttive impartite anche da remoto, va considerato quindi una “testa di legno”, mentre chi gli suggerisce le scelte aziendali va qualificato amministratore di fatto (sentenza 18442(20229). E non può bastare nemmeno l’essere destinatario di una procura generale ad negotia con i più ampi poteri, conferita dall’amministratore formale, se poi tali poteri non vengono esercitati (Cassazione 4865/2021).

Tale indagine può consentire di qualificare anche il mero socio come amministratore di fatto: nella vicenda esaminata dalla sentenza n. 19874 del 20 maggio, il titolare di una quota sociale si era adoperato perché i propri familiari acquistassero le restanti quote, aveva influenzato l’amministratore di diritto nel determinare la messa in liquidazione dell’azienda e aveva esercitato il potere di firma sui conti correnti della società, mantenendolo persino dopo la nomina dei liquidatori.

D’altro canto l’assunzione meramente formale del ruolo di amministratore non esonera dalla responsabilità penale per i reati di fatto commessi da chi effettivamente gestisce la società. Lo ricorda la coeva sentenza n. 19875 a carico di una persona che, pur non animata da scopo di lucro, aveva fatto da prestanome alla sorella e al cognato, protestati e, quindi, interdetti dalle cariche societarie. L’avere agito per consentire loro di eludere il divieto legale, unito al sostanziale e prolungato disinteresse per la società, è stato ritenuto un contributo concorsuale alla realizzazione dei reati commessi dagli amministratori di fatto.

In base al principio già posto dalla Cassazione con la sentenza 32413/2020, ad integrare il dolo del concorrente nel reato, è sufficiente la generica consapevolezza dell’amministratore formale, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività compiute dalla società per il tramite degli amministratori di fatto.

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